Sessant’anni fa, “l’anno dell’Africa”

Nel 1960 ben 17 Paesi, per lo più colonie francesi, ottenevano l’indipendenza. Si apriva un decennio di grande entusiasmo politico, di risultati positivi in termini di crescita, seguito però da anni di braccio di ferro nel contesto della guerra fredda e dall’esplosione di conflitti e di nuove povertà. Con noi lo storico Eugenio Capozzi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nel 1957 il Ghana è il primo Stato dell’Africa non mediterranea ad acquistare l’indipendenza, segue la Guinea nel 1958, ma è il 1960 l’anno dell’Africa: Camerun, Congo ex francese, Gabon, Ciad, Repubblica Centroafricana, Togo, Costa d’Avorio, Alto Volta, Niger, Nigeria, Senegal, Mali, Madagascar, Somalia, Mauritania e Congo ex belga ottengono l’indipendenza.

Le premesse

Dopo decenni passati sotto il controllo dei più potenti Paesi europei, la cui attività di colonizzazione era iniziata tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, e a dieci anni dall’inizio della decolonizzazione in Asia, è il secondo conflitto mondiale ad accelerare il processo di risveglio dei popoli africani. Le promesse di rinnovamento politico vengono mantenute solo in parte dalle potenze coloniali. Francia e Gran Bretagna introducono riforme amministrative che non riescono però a fermare il sorgere di movimenti nazionalisti. Il processo di indipendenza si svolge abbastanza rapidamente tra il 1956 e il 1962. Nel 1951 in Libia viene restaurata la monarchia, nel 1956 Marocco e Tunisia sono indipendenti. Falliscono i tentativi di Parigi di creare una Comunità Francese in Africa e i tentativi inglesi di dare vita a Federazioni nell’Africa Occidentale e nell’Africa Centrale. In Europa nella seconda metà degli anni Cinquanta matura la convinzione che non fosse utile né possibile mantenere gli imperi così com’erano. In un primo momento, infatti, durante i primi anni dopo la seconda guerra mondiale, le potenze coloniali europee avevano fatto il massimo sforzo per conservare i loro imperi. All’inizio della cosiddetta guerra fredda e poi negli anni più significativi del braccio di ferro tra i due grandi antagonisti, Stati Uniti e Unione sovietica, il tema del colonialismo viene politicizzato fortemente e l’accelerazione del 1960 è anche una risposta politica del mondo occidentale.

Si forma una leadership preparata

Si cerca per la prima volta il modo di utilizzare le colonie per fare gli interessi economici delle potenze europee e contemporaneamente renderle politicamente accettabili per le popolazioni che le abitavano. Le colonie africane, oltre ad essere mercati garantiti verso cui indirizzare la macchina industriale europea, erano anche grosse fonti di materie prime indispensabili per l’industria e per il commercio. Ma questo processo comporta che, di fatto, a un certo punto, per la prima volta soprattutto la Francia e il Regno Unito investono nelle colonie. Si lavora per la creazione di istituzioni politiche che potessero avere come orizzonte teorico l’autogoverno, proprio per mantenere il legame.

Dieci anni prima la decolonizzazione in Asia

L’India diventa indipendente nel 1947 e negli anni successivi lo stesso avviene per la gran parte delle colonie dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico. I movimenti indipendentisti in Africa, invece, comparvero tardi. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che si costituirono delle forme di organizzazione propriamente politiche legate all’osservazione e alla condivisione di ciò che era successo in Asia. Prima di allora, nessuno immaginava che gli Stati africani potessero essere indipendenti, ma che al massimo potessero sviluppare forme di rappresentatività della popolazione, di autogoverno e di autonomia, dentro dei confini molto circoscritti. Alla decolonizzazione asiatica si lega la conferenza di Bandung del 1955, che ha avuto un ruolo importante nella formazione di una coscienza comune di quello che iniziava a chiamarsi il Terzo mondo e che ha funzionato da detonatore anche per una certa classe politica africana.

L’importanza di alcune personalità

I risultati non sono gli stessi in tutti i Paesi perché le premesse non sono le stesse. Ad esempio, nell’anglofono Ghana, grande produttore di cacao e caffè, l’attività politica e la proprietà della terra erano già nelle mani degli abitanti, mentre i britannici si occupavano della commercializzazione del prodotto. Inoltre, se è il primo Paese dell’Africa subsahariana a ottenere l’indipendenza è anche grazie alla figura di Kwame Nkrumah, che, ispirandosi a Gandhi, fa della resistenza passiva uno strumento politico. Tra altre personalità africane che in quegli anni si distinguono per spessore culturale e per lo  slancio programmatico, va citato innnazitutto il politico e poeta senegalese Lèopold Sédar Senghor,  primo presidente del Senegal, in carica dal 1960 al 1980.   

Le aspettative deluse

Molti Paesi si ritrovarono indebitati, con un’industrializzazione che non era ancora decollata, e in situazioni in cui gli investimenti avevano assorbito moltissime risorse, a scapito della produzione agricola. Tutto ciò causa una crisi finanziaria complessiva a danno degli investimenti che sarebbero stati più necessari: nell’educazione, nell’alfabetizzazione, nel sistema sanitario e nell’assistenza sociale. Con l’entrata in crisi dei bilanci pubblici, si trovano in estrema difficoltà. Dal 1973, quando l’economia mondiale rallenta ed entra in crisi, tutte le fragilità emergono.

Delle energie migliori che hanno messo in moto il processo di decolonizzazione dell’Africa, delle personalità africane che si sono distinte in quel periodo, dell’accezione positiva dell’espressione Terzo mondo e delle dinamiche oppressive della guerra fredda, della parabola che dagli Anni Ottanta arriva ai giorni d’oggi tra nuove povertà e moltiplicazione dei conflitti, abbiamo parlato con Eugenio Capozzi, docente di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli:

Sempre più a rischio la libertà di stampa. Il Papa: dare voce a chi non ce l’ha

“Nella crisi attuale abbiamo bisogno di un giornalismo libero al servizio di tutte le persone, specialmente di quelle che non hanno voce; un giornalismo che si impegni nella ricerca della verità e apra vie di comunione e di pace”. Così il Papa in un tweet in occasione della odierna Giornata per la libertà di stampa. Dal Consiglio d’Europa il forte appello alla protezione del giornalisti a confronto con nuove misure restrittive in diversi Paesi

Fausta Speranza – Città del Vaticano


Nel messaggio diffuso in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, la Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, chiede ai governi dei Paesi membri di “evitare indebite restrizioni”. Nel corso di questa crisi sanitaria, alcuni governi hanno fatto arrestare i giornalisti che avevano pubblicato notizie critiche nei confronti della gestione della pandemia e hanno anche ampliato notevolmente la sorveglianza e approvato nuove leggi per punire notizie “false”. Tra le altre problematiche messe in rilievo, ci sono anche le misure che rendono più difficile la protezione delle proprie fonti da parte dei giornalisti e le continue minacce all’indipendenza delle emittenti pubbliche, oltre a iniziative per ridurre i finanziamenti e le interferenze politiche nella governance.

