Un giorno senza donne

Che il Messico non sia il paese più amichevole del mondo con le donne non è una novità. Ma l’efferatezza degli ultimi due feminicidi, quello di un ragazza di 25 anni – privata successivamente degli organi interni dal suo fidanzato/aguzzino – e di una bambina di 7 anni, sono stati il fattore scatenante di nuove proteste in tutto il paese. E della chiamata a uno sciopero generale di tutte le donne messicane il prossimo 9 marzo con lo slogan: “un dia sin nosotras”, un giorno senza di noi. L’America Latina è forse il continente dove si possono trovare le donne più potenti e, allo stesso tempo, più maltrattate. Negli ultimi anni sono state diverse le presidenti elette in vari paesi – un numero molto più alto rispetto all’Europa – e allo stesso tempo i movimenti femministi e di difesa dei diritti hanno dato incredibili passi avanti al punto di fare scuola a molti altri Stati considerati, sulla carta, “primo mondo”. In Argentina ci sono alcuni comportamenti che non vengono proprio tollerati e il vicino Cile segue la stessa strada, soprattutto negli ultimi tempi,  a partire dallo sciopero delle studentesse universitarie contro gli abusi di un professore fino ad arrivare al flash mob “uno stupratore sul tuo cammino” del “colectivo las tesis” che ha fatto il giro del mondo, realizzato proprio durante le proteste che da mesi stanno infiammando il paese e minando le certezze del presidente Sebastián Piñera.

Venerdì 6 marzo alle 11.00 Luigi Spinola ne ha parlato con Fausta Speranza, giornalista della redazione esteri dell’Osservatore Romano ed esperta di Messico, autrice del libro “Messico in bilico, viaggio da vertigine nel paese dei paradossi” (ed. Infinito, 2018).

Il volto femminile della fratellanza umana

Esponenti delle diverse religioni rilanciano insieme l’impegno a dare attuazione al Documento di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar. Si sono ritrovate a Roma per firmare una Dichiarazione congiunta per la pace mondiale e la convivenza umana. Con noi rappresentanti della prospettiva musulmana, buddista, ebraica e cattolica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Donne costruttrici di fratellanza umana”: questo il titolo dell’incontro organizzato a Roma – il 3 marzo in prossimità della Giornata internazionale della donna – dall’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Umofc) in collaborazione con il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Un incontro per promuovere l’impegno comune e concreto delle donne di fede sulla via dell’attuazione di quanto contenuto nel Documento firmato da Francesco e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb circa un anno fa. Come ha sottolineato allora lo stesso Francesco, il 4 febbraio del 2019, per la prima volta, un Pontefice ha messo piede nella penisola arabica ed è stato il Papa che ha scelto il nome del poverello di Assisi che, ottocento anni prima, in tempo di crociate, si era recato senza armi in terra musulmana a parlare di pace.

A ricordare la straordinarietà dell’evento di Abu Dhabi e le tappe storiche che lo hanno preceduto è stata la teologa iraniana Shahrazad Houshmand:

Dell’importanza di un impegno interreligioso e del ruolo delle donne ha parlato la vice presidente dell’Unione italiana buddisti Reverenda Elena Seishin Viviani:

La consigliera dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) Sabrina Coen ha sottolineato l’importanza di un impegno a difesa dei valori di fratellanza in un momento storico segnato da un diffuso senso di crisi:

Nella prospettiva femminile è centrale l’impegno educativo, come ha spiegato la Servidora Presidente generale dell’Umofc, Maria Lia Zervino. Nella nostra intervista tra l’altro, sottolinea che il valore principale della Dichiarazione è di essere una risposta alla “chiamata” di Papa Francesco rappresentata dal Documento sulla fratellanza umana:

No alla dittatura dell’algoritmo

“Call for AI Ethics”, appello per un’etica dell’intelligenza artificiale: si chiama così la Carta firmata dall’Accademia per la vita, i vertici di Microsoft, di Ibm, con la partecipazione del Parlamento europeo e della Fao, a conclusione del convegno in Vaticano intitolato “The good Algorithm?”. Con noi monsignor Vincenzo Paglia

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’umanità usi la tecnologia e non viceversa, perché non sia “dittatura dell’algoritmo”. Oltre 450 persone – tra informatici e filosofi, teologi e dirigenti di azienda – si sono ritrovati concordi nel condividere questa raccomandazione che nasce dalla consapevolezza della sfida rappresentata dalla crescente diffusione dei sistemi a cosiddetta intelligenza artificiale. Centrale la riflessione del Papa affidata al messaggio letto in aula dal presidente dell’Accademia per la vita.

