Giornata contro la tratta, Czerny: terribile aumento durante il lockdown

Uomini, donne e bambini vittime di lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi. Crimini che non si sono fermati con la pandemia e che vanno combattuti a tutti i livelli della società. Il cardinale sottosegretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale riflette sull’impegno della Chiesa e sull’urgenza di mettere in discussione comportamenti sociali che alimentano la “domanda” di sfruttamento

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si stima che circa 40 milioni di persone siano vittime nel mondo di tratta. Secondo il Rapporto sul traffico di esseri umani dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), quasi un terzo sono minori. Inoltre, il 71% del totale è costituito da donne e bambine. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) denuncia che 21 milioni di persone siano vittime di lavoro forzato, spesso collegato anche allo sfruttamento sessuale. C’è poi il drammatico fenomeno del traffico degli organi che sfugge alle stime, ma che resta un innegabile risvolto. Della drammaticità e della pervasività del fenomeno, che interessa tutti i Paesi, di origine, di transito o di destinazione delle vittime, abbiamo parlato con il cardinale Michael Czerny, sottosegretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale:

 Ascolta l’intervista con il cardinale Michael Czerny:

R. La più grande risposta da parte di tutta la Chiesa si trova nell’impegno delle suore della rete Thalita Khum. E così, per la Sezione rifugiati e migranti del Dicastero, la prima priorità è accompagnare la rete, collaborare, appoggiare, suggerire, facilitare… Facciamo ciò che possiamo perché in tanti Paesi del mondo le suore stanno rispondendo veramente a nome della Chiesa e a nome di Cristo. É importantissimo riconoscere questo lavoro, perché loro non parlano, ma agiscono. Noi allora possiamo parlarne un po’.

Indubbiamente la pandemia ha rappresentato un fattore di complicazione di tutto questo impegno…

R. – Certo. Ha complicato l’impegno delle suore, ma grazie a Dio, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, loro hanno trovato sempre i mezzi per continuare a portare avanti il ministero. Non si sono rassegnate a tre mesi o sei mesi di lockdown. No: hanno cambiato mezzi o metodi e hanno continuato. La grande tristezza è che in questi mesi di pandemia si è assistito ad un terribile aumento della tratta e questo deve scandalizzarci. Mentre tutti noi – “i buoni” – siamo rinchiusi in casa, come mai la domanda aumenta e non diminuisce? Questo indica che le radici del problema si trovano nelle case, nel cuore delle persone, dei cittadini, di fratelli e sorelle che ci sono intorno. Questa connessione fra la tratta e la vita apparentemente normale di persone apparentemente normali è un grande scandalo che deve farci riflettere, chiedere perdono a Dio, per cercare la necessaria conversione per ridurre e eliminare la domanda che è il motore della tratta.

Diciamo che i due fronti sono il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale, quindi donne e bambini in tutti e due i casi sono in prima linea, anche insieme con tanti uomini ovviamente…

R. – Esatto. Lei ha menzionato la prostituzione, che include adesso, in modo particolare, tutto lo sfruttamento online e il lavoro forzato; include anche il traffico di organi, un crimine per il quale non ci sono parole, e altri aspetti, come l’uso delle persone per trasportare la droga … Tutti questi sono impegni o “imprese” della tratta.

Eminenza, dal 2013 ricordiamo la Giornata internazionale voluta dall’Onu contro la tratta di esseri umani. Nel 2015 c’è stato un impegno sottoscritto dai governi del mondo a combattere questo che spesso viene definito un fenomeno, ma – lo ricordiamo – è un crimine vero e proprio. In questi anni che cosa è stato fatto e che cosa invece non viene affrontato davvero?