L’effetto pandemia

 “La pandemia di Covid-19 sottolinea e amplifica le molte crisi che minacciano il diritto a un’informazione libera, indipendente, varia e affidabile”. È quello che si legge nell’edizione 2020 del World Press Freedom Index, pubblicata da Reporters Sans Frontières (RSF) il 21 aprile scorso. Il decennio – sottolinea Reporter Sans Frontières – sarà molto delicato e importante per il mondo del giornalismo, poiché la pandemia evidenzia e aggrava le crisi che non sempre sono denunciate liberamente a causa delle pressioni governative. Delle sfide attuali che si sono presentate con il coronavirus, della questione aperta da tempo delle interferenze delle fake news, del fondamentale rapporto tra libertà di stampa e democrazia, abbiamo parlato con il direttore della Scuola di giornalismo di Urbino, Giampiero Gramaglia:

Dati in Europa

Aumentano violenze e intimidazioni contro i media in molti dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, al punto che gli attacchi alla libertà di stampa rischiano di diventare una nuova normalità. E’ quanto emerge dal rapporto annuale della Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti, redatto da 14 Ong per la libertà di stampa. Nell’ultimo anno sono state documentate 142 gravi minacce, di cui 33 attacchi fisici, 17 nuovi casi di detenzione (alla fine del 2019 erano 105 i giornalisti incarcerati, 91 nella sola Turchia), 43 casi di molestie e intimidazioni, e 2 nuovi casi di impunità per omicidio. In particolare nei Paesi dell’Unione Europea, secondo Reporters Sans Frontières (Rsf), la libertà di stampa è considerata per lo più “positiva” o “soddisfacente”. Finlandia, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi continuano a registrare i gudizi migliori, mentre Croazia, Romania, Malta, Ungheria, Bulgaria occupano le posizioni più arretrate della classifica. La Segretaria generale del Consiglio d’Europa sottolinea come i media “possono aiutare a prevenire la diffusione di panico e a mettere in luce gli esempi positivi di solidarietà nelle nostre società”.

Dati nel mondo 

Le minacce spesso si traducono in omicidi, come confermano i dati dei primi mesi del 2020: 11 i giornalisti uccisi. Nel 2019 sono stati 49 gli operatori dell’informazione assassinati. Si tratta del numero più basso degli ultimi 16 anni, ma non va necessariamente interpretato come un dato positivo per la libertà di stampa. perché in alcuni Paesi a grande rischio potrebbe significare il venir meno dell’impegno investigativo dei giornalisti. In ogni caso ci sono alcuni dati positivi, ma la situazione generale della libertà di stampa nel mondo è peggiorata, mentre è cresciuta l’ostilità nei confronti dei giornalisti.

Il numero di Paesi considerati sicuri continua a scendere: solo il 24 per cento tra i 180 Paesi ha registrato un livello di libertà di stampa ottimale o soddisfacente nel 2019, rispetto al 26 per cento del 2018 e il 27 per cento del 2017.  Nel confronto con l’anno scorso, il rapporto 2020 conferma la Cina al 177esimo posto della sua classifica, individua l’Iran al 173esimo posto (in discesa di tre posizioni), l’Iraq al 162simo (sceso di sei posizioni). Ci sono poi Medio Oriente e Nord Africa, che continuano ad essere le regioni del mondo più pericolose per gli operatori dell’informazione, mentre la regione Asia-Pacifico ha registrato il più grande aumento di violazioni alla libertà di stampa con un incremento dei casi pari all’1,7 per cento. Chiude la fila la Corea del Nord, sotto il regime di Kim Jong-un, al 180esimo posto.

La scelta del 3 maggio per la Giornata della libertà di stampa

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 3 maggio Giornata mondiale della libertà di stampa per ricordare ai governi il loro dovere di sostenere e far rispettare la libertà di espressione sancita dall’Articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Come data si è scelto l’anniversario della Dichiarazione di Windhoek. Si tratta del documento sull’importanza fondamentale dei principi in difesa del pluralismo e dell’indipendenza dei media promulgato dai giornalisti africani a Windhoek, capitale della Namibia, a conclusione del seminario organizzato dall’Unesco dal 29 aprile al 3 maggio 1991. Il documento rappresenta il primo di una serie di dichiarazioni in tutto il mondo sull’impegno per la libertà di stampa.

da Vatican NEWS del 3 maggio 2020

Lo stato di salute della libertà di stampa

Fausta Speranza

I governi stanno affrontando sfide senza precedenti, ma questa situazione non deve essere utilizzata per mettere a tacere o ostacolare i giornalisti”. L’appello viene dal Consiglio d’Europa, l’organismo a 47 Paesi deputato alla difesa dei diritti umani. Quest’anno leva la sua voce ancora più alta – in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa il 3 maggio – per mettere in guardia sui rischi per la libera informazione legati alla pandemia, o, meglio, legati alle misure fuori dall’ordinario messe in campo.
Il rischio è che diversi livelli della crisi segnino il futuro del giornalismo. Innanzitutto, si deve fare i conti con la crisi democratica e geopolitica, in considerazione dell’affermarsi di politiche repressive e della maggiore aggressività dei regimi autoritari. Poi c’è il piano tecnologico dove si rischia di avere sempre minori garanzie. Senza dimenticare la crisi economica, che peggiora la qualità del giornalismo. Basti pensare ad un fenomeno in crescita sotto la definizione di chilling effect, cioè la piaga delle azioni di diffamazione senza alcun fondamento: hanno il solo effetto di minacciare la stampa e impedire l’esercizio della libertà di espressione, provando a ridurre al silenzio i giornalisti visto il costo oneroso del solo avvio di una causa di difesa.