 

Per un’intelligenza artificiale umanistica

Salute e diritti: di questo si è parlato in particolare nella seconda giornata del convegno dedicato all’intelligenza artificiale, organizzato in Vaticano dal 26 al 28 febbraio. Oltre 450 gli studiosi a discutere di scienza e di etica. Con noi l’accademico Francesco Profumo.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Fondamenti teorici, metodologie, programmi che fanno sì che un elaborato elettronico assicuri prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’ingegno umano.

E’ questo sostanzialmente quello che si intende per “intelligenza artificiale”. E il punto – dibattuto sotto vari aspetti al convegno, dall’amministrazione a un settore chiave come quello della salute –  è che non si può prescindere da un discorso etico. Il rischio è che si perda la prospettiva di bene comune e – ha sottolineato lo studioso Jay Shaw del Canada – ad esempio valori come la solidarietà. Stephen Hawking  –  fra i più autorevoli e conosciuti fisici teorici al mondo –  nel 2014 ha messo in guardia riguardo ai pericoli in tema di intelligenza artificiale, definendola una potenziale minaccia per la sopravvivenza dell’umanità. L’imprenditore e inventore informatico Elon Musk ha detto: «Dobbiamo essere super attenti all’intelligenza artificiale: potenzialmente più pericolosa del nucleare.»

Delle prospettive problematiche Fabio Colagrande ha parlato con José Juan  Garcia, studioso dell’Accademia per la vita:

Ma non ci sono solo rischi. Con il professor Francesco Profumo del Politecnico di Torino, che è stato presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e  ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, abbiamo parlato dell’evoluzione del concetto di intelligenza artificiale, del rapporto con il grande tema dell’educazione e delle potenzialità:

Di responsabilità, di regole abbiamo parlato con Pier Luigi Dal Pino, portavoce di Microsoft:

Far sì che prevalgano le implicazioni positive rispetto ai rischi è proprio l’obiettivo della carta firmata, a conclusione del convegno in Vaticano, dall’Accademia per la vita, i vertici di Microsoft, di Ibm, del Parlamento europeo. Per un’intelligenza artificiale “umanistica”.

da Vatican NEWS del 27 febbraio 2020

A Idlib in Siria è guerra tra potenze regionali

Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ribadisce che le forze turche “non faranno un passo indietro” e intanto chiama ad Ankara il presidente russo Vladimir Putin per un bilaterale sull’escalation di violenza nel nord ovest della Siria. E’ fallita per il momento l’iniziativa di un vertice a quattro con i leader di Turchia, Russia, Francia e Germania. Con noi l’esperta di politiche del Mediterraneo Stefania Panebianco

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Intensi scontri armati sono in corso nella Siria nord-occidentale tra forze governative sostenute dalla Russia e milizie ribelli appoggiate dalla Turchia. E il presidente, Recep Tayyip Erdoğan, in un discorso al gruppo parlamentare del suo partito Akp ha ribadito: “Faremo arretrare il regime siriano dietro i limiti definiti” della zona di de-escalation negli accordi con la Russia e “permetteremo il ritorno dei civili nelle proprie case”. L’inasprimento militare in corso da settimane, secondo l’Onu, ha già causato 900.000 sfollati.

Attacchi aerei e via terra

Raid aerei di Mosca e Damasco sono diretti contro le zone ancora controllate da combattenti delle opposizioni armate a sud e a est di Idlib. Razzi terra-terra hanno colpito un convoglio militare turco nella zona di Jabal Zawiya danneggiando alcuni mezzi. Almeno 25 persone sono morte e 80 sono state ferite negli attacchi compiuti ieri.

Impasse della politica

In serata sono attesi ad Ankara i colloqui turco-russi. La scorsa settimana il presidente Erdoğan aveva annunciato per il 5 marzo un vertice tra Turchia, Russia, Francia e Germania che però ieri il Cremlino ha smentito. Al momento non ci sono i termini per un confronto rispettivamente tra i leader Erdoğan, Putin, Macron e Merkel. Resta la situazione critica nella provincia nord occidentale della Siria dove l’offensiva che l’esercito di Damasco ha lanciato da aprile si è intensificata a febbraio. La tensione è massima perché nelle ultime settimane sono saltate sul campo alcune delle alleanze contro i ribelli: le forze turche hanno attaccato le stesse forze siriane parlando di sconfinamenti alla frontiera fissata per la zona di de-escalation. In questi giorni un numero imprecisato di soldati turchi sono stati uccisi e altri sono rimasti feriti nei raid aerei russi e governativi. L’offensiva delle truppe governative va avanti con il sostegno di Mosca. Ieri il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha respinto gli inviti a una tregua nella provincia siriana di Idlib. “Sarebbe capitolare di fronte ai terroristi, e persino ricompensarli per le loro attività in violazione dei trattati internazionali e di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu”, ha detto Lavrov al Consiglio per i diritti umani Onu a Ginevra.

Peggiora la crisi umanitaria

Preoccupa la situazione dei civili. Secondo Medici senza frontiere sono state colpite scuole che ospitano famiglie sfollate. Anche Save the Children denuncia il bombardamento di dieci scuole, in cui sono morti una bambina e altre 9 persone. Secondo l’Ong e il suo partner sul campo Hurras Network, alcune scuole colpite erano in funzione, altre erano in pausa per un giorno e altre ancora venivano utilizzate come rifugi. Dall’inizio dell’anno sono già 22 le scuole bombardate, di cui quasi la metà nelle ultime ore. Save the Children e i partner locali stanno continuando a verificare le informazioni sugli attacchi che sarebbero stati lanciati per la maggior parte durante l’orario scolastico. Almeno tre insegnanti sono stati uccisi, mentre decine di altri bambini e almeno sette insegnanti sono rimasti feriti.

Dell’impasse sul piano politico e dell’emergenza umanitaria, abbiamo parlato con Stefania Panebianco, professoressa associata di Politiche di sicurezza nel Mediterraneo:

R. – Mi sembra evidente che la politica che il presidente  Erdoğan sta svolgendo e conducendo nell’area mediorientale – estendosi peraltro fino alla Libia – rappresenta una tradizionale forma di potenza regionale affermata attraverso una guerra tradizionale. In un conflitto “by proxy”, giocato cioè in territorio straniero da due chiari attori quali Russia e Turchia, Erdoğan sta riportando la tradizionale Real politik al centro di tutto. Sta utilizzando tradizionali strumenti di guerra. Non ha timore a utilizzare il suo esercito anche “lontano da casa”. Sono vecchi schemi.

Che margine c’è per altri attori internazionali?

R. – Speriamo che l’intervento dell’Iran che sta tentando di essere una sorta di paciere possa avere un peso. Noi speriamo che possa rientrare in altri sforzi di diplomazia tradizionale, ma la diplomazia tradizionale è in crisi. Per quanto riguarda l’Unione Europea, il nuovo Alto Commissario per gli Affari esteri e le politiche di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha avuto il suo esordio con la Conferenza di Berlino. E’ all’inizio del suo mandato. L’Europa appare debole – e tanto più in relazione alla Brexit – e incapace di fare da leader per una soluzione diplomatica. E dunque l’impasse allo stato rimane l’unica situzione possibile.