Nadia Murad la memoria che vive

dentro l’inserto mensile “Donne Chiesa Mondo””
di FAUSTA SPERANZA
«Hanno ucciso mia madre davanti ai miei occhi ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti di bene»: così Nadia Murad ha iniziato a raccontarci la sua esperienza di drammatico contatto con gli uomini del sedicente stato islamico (Is). La giovane yazida, come altre centinaia di ragazze appartenenti alla stessa minoranza, è stata resa “schiava del sesso”. Una condizione patita dalle donne che aggiunge orrore alla campagna di omicidi di massa, sequestri, spettacolari esecuzioni, conversioni forzate di cui si sono macchiati i miliziani dell’Is tra il 2014 e il 2017 in un territorio tra Iraq e Siria. Ma se non riusciamo a dimenticare gli occhi di Nadia, dopo una conversazione tanto grave quanto luminosa, è per la forza straordinaria che l’ha guidata fino al Premio Nobel per la pace e soprattutto per la solidità della sua fede nel bene. Abbiamo incontrato la prima volta Nadia a Strasburgo, dove aveva ricevuto sostegno dal Parlamento europeo dopo la fuga dall’Iraq e l’arrivo in Germania. Non aveva ancora recuperato il sorriso e la pienezza che ora vive anche grazie all’uomo che ha accanto e che condivide il suo impegno — sempre costante — contro la tratta degli esseri umani. Le è valso il Premio Sacharov nel 2016 e il Nobel nel 2018.
La famiglia di Nadia viveva a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano, quando il 3 agosto del 2014 uomini armati hanno portato l’orrore: hanno trucidato gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, e le hanno passate in rassegna uccidendo quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso. Le più giovani sono state messe a disposizione dei miliziani a Mosul. Ha significato subito una violenza di gruppo per piegare qualunque resistenza e che — ci ha raccontato Nadia — si ripeteva in caso di tentativo di fuga o di ribellione. Nello sguardo di Nadia sopravvive un’eco del terrore, del dolore, del disgusto, del senso di impotenza provati negli otto lunghissimi mesi di prigionia, prima di riuscire a scappare.
Nadia, aiutata da una famiglia irachena dopo essersi allontanata di nascosto dalla casa dell’uomo che l’aveva comprata, avrebbe voluto  dimenticare, ma continua a denunciare: «Il potere dell’Is è passato ma in qualche parte del mondo ci sono ragazzine vendute, scambiate come merci e io, che so cosa significa, non posso tacere». Dice: «Bisogna prevenire ogni forma di razzismo, che io invece vedo crescere ovunque.
E i rischi sono due: il radicalismo e il terrorismo da una parte, ma anche possibili risposte sbagliate a tutto ciò, dall’altra parte». Una consapevolezza precisa, oltre i problemi dell’Iraq, al di là delle vicende della fede yazida antica di 4000 anni o del popolo curdo tra i quali è diffusa; prescinde anche dalla cronaca recente degli ultimi sviluppi nei territori ancora sotto i raid in Siria. La conversazione ha consentito una certa confidenza, e così ci siamo ritrovate sedute su un divanetto a cinque posti rotondo in quelle La yazida schiava del sesso dell’Is premio Nobel per la pace: «Nel mondo ci sono ancora ragazze vendute e scambiate come merci» aree che permettono l’isolamento acustico nei pressi dell’emiciclo dell’Europarlamento, dove si muovono politici e giornalisti. Quasi una zona protetta da altri sguardi e altre orecchie. Nadia ci ha parlato del sorriso di sua madre: «Lei è sempre stata una persona piena di rispetto per tutti e mi ha educato all’amore e al bene, mi ha insegnato a pregare. Queste cose l’Is non ha potuto distruggerle». Questa ragazza minuta non può dimenticare «le tante ragazzine in mano all’Is che appena hanno potuto si sono tolte la vita, perché non ce l’hanno fatta a sostenere tanto strazio». Ci ha confidato: «Io non ho mai pensato di uccidermi. Più il male mi toccava e più risentivo in me tutti gli insegnamenti di mia madre e della mia gente, ma soprattutto la forza di Dio che mai mi ha abbandonata. Più il male mi toccava, più trovavo il bene dentro di me.»
Per questo la storia di Nadia non è più un’esperienza, si è fatta testimonianza.
Donne Chiesa Mondo di aprile 2020

Tra le mosse a sorpresa di Haftar arriva il cessate il fuoco

In Libia il generale che controlla le forze militari della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha annunciato la “cessazione delle operazioni militari” durante il Ramadan. Si tratta di un gesto inatteso dopo che lunedì 27 aprile il generale era comparso in televisione per proclamarsi a “capo di tutta la Libia”. Nostra intervista allo studioso di geopolitica Domenico Fracchiolla

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il portavoce militare di Haftar ha sottolineato che nonostante la pausa in tutte le operazioni militari “si risponderà immediatamente e in modo duro ad ogni violazione da parte delle milizie terroristiche”. Altre volte dichiarazioni della dirigenza militare della Cirenaica non sono state applicate travolte dagli eventi sul terreno. E soprattutto questa dichiarazione di tregua arriva due giorni dopo che Haftar ha annunciato di essere stato acclamato alla guida di tutta la Libia e ha dichiarato conclusi gli accordi di Skhirat del 2015, sulla base dei quali era nato il “governo di accordo nazionale” di Tripoli. Questo passo indietro rispetto agli accordi è stato condannato dall’Onu, dagli Stati Uniti e da altri Paesi tra cui anche la Russia tradizionalmente vicina al generale.

Gli ultimi sviluppi sul campo

In questi giorni le milizie alleate del governo di Fayez Serraj, il primo ministro riconosciuto di Tripoli, circondano la città di Tarhuna, che ha rappresentato finora il più importante avamposto dello schieramento di Haftar in Tripolitania. E’ considerata la base da cui le forze della Cirenaica alimentano le linee che assediano Tripoli. Le truppe fedeli a Serraj sembrano pronte a sferrare l’attacco per conquistare Tarhuna, con il dichiarato sostegno della Turchia, ma sono in corso negoziati per evitare un bagno di sangue e la devastazione della città.