Professoressa, resta la drammatica situazione umanitaria a Idlib…

R. – E’ questo il vero problema! Nel momento in cui ci sono attacchi alle scuole, agli asili e dunque i civili sono utilizzati come bersaglio, sono scardinate tutte le regole in base alle quale i civili dovevano essere protetti, dovevano essere lasciati fuori dai conflitti.

da Vatican NEWS del 26 febbraio 2020

Peggiora la condizione dell’infanzia in tutto il mondo

Nessun Paese sta proteggendo adeguatamente la salute dei bambini, l’ambiente in cui vivono e il loro futuro. E’ la denuncia che emerge dal rapporto stilato da oltre 40 esperti della salute dei minori nel mondo, incaricati da una Commissione nominata dall’Oms, dall’Unicef e dalla rivista Lancet. Con noi l’economista Franco Bruni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non sono solo conflitti e siccità a minacciare salute e futuro dell’infanzia in alcune aree più povere del mondo, ma ci sono altri fattori che minano lo sviluppo nelle zone più ricche: dal degrado ecologico alle pratiche abusive di marketing che spingono i giovani consumatori verso i fast food, le bevande zuccherate, l’alcol e il tabacco.

Il dramma dei Paesi poveri

Il rapporto degli esperti fotografa una situazione drammaticamente ben nota nei Paesi a medio e basso reddito: 250 milioni di bambini sotto i cinque anni   rischiano di non raggiungere il loro potenziale di sviluppo, secondo misurazioni indicative sulla malnutrizione cronica e la povertà. In questo caso lo sviluppo, che significa il futuro stesso di questa fetta di umanità è messo a rischio da crisi umanitarie, conflitti, disastri naturali, problemi sempre più legati al cambiamento climatico.

L’inquinamento dell’aria e del cibo nei Paesi più avanzati

Quello che colpisce di più è che la preoccupazione in tema di infanzia riguarda anche i Paesi ad alto reddito dove il marketing commerciale dannoso colpisce i giovanissimi e dove il numero di bambini e adolescenti obesi è aumentato dagli 11 milioni del 1975 ai 124 milioni del 2016. Si tratta di un aumento di 11 volte.

Devono far riflettere alcuni dati: i ragazzini vedono ben 30.000 annunci pubblicitari solo in televisione in un anno. In particolare negli Stati Uniti in due anni l’esposizione dei giovani alla pubblicità delle sigarette elettroniche è aumentata di oltre il 250 per cento, raggiungendo più di 24 milioni di ragazzi. In Australia – solo in un anno di programmi televisivi di calcio, cricket e rugby – gli spettatori minori sono stati esposti a 51 milioni di pubblicità di alcolici.

Se l’ambiente diventa una minaccia

Si deve parlare di questione ambientale e di freno delle potenzialità di sviluppo non solo per le zone degradate dove immaginiamo un inquinamento non regolamentato in nessun modo. Si deve considerare   che per quanto concerne le emissioni di CO2 pro-capite, gli Stati Uniti d’America, l’Australia e l’Arabia Saudita sono tra i dieci Paesi con i dati peggiori. Per quanto riguarda l’Europa, offre la “migliore casa” al mondo per i primi anni di un bambino nato oggi –  otto tra i primi dieci Paesi nell’indice che misura la sopravvivenza e il benessere sono europei –  ma non si può dire altrettanto vincente quando si tratta di misurare le prospettive di un futuro sostenibile. L’intensificarsi dei cambiamenti climatici minaccia il futuro di ogni bambino – Il rapporto include un nuovo indice globale di 180 paesi, comparando i risultati sullo sviluppo dell’infanzia – che comprende le misurazioni della sopravvivenza e del benessere dei bambini, come la salute, l’istruzione e la nutrizione – con l’indice della sostenibilità, una misurazione indicativa delle emissioni di gas serra, e dell’equità, o i divari di reddito. Tutte le questioni citate non possono essere affrontate soltanto dal punto di vista umanitario o sociologico, abbiamo chiesto la valutazione dell’economista Franco Bruni professore ordinario di Teoria e Politica monetaria internazionale all’Università Bocconi di Milano,   vicepresidente dell’Ispi e Co-Head dell’Osservatorio Europa e Governance Globale:

R. – Stiamo parlando della questione al centro del problema economico principale: il mondo ha scarsa attenzione al futuro, il futuro più lontano e questo si riflette immediatamente su una scarsa attenzione all’infanzia. Noi stiamo mettendo il peso della nostra disattenzione e concretamente dei nostri debiti sulle prossime generazioni. E non ci sarebbe niente di più importante dal punto di vista economico e politico di guardare il medio-lungo periodo. L’attenzione a tutto quello che sarà domani purtroppo risulta lontano rispetto alla prospettiva dei periodi elettorali con la quale i nostri politici guardano i problemi.

Che cosa comporterà il fatto che il mondo stia fallendo nel fornire ai bambini una vita sana e un clima adatto al loro futuro?

R. – Pensiamo ai problemi medici dovuti alla cattiva nutrizione, per un verso o per un altro: è un problema ovviamente umano ma anche un problema economico, per l’aumento dei costi e la minore produttività di una generazione esposta a varie forme di inquinamento. Ci sarà   una generazione che sarà costosissima per se stessa, per la sanità pubblica. E’ un problema umano, sociale ed economico. Dovremmo pensare quasi solo alle prossime generazioni e invece stiamo pensando a noi con una visione molto poco lungimirante.

Inoltre, va detto che i paesi in via di sviluppo o emergenti hanno dei problemi diversi da quelli dei Paesi più avanzati ma man mano che in quelle zone del mondo aumenta l’industrializzazione e un certo sviluppo aumentano anche i problemi legati per esempio al cibo spazzatura o all’inquinamento atmosferico.

“Nonostante la salute dei bambini e degli adolescenti sia migliorata negli ultimi 20 anni, i progressi si sono fermati, e sono destinati a tornare indietro”, ha dichiarato Helen Clark, ex primo ministro della Nuova Zelanda e Copresidente della Commissione.  “I paesi devono rivedere il loro approccio alla salute dei bambini e degli adolescenti, per garantire che non solo ci prenderemo cura dei nostri bambini oggi, ma che proteggeremo il mondo che erediteranno in futuro”, ha aggiunto Clark.

Per capire quale sia e quale dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale, abbiamo parlato con Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Massacri in Camerun tra spinte secessioniste e terrorismo

Ancora violenza nelle province anglofone del Camerun, Paese a maggioranza francofona che, da tre anni, è sconvolto da tensioni etnico-linguistiche. Nell’attacco ad un villaggio sono stati massacrati donne e bambini. Il Paese è scosso da tensioni interne in una situazione politica di apparente stabilità e intanto si fa sempre più incombente la pressione dalla Nigeria del gruppo terroristico Boko Haram. Intervista all’africanista Anna Bono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Strage in un villaggio nel nord-ovest del Camerun: uccise 22 persone per lo più bambini, al di sotto dei cinque anni, e donne, una anche incinta. A riferire del massacro è stato James Nunan, capo dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) per le regioni nord-occidentali e sud-occidentali del Camerun. «Qualunque gruppo abbia fatto questo ha aperto una stagione di nuove violenze – hanno detto alcuni funzionari delle Nazioni Unite – e le persone con cui abbiamo parlato sono traumatizzate e non se lo aspettavano». Nessuno ha rivendicato l’assalto, ma un partito di opposizione ha chiamato in causa esponenti dell’esercito. Il governo del Camerun ha però negato qualunque coinvolgimento.  In una dichiarazione, uno dei principali partiti dell’opposizione del Paese, The Movement for the Rebirth of Camerun, ha accusato quello che ha definito “il regime dittatoriale” e il capo delle forze di sicurezza. E Agbor Mballa, figura di spicco nel movimento separatista, ha accusato le forze di difesa dello Stato. Un portavoce dell’esercito ha risposto definendo “false” le accuse.

Delle laceranti tensioni interne,  dell’incombere del gruppo terroristico di Boko Haram e del processo elettorale abbiamo parlato con la studiosa africanista Anna Bono:

Questione anglofona e terrorismo

Non c’è pace nelle due province anglofone di un Paese francofono. Il Presidente del Camerun  Paul Biya  – in carica dal 1982 – è stato accusato di violazioni dei diritti umani nel conflitto nelle province nord-occidentali, dove la maggior parte della popolazione parla inglese ed è legata a tradizioni amministrative britanniche. I gruppi di separatisti armati hanno iniziato a combattere contro le forze dell’ordine di Yaoundé nel 2017 e hanno dichiarato l’indipendenza della cosiddetta Ambazonia, ma il Presidente del Camerun, Biya, ha etichettato i gruppi come “terroristi”. Più di 3.000 persone sono morte nei combattimenti e almeno 70.000 persone sono fuggite dalle loro case.