Le proposte del presidente del Parlamento per il dialogo

Il capo della Camera dei rappresentanti libica (Hor), Aqila Saleh, ha ribadito di mantenere valida la sua proposta di dialogo politico in otto punti che ha avanzato giovedì scorso. Saleh ha confermato che “non vi sono divergenze” con Haftar. Lo scrive il sito Libyan Address sintetizzando dichiarazioni fatte dopo l’annuncio di Haftar di voler prendere il potere in Libia in quello che è stato definito da più parti una sorte di golpe. Il generale Haftar, nell’annuncio dell’altro ieri sera, aveva dichiarato anche la “fine dell’accordo di Skhirat” del dicembre 2015 riconosciuto dall’Hor e questo aveva autorizzato molti a parlare di rivolta di Haftar contro il Parlamento di Tobruk, peraltro già indebolito dalla scissione di una trentina di deputati che si riuniscono a Tripoli. Saleh ha affermato che la propria iniziativa politica “non contraddice le recenti dichiarazioni di Haftar”.

L’appello della Tunisia 

Di fronte agli ultimi sviluppi della situazione in Libia, la Tunisia ribadisce “la sua posizione costante nei confronti della crisi libica basata sulla legalità internazionale e sul rispetto della volontà del popolo libico”. E’ quanto si legge nel comunicato del ministero degli Esteri di Tunisi. Il Paese nordafricano sottolinea la necessità di “rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, in particolare la n. 2259 del 23 dicembre 2015, che determina le istituzioni legali riconosciute a livello internazionale come previsto dall’accordo politico libico, il quadro giuridico per una soluzione politica”. In questo delicato contesto, attraversato dalla vicina Libia, la Tunisia ribadisce la sua richiesta di una soluzione politica globale e duratura basata su un dialogo inter-libico che esprima la volontà del popolo libico sotto gli auspici delle Nazioni Unite e lontano da qualsiasi intervento straniero”. Nella nota si legge inoltre che Tunisi chiede “un accordo che preservi l’integrità territoriale e la sovranità della Libia e risparmi il suo popolo dagli effetti tragici del conflitto e del caos”.

Per riflettere sulle ultime dichiarazioni e decisioni di Haftar, sul ruolo delle forze in campo, sulle potenze internazionali coinvolte, sui rischi di una situazione esplosiva che richiederebbe un approccio realmente multilaterale e una roadmap precisa, abbiamo intervistato Domenico Fracchiolla, docente di Relazioni internazionali alla Luiss e all’Università di Salerno:

da Vatican NEWS del 30 aprile 2020

Medio Oriente: centinaia di migliaia di persone accanto ai “Combattenti per la pace”

200.000 persone si sono collegate ieri sera via web per seguire la 15esima edizione della cerimonia di Combatants for peace, l’organizzazione che riunisce israeliani e palestinesi che rifiutano la logica della violenza, promuovendo la conoscenza e l’ascolto reciproci. Con noi Maya di Tel Aviv e Osama di Ramallah

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A causa della pandemia, non c’è stato alcun incontro fisico in uno dei luoghi tra Israele e Territori palestinesi che da 15 anni ospitano la Memorial Ceremony in ricordo di tutte le vittime del conflitto israelo-palestinese. A livello virtuale, grazie ai social media, l’abbraccio tra israeliani e palestinesi c’è stato e, anzi, quest’anno è stato davvero virale: alla piattaforma hanno aderito migliaia e migliaia di persone non solo dalle zone interessate ma da tutto il mondo.

Si tratta di una cerimonia voluta dall’associazione Combattenti per la pace nello stesso giorno – il quarto del mese di lyar, cioè l’ottavo del mese ebraico – in cui da decenni Israele celebra lo Yom HaZikaron, una giornata per le vittime di violenza.

La sfida della pace e l’esperienza dell’isolamento

L’obiettivo dell’associazione Combatants for peace non è di elaborare o sostenere strategie politiche, ma di offrire un’alternativa all’odio che può scaturire dal dolore e far levare la voce di quanti, da una parte e dall’altra, rifiutano armi e violenza. In tanti raccontano la stessa sensazione di fronte all’uccisione di persone care: di essere a un bivio, di dover scegliere se lasciare che lo strazio diventi rancore, oppure farne uno strumento di lotta contro ogni logica di conflitto.

La particolare situazione dovuta ai rischi del Covid-19 è stata un’occasione in più: ne è convinta Maya Katz, che nove anni fa ha aderito a Combatants for peace dopo aver perso in un attentato amici fraterni. L’abbiamo raggiunta telefonicamente a Tel Aviv:

R. – Ho deciso di essere parte di questo gruppo perché saremmo stati insieme, israeliani e palestinesi – e all’improvviso ho riconosciuto il collegamento speciale, la responsabilità speciale che in questo gruppo ognuno ha nei riguardi dell’altro. Ed è stata una sensazione veramente forte, potente …

Secondo te, qual è il cammino verso la pace?

R. – Non so come rispondere a questa domanda. Credo che non lo sappia nessuno … Io però so che qualcosa potrà cambiare solamente con il cambiamento nelle persone, nei rapporti tra le persone sul terreno; so che potremo risolvere questo problema soltanto se uniremo le forze e se cammineremo insieme, israeliani e palestinesi.

Che significato ha avuto la cerimonia quest’anno in piena pandemia?

R. Questa è la sola via per rompere questo cerchio di violenze. In realtà ci troviamo in una situazione unica, particolare, perché ambedue le parti si trovano di fronte alla stessa minaccia, alla stessa violenza e penso che il Covid-19 ci ha fornito un’ulteriore ragione per la quale dovremmo impegnarci al massimo per comunicare e per agire insieme, perché ora c’è in gioco qualcosa di più grande di noi.

 Come Maya, anche Osama Elawat sottolinea l’urgenza di spezzare la spirale di violenza che si innesta con le guerre. Anche Osama piange suoi familiari e suoi amici vittime delle armi, mentre il processo di pace israelo-palestinese è da anni in stallo, e spiega così il senso della sua adesione a Combatants for peace:

R. – Il significato è quello di far sì che stiamo insieme e ricordiamo le nostre vittime, le persone care che hanno perso la vita in questo conflitto. E’ un messaggio alla gente, ai combattenti, a tutti i governi: noi non vogliamo perdere altre vite. Non importa chi ha ragione e chi ha torto. Capisco tutto, ma cerchiamo di difendere la nostra umanità e smettiamo di ucciderci gli uni con gli altri, per qualsiasi ragione sia. Difendiamo le famiglie, le madri, i padri, le sorelle che hanno perso persone che amavano in questo conflitto e uniamoci per sostenerci a vicenda, perché siamo esseri umani. Io ho perso tantissimi cari: ho perso i vicini, ho perso gli amici, ho perso persone che erano molto care al mio cuore, non voglio perderne altre. E le persone che fanno questi discorsi come me sono famiglie che hanno perso i figli, le figlie, i padri, i fratelli, le persone amate. In realtà, anche gli altri come me parlano per esperienza e loro stanno scegliendo un’altra via. Loro sanno che questo circolo di violenza non ci porterà a niente. Ci sono persone di questa terra, che vivono qui e che credono nella pace e che vogliono vivere in pace. Noi non vogliamo armi e non vogliamo denaro: vogliamo che si prendano decisioni che portino cambiamenti, che ci si assumano responsabilità e che si assicuri la possibilità, in tutti e due i Paesi, in Israele e in Palestina, di vivere in pace. Vi prego, impegnatevi per noi, sosteneteci e ascoltate la nostra voce.

da Vatican NEWS del 28 aprile 2020

Non più pena di morte per i minori in Arabia Saudita

Dopo aver abolito di fatto la fustigazione, Riad cancella la pena capitale per i crimini commessi da minori. L’anno scorso il numero di esecuzioni capitali è diminuito nel mondo ma l’Arabia Saudita ha raggiunto invece un triste record. Con noi Riccardo Noury portavoce di Amnesty International

Fausta  Speranza – Città del Vaticano

Una nota dal presidente della Commissione per i Diritti Umani, Awwad Alawwad, spiega che la pena di morte viene eliminata in Arabia Saudita per i crimini commessi quando il condannato era minorenne. La decisione rientra nella spinta riformista promossa dal principe Mohammed bin Salman. L’anno scorso Riad ha raggiunto un triste record in termini di esecuzioni capitali con 184 persone messe a morte ha raggiunto il valore più alto mai registrato da Amnesty International, in un anno, nel Paese.

La pena capitale nel mondo

In generale nel mondo diminuiscono le esecuzioni: l’ultimo rapporto pubblicato nei giorni scorsi da Amnesty international ha documentato un 5 per cento in meno rispetto al 2018, confermando una riduzione in corso negli ultimi anni. E Riad con Teheran e Baghdad rappresentano i tre Stati che da soli sono responsabili dell’81 per cento delle sentenze capitali nel mondo. Sono state almeno 657 le esecuzioni nel mondo lo scorso anno e oltre 2300 le condanne a morte comminate. Nelle statistiche non compare la Cina dove i dati sulla pena capitale continuano a essere classificati come segreto di Stato. Tra le tendenze più incoraggianti, il calo, per la prima volta dal 2011, del numero di Paesi esecutori nella regione Asia e Pacifico con Giappone e Singapore che hanno ridotto drasticamente il numero di persone messe a morte, l’annuncio da parte del Presidente della Guinea Equatoriale della presentazione di un progetto di legge per l’abolizione della pena capitale, l’eliminazione della pena di morte con mandato obbligatorio nelle Barbados.

Cosa sta cambiando in Arabia Saudita

Al posto dell’esecuzione, “il condannato riceverà invece una pena detentiva per non oltre 10 anni in una struttura carceraria per minorenni”: è quanto si specifica nella nota della Commissione per i diritti umani.  Dovrebbero essere risparmiati alla pena capitale, dunque, tredici condannati, tra cui sei rappresentanti della minoranza sciita nel Paese, tutti minorenni al momento della sentenza, come sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, che commenta  anche altri provvedimenti di Riad, ma che innanzitutto si augura che l’annuncio della Commissione diventi presto un decreto reale:

da Vatican NEWS del 27 aprile 2020

Evitare che la pandemia sia un’opportunità per le mafie

di Fausta Speranza

La gravità e l’urgenza delle conseguenze del covid-19 per la salute pubblica e per l’economia richiedono misure immediate perché in ballo c’è la sussistenza di milioni di persone, ma anche perché si rischia che diventino un’opportunità per le mafie. In questi giorni, il Papa ha lanciato il suo monito perché non accada che qualcuno speculi sulle difficoltà dei più deboli e, in tema di legalità, è tornato a ribadire il suo appello contro ogni forma di corruzione. Non c’è, infatti, solo quella dei grandi sistemi, ma anche quella a livello di gente comune che rende possibile le altre modalità più gravi, come conferma Antonio Nicaso, uno dei massimi esperti a livello mondiale di mafie, docente tra l’altro di Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University.

«Le mafie sono rapaci» afferma Nicaso. «Hanno sempre trasformato le crisi in opportunità. La ‘ndrangheta, che oggi è l’o rg a n i z z a z i o n e illecita più ricca e potente al mondo, ha cominciato ad assumere un atteggiamento imprenditoriale dopo il terremoto del 1908 a Reggio Calabria e a Messina, quando ha cominciato a concedere prestiti a tasso d’usura. Le inchieste degli ultimi tempi ci hanno chiaramente “fotografato” l’opportunismo e la rapacità delle mafie anche in occasione dei vari terremoti avvenuti più di recente nel Centro Italia. Ci sono le registrazioni della telefonata in cui, pochi minuti dopo una scossa violenta, due faccendieri legati alla ‘ndrangheta si felicitavano dell’accaduto sorridendo per gli “affari” e i guadagni che avrebbero fatto».

Si è parlato in altri Paesi d’Europa del rischio che eventuali aiuti straordinari all’Italia arrivino in mano alla mafia. Cosa risponde?

Queste preoccupazioni, secondo me, sono discutibili, perché le mafie non operano solo in Italia. Da tempo sono attive in Olanda e in Germania perché quei Paesi consentono di fatto più di altri di investire, di riciclare denaro. Oggi, se dovessi indicare un posto dove la ‘ndrangheta è più radicata fuori dalla Calabria, dalla penisola non avrei nessuna difficoltà a citare la Germania. Il rischio non è solo legato ai soldi che possono arrivare dall’Europa, ma ai meccanismi di circolazione del denaro, come quelli che portano ai cosiddetti paradisi fiscali. E, dunque, il problema è in tutta l’Europa, se vogliamo fermarci al contesto europeo. È chiaro che in questa situazione bisogna tenere gli occhi aperti, fare una mappatura dei settori a rischio: quelli che possono finire più facilmente nelle grinfie delle organizzazioni criminali.

Per esempio?