Ma c’è anche la minaccia terroristica.  Molti villaggi camerunensi vicini al confine nigeriano sono stati distrutti da Boko Haram, il gruppo terrorista di matrice islamica che ormai da qualche anno ha varcato i confini della Nigeria e terrorizza i Paesi vicini, oltre al Camerun, il Niger e il Ciad. Nel solo 2019 il gruppo terroristico ha commesso più di 100 attacchi in Camerun, uccidendo oltre un centinaio di civili. E oltre 270.000 camerunensi sono sfollati a causa delle violenze di Boko Haram. La povertà, l’insicurezza e la mancanza di prospettive future rende i ragazzi obiettivi facili da manipolare per i jihadisti.

La sfida elettorale

In tutto questo contesto, il 9 febbraio 2020 si sono svolte le elezioni legislative e municipali. L’affluenza è stata molto ridotta e non soltanto nelle zone colpite dalle violenze.  La Commissione nazionale per il censimento generale dei voti ha iniziato i suoi lavori oggi, 17 febbraio, più di una settimana dopo le elezioni legislative e municipali. L’annuncio dei risultati deve avvenire entro e non oltre il 29 febbraio dopo aver esaminato gli appelli dei partiti politici che denunciano le irregolarità in cui queste elezioni sembra siano state contaminate. Quaranta richieste di annullamento parziale o totale del doppio scrutinio delle elezioni legislative e comunali del 9 febbraio sono state depositate nel registro del Consiglio costituzionale. A presentare i ricorsi sono stati una dozzina di partiti politici, tra cui il Fronte socialdemocratico (Sdf), l’Alleanza nazionale per la democrazia e il progresso (Andp e persino il Raduno democratico del popolo camerunese (Rdpc), un partito al potere, ma accreditato con un grande anticipo alla prossima Assemblea Nazionale, secondo le prime proiezioni dei risultati.

da Vatican NEWS del 17 febbraio 2020

Preoccupazione per l’escalation di tensione in Siria

Mosca tenta una mediazione tra Damasco e Ankara. Il presidente turco Erdoğan non esclude attacchi in qualunque zona della Siria se soldati turchi “subiranno danni”. Si aggrava la preoccupazione per i civili nella provincia di Idlib, mentre risultano a rischio non soltanto il Memorandum di Sochi ma principi basilari del diritto internazionale. Con noi l’esperto di geopolitica Alfonso Giordano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il Cremlino ha fatto sapere che i Presidenti, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan, hanno discusso al telefono della situazione nella provincia siriana di Idlib e hanno sottolineato la necessità della “piena attuazione degli accordi esistenti tra Russia e Turchia”, compreso il memorandum di Sochi del 17 settembre 2018.

Mosca è intervenuta dopo la forte dichiarazione di Erdoğan ieri. Il Presidente turco ha parlato al gruppo parlamentare del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ad Ankara.  “Da oggi in poi, se i nostri soldati nelle postazioni di osservazione (a Idlib, ndr) subiranno danni, colpiremo le forze del regime siriano ovunque, senza essere vincolati ai confini del memorandum di Sochi”, ha detto sottolineando che l’intervento sarebbe “sul terreno e con l’aviazione”. Dei reali obiettivi di Ankara e della gravità di quanto sta accadendo, abbiamo parlato con Alfonso Giordano, docente di geopolitica e flussi migratori all’Università Luiss:

R. – Questa minaccia viene fatta in maniera deliberata al di fuori di quello che sono i principi del diritto internazionale. Queste cose accadevano anche in passato, ma non venivano così deliberatamente dichiarate. Quindi, in realtà, c’è una voglia di affermazione di potenza regionale da parte della Turchia, a prescindere da quelli che sono i dettami del diritto internazionale, perché è chiaro che si tratta di territorio legalmente siriano. È evidente che si approfitta della debolezza della Siria, ovviamente a causa del conflitto che ha subito negli ultimi anni, ma l’idea di fondo è che c’è una dichiarazione a prescindere da quelli che sono i dettami del diritto internazionale. Quello che manca effettivamente è un coordinamento internazionale e il rispetto delle regole di diritto. La geopolitica cruenta sta avendo il meglio su quello che è il rispetto del diritto internazionale.