Penso alla piccola e media impresa, che farà fatica ad andare avanti non potendo contare su utili. È importante intervenire con tempestività con aiuti piuttosto che perdere troppo tempo a discutere. Bisogna ridurre i margini di azione delle mafie. Possono sostituirsi alle banche qualora le imprese restino bloccate dalla burocrazia bancaria e da quella della pubblica amministrazione. È fondamentale intervenire per evitare che un’azienda possa andare in default economico e accettare il ricorso a soldi sporchi. Lo abbiamo già visto durante la crisi dei Subprime nel 2008, quando le mafie hanno cercato di acquisire quote di minoranza, quando hanno investito i soldi attraverso le banche. Questi sono i rischi peggiori da scongiurare e non soltanto in Italia ma un po’ dappertutto.

Ci aiuti a ragionare sull’accostamento di questi due termini: globalizzazione e organizzazioni internazionali.

Le mafie hanno certamente tratto vantaggio dalla globalizzazione dei mercati. Ma la prima cosa da dire è che non metteranno in discussione la loro globalizzazione in nessun caso. Ricordiamoci che sono riuscite ad internazionalizzarsi quando ancora nessuno parlava di globalizzazione. Il fenomeno esisteva — penso al pomodoro nato in America e divenuto alimento centrale nella nostra cucina o alla grande questione delle migrazioni di massa — ma non con queste modalità o con questa definizione.

Nella nostra storia recente ci sono dei momenti chiave?

Direi che c’è stata una sorta di spartiacque nella storia delle mafie: la caduta del muro di Berlino. Prima erano più circoscritte nell’Ovest d’Europa, poi sono riuscite a operare in Paesi dell’Est dove non c’era neanche emigrazione italiana. In mancanza di regole certe, alcuni faccendieri hanno approfittato della fase di transizione da un’economia pianificata a un’economia di mercato. Nella fase attuale, se pensiamo al mercato degli stupefacenti (cocaina, eroina, droghe sintetiche) le mafie sono concentrate sulla Cina, dove si parlerà, di qui a poco, di un mercato di 20 milioni di tossicodipendenti, o sull’Australia, dove un chilo di cocaina costa tre volte di più che in Italia.

Da una parte, c’è la legalità e, dall’altra, queste organizzazioni. In mezzo c’è una zona grigia, abitata da colletti bianchi, dalla disonestà diffusa a tanti livelli. È così?

Certo. Diciamo che se non ci fosse questa zona grigia non ci sarebbero le mafie. Le mafie da sempre hanno avuto bisogno di condotte agevolatrici per potersi affermare. Per i miei studenti utilizzo la formula chimica dell’acqua e spiego che i due atomi di idrogeno rappresentano la violenza, ma quello che fa la differenza è l’atomo di ossigeno, che è proprio il rapporto con questa zona grigia, con professionisti senza scrupoli. Se non ci fossero, le mafie farebbero molta più fatica a riciclare denaro.

Può citare un caso concreto?

Ricordo l’operazione Iscreen con la quale agli inizi degli anni Novanta un’organizzazione criminale internazionale è stata smantellata proprio perché faceva fatica a investire, a riciclare denaro. Aveva cominciato a depositarlo in una casa, ma alla fine non c’era più spazio per contenere il contante accumulato attraverso attività illecite. Ecco, il riciclaggio e l’investimento sono importanti nelle dinamiche di un’organizzazione criminale: si può rimanere “soffocati” dai soldi. Quindi, il rapporto con il mondo dell’imprenditoria, della politica, della finanza è fondamentale.  Ci può essere corruzione senza mafia, ma non ci può essere mafia senza corruzione. Non riesco a pensare al crimine organizzato senza zona grigia.

Quanto è importante il reiterato appello di Papa Francesco a combattere la corruzione?

È fondamentale! La corruzione saccheggia risorse pubbliche che potrebbero sanare tanti squilibri sociali. E, soprattutto, tendiamo a sottovalutare il ruolo della corruzione per le mafie, che invece è centrale. Oggi le organizzazioni criminali sembrano invisibili perché non hanno quasi più bisogno di sparare. Sanno di poter utilizzare la violenza, ma, se possono evitare il clamore preferiscono. Sanno di avere in mano qualcosa di più efficace rispetto alle armi: la corruzione che permette alla mafia di radicarsi, di infiltrarsi senza fare rumore. E tanta gente presta consapevolmente il fianco o chiude gli occhi.

Per la crisi che sta scoppiando ora, c’è qualcosa da imparare da quella del 2007-2008?

Certo. Nel 2008 i soldi delle mafie sono stati un pilastro fondamentale per evitare di far crollare tantissime banche nel mondo. Lo denunciò Antonio Costa, l’ex direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). Quindi, fa benissimo Papa Francesco a richiamare le coscienze di tutti.

Dopo i traffici di droghe, di armi, quello odioso di esseri umani, il riciclaggio di denaro sporco o gli investimenti illeciti nell’edilizia o nelle slotmachine, oggi si parla di dark web o di criptovalute. Il suo ultimo volume, scritto con il magistrato Nicola Gratteri ed edito da Mondadori, si intitola «La rete degli invisibili»: sono questi gli ambiti dove le mafie restano lontane dai riflettori?

La seconda capacità delle mafie, dopo quella relazionale, è quella di adattamento. Quello che un tempo si faceva nella gestione delle case da gioco, nelle bische clandestine, oggi si fa con il gaming on line. Vari Paesi, come per esempio Malta, acconsentono alla costituzione facile di società per il gioco su web, che nascono con i soldi che provengono da mafie. Per quanto riguarda le criptovalute, già si comincia a sentire in alcune intercettazioni il riferimento all’uso di bitmonero, o bitcoin per la vendita di partite di cocaina. E poi c’è il darkweb, un sistema cinquecento volte più grande della rete conosciuta come www. È un sistema di comunicazione dove non c’è timore di essere intercettati, si può vendere qualsiasi cosa. Alcune indagini hanno già messo in luce questa sorta di “Amazon del male”, in cui è possibile acquistare droga, armi, materiale pedopornografico.

In definitiva, quali vie indicare per il mondo post covid-19 che tutti sogniamo migliore?

Mi auguro che questa esperienza possa farci capire l’importanza di combattere le diseguaglianze sociali, di concepire forme di capitalismo che tengano conto del bene della comunità e non seguano solo la logica del “fare soldi per fare soldi”. Bisogna ricordarsi che problemi globali richiedono risposte globali.

Dunque, non è d’accordo con chi in questa fase mette in discussione in diverso modo tutto ciò che è avvertito come sovranazionale, agenzie delle Nazioni Unite o Unione europea?