Qual è l’obiettivo in questo momento di Ankara?

R. – L’obiettivo è quello di creare quella che adesso loro chiamano zona di descalation, ma che in realtà non è altro che la vecchia zona cuscinetto, cioè un’area controllata da diverse forze per evitare che diventi ancora un’area di criticità, per esempio per gli sfollati; si discute di circa 700.000 persone che si potrebbero dirigere verso il confine turco. Bisogna ricordare che la Turchia, in base all’accordo con l’Europa, accoglie già oltre tre milioni di siriani. Infatti Recep Tayyip Erdoğan ha lanciato un altro messaggio e in questo caso all’Europa. Il messaggio è questo: “Guardate che se disturbate le mie operazioni in quest’area geografica, io posso anche aprire le mie porte verso l’Europa e quindi riversarvi quei siriani e quegli altri rifugiati che invece sto tenendo in casa mia grazie all’accordo fatto dall’Europa con la Turchia”. Bisogna ricordare che quell’area è un’area abitata anche dall’etnia curda. È chiaro che la Turchia ha un problema interno non risolto con l’etnia curda che abita tutta la parte est della Turchia e naturalmente alcune altre aree di Paesi vicini come quello del nord ovest della Siria. Controllare quell’aria significa mantenere i curdi in quell’area, controllare l’area di passaggio appunto tra la Turchia e la Siria significherebbe per Ankara non cedere a un controllo totale dei siriani, come il diritto internazionale vorrebbe, visto che quello è territorio siriano. L’obiettivo è di creare appunto questa zona di descalation utile a controllare geopoliticamente l’area geografica dal punto di vista sia dei flussi migratori sia della presenza dei curdi e di possibili tensioni che possono nascere.

Professore, ricordiamo brevemente i termini del memorandum di Sochi?

R. – Il memorandum implicava appunto una serie di accordi tra i Paesi di quell’area che prevedeva la possibilità di sedersi a un tavolo qualora ci fossero stati degli scontri,  e possibilità di intervento umanitario. Questa intesa evidentemente è saltata, quindi la Turchia vuole affermare la sua potenza regionale, la Russia si presenta come il nuovo unico attore geostrategico di tutta l’area mediorientale di sbocco sul Mediterraneo. E tutto questo è anche dovuto al fatto che c’è l’assenza degli Stati Uniti.

Sembra evidente che nel momento in cui bisognava combattere l’Is erano tutti d’accordo mentre adesso che in qualche modo ci sarà da spartire zone di potere in Siria pensiamo ai porti e ai pozzi petroliferi, questi Paesi poi non sono affatto d’accordo…

R. – È evidente che molte potenze regionali e –  possiamo dire – una potenza più che regionale come la Russia, stanno attendendo di dividere quegli spazi geografici; chi appunto per l’accesso al mare, chi per il controllo dell’area strategicamente vitale per i flussi migratori, chi per controllare un’area abitata e questo è l’interesse soprattutto dei curdi. E’ evidente che quando si trattava di combattere i terroristi questi Paesi avevano trovato l’accordo. Oggi che invece c’è una possibilità di spartizione post guerra della Siria si fanno conteggi e accordi diversi.

da Vatican NEWS del 12 febbraio 2020

Ifad, sostegno ai piccoli agricoltori per combattere la fame e difendere l’ambiente

Ogni giorno 820 milioni di persone soffrono la fame e il divario tra poveri e ricchi aumenta sempre di più. Di questo passo – tra distorsioni delle strategie economiche e disastri ambientali – sarà difficile raggiungere i primi due Obiettivi di sviluppo sostenibile, ovvero eliminare fame e povertà assoluta entro il 2030. Secondo l’Ifad una via c’è: puntare sui piccoli agricoltori . Con noi gli esperti dell’Ifad, Federica Cerulli e Paolo Silveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Conflitti e catastrofi naturali stanno diventando la nuova norma. Sono le persone più emarginate a soffrire maggiormente delle conseguenze dei cambiamenti climatici, ma Gilbert F. Houngbo, Presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad)  sottolinea chiaramente che “la minaccia esistenziale riguarda i sistemi alimentari di tutti”. I dati – presentati nell’ambito del Consiglio dei governatori l’11 e il 12 febbraio  – sono sotto gli occhi di tutti: 45 milioni di persone costrette a fare i conti con una grave crisi alimentare in Africa, terreni agricoli devastati da alluvioni in Europa, l’Australia arsa dalle fiamme. Il quadro è preoccupante ma dal rapporto dell’Ifad 2020 non emergono solo le criticità: si trova un’indicazione precisa di una possibile via da percorrere. Si legge: “La speranza è rappresentata dai piccoli agricoltori che producono reddito e cibo per le persone più povere della terra.”

Le potenzialità dei piccoli agricoltori

Circa la metà delle calorie alimentari del mondo vengono prodotte dai piccoli agricoltori, che coltivano solo il 30 per cento delle terre agricole esistenti al mondo. Questi agricoltori sono fortemente motivati a ottenere il massimo dalle loro terre e dal loro lavoro. Hanno anche la tendenza a coltivare una varietà più ampia di colture adatte alle condizioni locali. Indubbiamente l’agricoltura è influenzata dalle condizioni climatiche e le pratiche agricole hanno un impatto sul clima. Il punto è che l’importanza a livello globale di investire nella piccola agricoltura è spesso sottovalutata. La ricorda ai nostri microfoni Federica Cerulli, funzionaria dell’Ifad:

L’Ifad invita a considerare alcuni elementi chiave: una maggiore varietà nelle colture rende i sistemi agricoli meno vulnerabili alle epidemie causate da parassiti e malattie, migliora la fertilità del suolo e rafforza la capacità di resilienza a siccità e alluvioni. Inoltre, le pratiche agricole rispettose dell’ambiente riducono le emissioni di gas serra e favoriscono la cattura del diossido di carbonio, possono rigenerare le falde acquifere e prevenire frane e tempeste di sabbia.  Il prosperare delle piccole aziende agricole non solo fornisce cibo, ma crea anche lavoro, oltre ad alimentare una domanda di beni e servizi prodotti localmente. E questa domanda, a sua volta, genera opportunità, crescita economica e società più stabili.

Investimenti e strategie

In concreto, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo chiede di riconoscere l’importanza dei piccoli agricoltori e di investire su di loro. E gli studiosi dell’Ifad fanno anche un calcolo preciso: per eliminare la fame nel mondo è necessario investire ogni anno nell’agricoltura 115,6 miliardi di dollari. Eppure all’agricoltura sono destinati solo circa 10 miliardi all’anno, in forma di aiuti pubblici allo sviluppo. L’appello è chiarissimo: se si vogliono davvero eliminare fame e povertà, queste cifre non sono sufficienti. Tra la quantità di investimenti necesari e quella stanziata c’è grande differenza, in particolare in un’area critica come quella dell’America Latina, come spiega nell’intervista Paolo Silveri, economista regionale della Divisione America Latina e Caraibi del Dipartimento per i programmi Ifad:

Puntare sui più deboli invece di trascurarli

L’obiettivo, dunque, è investire proprio sulle persone che hanno maggiore probabilità di essere lasciate indietro: i poveri, i piccoli agricoltori, le donne, i giovani e le popolazioni indigene che vivono in aree rurali isolate, raggiunte di rado dalle iniziative di sviluppo. La modalità possibile è quella di lavorare in partenariato con i governi e con le popolazioni rurali stesse per migliorare le loro possibilità di accedere a servizi finanziari, tecnologia e formazione e far sì che l’agricoltura diventi un’attività sostenibile e che quanti vivono nelle aree rurali abbiano maggiori capacità di resilienza rispetto a condizioni climatiche imprevedibili. Dal rapporto 2020 dell’Ifad si capisce che servono maggiori finanziamenti, più partenariati, modelli finanziari migliori e approcci più inclusivi. L’Ifad sta sollecitando i governi ad adempiere agli impegni presi investendo di più, in modo da permetterci di raddoppiare il nostro impatto entro il 2030.

da Vatican NEWS dell’11 febbraio 2020