È impossibile pensare di combattere le organizzazioni criminali o quelle terroristiche senza azioni concertate, senza maggiore coesione internazionale. È necessario globalizzare l’azione di contrasto alle mafie, che sono globalizzate. Oggi le mafie vanno a cercare i Paesi che si presentano come paradisi fiscali o normativi, perché lì le legislazioni sono meno affliggenti. E alcuni Paesi di recente guardano alle mafie come a un’opportunità più che a una minaccia, perché portano liquidità. Tutto questo perché mancano normative giuridiche adeguate. Abbiamo bisogno di organismi sovranazionali perché c’è molto da fare a livello legislativo per sanare alcune disparità.

Qual è la sua speranza?

Per me la speranza è costruire. Ognuno di noi deve pensare che non è vero che non può fare niente. Tutti possiamo fare qualcosa per cambiare le ingiustizie che abbiamo di fronte oggi. La mia speranza è che venga ascoltato l’altro richiamo di Papa Francesco di questi giorni, quello ai politici perché «non pensino al bene del loro partito ma al bene comune». C’è urgente bisogno di riscoprire il bene comune.

da L’Osservatore Romano del 27 aprile 2020

Via libera del Consiglio Ue al Recovery Fund

Il Consiglio europeo ha approvato il fondo di aiuti insieme con gli altri provvedimenti economici presi, ad esempio, contro la disoccupazione, per venire incontro ai Paesi più colpiti dal Coronavirus. Il pacchetto di misure consiste in cifre considerevoli ma non è ancora deciso se la parte del cosiddetto Recovery Fund sarà in qualità di finanziamento o di prestito. Con noi l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I capi di Stato e di governo riuniti (virtualmente) nel Consiglio europeo hanno subito approvato le misure su cui i loro ministri delle Finanze avevano già trovato l’accordo. Hanno approvato anche il cosiddetto Recovery Fund ma dando l’incarico di concretizzare le modalità alla Commissione europea, che è chiamata a presentare proposte entro il 6 maggio.

Le misure subito operative

Via libera al pacchetto fino a 540 miliardi di euro con nuovi prestiti per le imprese da parte della Banca europea per gli investimenti (Bei) e al cosiddetto Sure (sicuro) da 100 miliardi per integrare i fondi per la cassa integrazione nei Paesi membri e al Fondo salva-Stati (Mes) per le spese sanitarie. Queste misure saranno operative entro inizio giugno. A frenare il nervosismo dei mercati è stata la Banca centrale europea (Bce).

L’approvazione del Recovery Fund

Due settimane fa, i ministri delle Finanze si erano trovati d’accordo solo nel dire che di Recovery Fund se ne sarebbe parlato più avanti in occasione del prossimo Consiglio. Questa era già stata una concessione strappata in extremis ai Paesi del Nord, a partire dall’Olanda, da sempre contrari a qualsiasi forma di mutualizzazione dei debiti. In queste ultime settimane, però, i timori sulle conseguenze del lockdown sull’economia e sull’occupazione si sono esasperati anche per i drammatici dati sulla perdita del Pil forniti, tra gli altri, dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Bce. E’ arrivato, dunque, anche il via libera per il Recovery Fund, ma è stato dato mandato alla Commissione di elaborare una proposta entro due settimane che possa delineare i dettagli tecnici.

I nodi da sciogliere

Si dovranno definire questioni di non poco conto. Innanzitutto, quella dell’ammontare complessivo del Fondo. Alcuni leader si sono spinti a dire che non si tratterà solo di miliardi, ma di migliaia di miliardi, senza però fornire ulteriori chiarimenti. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha affermato che i versamenti degli Stati potrebbero addirittura raddoppiare, quanto meno per alcuni anni. Non è chiaro però se l’aumento sarà uguale per tutti i Paesi. L’idea è quella di poter usare il (più consistente) bilancio Ue quale garanzia per una emissione comune di titoli tripla A, sui quali, quindi, pagare un basso tasso di interesse. Non è chiaro come verranno ripagati i titoli in scadenza. Una parte potrebbe venire da nuove risorse proprie della Commissione (ad esempio tramite imposte comuni su attività inquinanti), mentre un’altra parte potrebbe essere pagata dai Paesi sulla base di quanto avranno ricevuto. In definitiva, bisogna capire se si tratterà di finanziamenti o di prestiti da ripagare. Un altro punto chiave è la tempistica. Per utilizzare il bilancio Ue 2021-2027 questo dovrebbe essere approvato in fretta. Ma, anche se così fosse, potrebbe essere utilizzato solo a partire dal prossimo anno. I Paesi del Sud hanno insistito nel sottolineare l’assoluta urgenza del fondo auspicandone l’attivazione nella seconda metà di quest’anno. Si potrebbe trovare un modo per utilizzare prima, almeno in parte, risorse comuni destinate al periodo 2021-2027. Delle incognite che restano, delle misure già messe in campo dalla Banca centrale europea (Bce), di quelle previste per inizio giugno, ma anche delle dinamiche politiche che accompagnano il dibattito tra Paesi europei e della solidarietà, che non solo è doverosa ma conviene a tutti, abbiamo parlato con l’economista Paolo Guerrieri:

I dati mostrano quanto la crisi per l’emergenza Covid-19 ovviamente sia simmetrica ma con potenziali diverse conseguenze nei vari Paesi: più pesanti per la Spagna e per l’Italia, molto meno per i Paesi del Nord. Il divario tra Nord e Sud aumenterà anche in relazione alla disoccupazione. Un gap che rischia di diventare socialmente e politicamente insopportabile  se non si trovano ingenti risorse di sostegno all’economia e all’occupazione. Inizia a delinearsi anche l’enorme impatto del lockdown in termini di indebitamento su tutti i Paesi membri, che sarà ancora una volta maggiore (di molto) per quelli del Sud. Sull’impennata dell’indebitamento poco potrà fare il pacchetto di misure già approvato. Anzi, sia il Sure che il Mes opereranno concedendo prestiti ai Paesi e ne faranno quindi lievitare il debito pubblico, anche se meno rispetto al reperimento delle stesse risorse sui mercati. Con le sue ultime misure – a partire dal programma di acquisto dei titoli (Pepp) che mette in campo oltre 1.000 miliardi – sta guadagnando tempo prezioso. Purtroppo però l’intervento della Bce non potrà proseguire all’infinito. Al ritmo dei recenti acquisti di titoli pubblici e privati la sua capacità potrebbe esaurirsi già entro ottobre. Inoltre, le principali agenzie di rating potrebbero declassare il debito dei Paesi del Sud dell’Eurozona (Italia inclusa) fino a rendere impossibile l’acquisto dei relativi titoli da parte della Bce in quanto junk bond. Già oggi la Bce sta derogando alla regola che gli imporrebbe di acquistare da ogni Paese una percentuale di titoli non superiore alla quota che il Paese detiene nel capitale della banca stessa. Una deroga che però non può essere a tempo indeterminato perché le regole europee lo vietano. L’eccesso di acquisti di titoli da un Paese dovrebbe essere compensato da un maggiore acquisto di titoli dagli altri Paesi in un momento successivo. La Corte di Giustizia europea o, a livello nazionale, anche una alta Corte (non ultima la Corte costituzionale tedesca) potrebbero bloccare l’intervento della Bce ritenendolo (invero con qualche ragione) un salvataggio di uno o più Paesi membri, cosa proibita dai Trattati. Insomma, come da tempo va ripetendo la stessa presidente Lagarde, la Bce fa la sua parte ma non può fare tutto da sola. Da qui l’esigenza del Recovery Fund.

da Vatican NEWS del 24 aprile 2020

Dieci anni fa la marea nera nel Golfo del Messico

E’ stato subito considerato il più grave disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti, ma i danni causati dalla perdita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon nell’aprile del 2010, nelle acque del Golfo del Messico, sono stati il 30 per cento superiori a quanto stimato allora. Le interviste a Emanuele Riccardi, giornalista sul luogo, e Giorgia Monti di Greenpeace

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo l’esplosione, avvenuta esattamente il 20 aprile di dieci anni fa sulla piattaforma della British Petroleum (Bp) e costata la vita a 11 dei 126 uomini a bordo, per 87 giorni proseguì lo sversamento in mare del petrolio. Il mondo si allarmò e la compagnia petrolifera si impegnò a contenere i danni e a gestire la bonifica. Ma lo studio pubblicato nei giorni scorsi su “Science Advances” – redatto da ricercatori delle Università di Miami, della Georgia e del South Florida – documenta che “il petrolio tossico e invisibile si diffuse ben oltre l’impronta satellitare resa nota subito dopo la fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon”. I danni della marea nera nel Golfo del Messico, dunque, sono stati sottostimati.

L’impatto sul momento

Il 15 luglio 2010, la BP dichiarava di essere riuscita a tappare la perdita del greggio, pur non essendo ancora sicura di quanto tempo avrebbe potuto resistere quest’ultima soluzione. Secondo le stime della BP stessa, al 15 luglio erano già stati riversati in mare tra i 3 e i 5 milioni di barili di petrolio, ovvero tra le 460.000 e le 800.000 tonnellate. Due mesi dopo, a settembre, il pozzo sarebbe stato definitivamente sigillato. La pubblicazione su “Science Advances” fa notare che subito dopo il disastro furono valutate le immagini satellitari che si basavano sui dati del National environmental satellite, data, and information service (Nesdis). Era difficile rendersi conto dell’entità della fuoriuscita non recuperabile, come conferma Emanuele Riccardi, corrispondente dell’agenzia Ansa inviato sul luogo subito dopo la notizia dell’esplosione:

La reale entità delle conseguenze per l’ecoambiente

Oggi il team di ricerca delle tre università statunitensi ha utilizzato simulazioni al computer tridimensionali per tracciare il petrolio, notando discrepanze sostanziali tra i nuovi risultati e le stime precedenti, perché alcune concentrazioni di petrolio più piccole spesso sfuggono alle rilevazioni satellitari. Hanno confrontato i dati emersi dalle tecniche di modellazione del trasporto di petrolio con i dati di telerilevamento e campionamento in mare per fornire una visione completa dello sversamento di petrolio. E’ emerso che una parte della perdita di petrolio è rimasta invisibile per i satelliti ma non per questo meno “tossica per la fauna marina”. La Bp ha fatto sapere di aver stanziato nei due anni successivi circa sette miliardi per risarcire privati e circa 25 miliardi per i governi degli Stati coinvolti. Nulla può cancellare i danni per l’ecosistema marino, per le specie animali aquatiche ma anche per uccelli migratori, per le popolazioni interessate, per le attività produttive,  come spiega Giorgia Monti, responsabile della campagna mare di Greenpeace-Italia:

Il petrolio e le sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro contaminano la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria; nel lungo termine per via orale, come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare. Le prime specie animali vittime del disastro sono state quelle di dimensioni più piccole e alla base della catena alimentare, come ad esempio il placton. Sono seguite le specie di dimensioni via via maggiori che sono state contaminate direttamente dagli idrocarburi e dalle sostanze chimiche disperdenti oppure indirettamente per essersi alimentate di animali contaminati. Fra le specie coinvolte, numerose specie di pesci e varie specie di uccelli delle rive o migratori come i pellicani. Gli agenti disperdenti,  ovvero le sostanze chimiche utilizzate per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e per farli precipitare sul fondale del mare, hanno consentito di eliminare la marea nera della superficie tuttavia non riducendo la quantità di greggio disperso nell’ambiente e depostosi sul fondo a oltre 1600 metri di profondità.

Il più grave ma non l’ultimo dei disastri nella zona

Lo sversamento di dieci anni fa superò oltre dieci volte per entità quello della petroliera Exxon Valdez che era avvenuto nel 1989, diventando il disastro ambientale più grave, noto come la “marea nera”. Ma non è stato l’ultimo in ordine di tempo nel Golfo del Messico. Ce ne sono stati almeno due molto seri. Il primo, anche se contenuto nei danni, è avvenuto solo quattro mesi e mezzo dopo quello della Deepwater Horizon. Un’altra piattaforma petrolifera è andata in fiamme nel Golfo del Messico, a pochi chilometri dal luogo dell’esplosione della piattaforma della Bp. Il panico si è diffuso rapidamente tra la popolazione del Golfo all’idea di un’altra catastrofe ambientale, ma l’incidente non ha causato vittime e non ha provocato forti perdite di petrolio nel mare. Salvi i 13 operai presenti. Ci sono state invece conseguenze quando tra l’11 e il 12 ottobre 2017, oltre 9.000 barili di petrolio si sono riversati nelle acque del Golfo del Messico a causa dello scoppio di condutture sottomarine avvenuto a circa 65 chilometri di distanza dalle coste di Venice, in Louisiana.

da Vatican NEWS del 21 aprile