R. – Questa è una buona domanda, uno spunto per approfondire. Voglio dire che alla fine la somma degli sforzi potrebbe essere meno importante dei singoli sforzi specifici, perché sono persone, uomini, donne e bambini, le vittime della tratta, i quali vengono sfruttati e abusati. In questo senso, voglio dire che ciò che è interessante è l’aumento di coscienza, direi mondiale; questo per noi è l’aspetto più importante. E in questi anni si è visto lo sviluppo di consapevolezza. Vediamo anche lo sviluppo di tanti nuovi ministeri della Chiesa per affrontare questa piaga: dalla prevenzione, al riscatto, alla riabilitazione, all’integrazione delle persone. E’ importante per tutti a tutti i livelli, renderci conto di ciò che noi stessi diciamo, appoggiamo e provochiamo con le nostre scelte. Il nostro impegno non deve essere quello di contare i numeri, ma di renderci conto che sono le scelte che io faccio che appoggiano in qualche modo e contribuiscono alla tratta. E non dico di guardare solo agli altri o ai cattivi, ma alle scelte di ognuno. Io, che scelte faccio, ad esempio quando compro un telefonino? Quando faccio un viaggio? Quando mi permetto un piacere? E non entro nel dettaglio.

Eminenza, per il cristiano è scontato o dovrebbe essere scontato che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi il rispetto della persona. In una società che vanta la proliferazione, la rivendicazione di tanti diritti, questo non è più scontato, non è più così condivisibile…

R. – Sì, forse. Io penso che ogni diritto ha qualcosa di vero. Forse tutti non vanno così bene nell’insieme, o forse non tutti i diritti hanno lo stesso livello o valore, ma in genere non sono cattivi in quanto tali. Il punto è la cultura dello scarto, una cultura del piacere non istantaneo o necessario, obbligatorio. Dobbiamo riflettere su alcuni “bisogni”, quando si sente dire “ho bisogno di questo piacere, di questo prodotto, ho bisogno di questo prezzo basso” … Penso che queste compulsioni siano più al cuore del problema della tratta che la proliferazione dei diritti o cosiddetti diritti.

L’esperienza di Thalita Khum in tempo di pandemia

Alla grande risposta della Chiesa alla piag della tratta appartiene dunque l’esperienza di Talitha Kum, rete mondiale della vita consacrata impegnata contro la tratta di persone . Suor Gabriella Bottani, coordinatrice internazionale dell’organizzazione, sottolinea che le condizioni di vulnerabilità stanno aumentando e toccando un maggior numero di persone, soprattutto a causa di situazioni di povertà estrema che, a loro volta, facilitano l’attività dei trafficanti. Tra i principali gruppi colpiti vi sono le donne, i bambini, le minoranze etniche, i cittadini stranieri, soprattutto quelli senza documenti, e le popolazioni indigene. Oltre alla diffusione del virus, il principale fattore che contribuisce a incrementare tale vulnerabilità è la perdita del lavoro. Il mercato del lavoro è un settore chiave per i reclutatori al fine di trascinare le persone nella rete dello sfruttamento. Secondo i dati di Thalita Khum, la violenza domestica contro le donne e i bambini risulta in aumento. Pur non facendo parte del traffico in quanto tale, questa può causarlo indirettamente, perché la violenza domestica può costringere le persone ad accettare qualsiasi via di fuga. In aggiunta, alcune delle misure sociali e sanitarie attuate a livello mondiale per contenere il Covid-19 hanno avuto un impatto sui migranti, soprattutto quelli senza documenti e senza permesso di soggiorno. Tra questi ci sono molte vittime di tratta. La pandemia, peraltro, ha avuto effetti sul lavoro di Thalitha Kum: missionari e volontari si sono rivolti ai social media per continuare la missione mantenendo il contatto umano con le vittime della tratta in modo virtuale, e a tal fine si è resa necessaria una formazione specifica.


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L’appello Caritas: misure urgenti e mirate

Il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John, afferma che “in questo momento di diffusione del Covid-19,  le persone vulnerabili sono maggiormente a rischio di divenire vittime della tratta”.  La Confederazione delle 162 Caritas nazionali e la rete anti-tratta cristiana sottolineano come il Covid-19 abbia focalizzato l’attenzione dei governi in ambito sanitario, impedendo tuttavia che potesse essere prestata sufficiente attenzione ai danni collaterali della pandemia globale, specialmente sui migranti e lavoratori informali, ora più esposti alla tratta e allo sfruttamento. Caritas Internationalis e Coatnet chiedono, dunque, misure urgenti e mirate per sostenere quanti lavorano in settori informali, tra cui i collaboratori domestici e gli operai agricoli e edili, tra i quali si trovano i lavoratori più vulnerabili, come ad esempio i migranti privi di documenti.

La denuncia di Save the children

Ben 10 milioni delle vittime di tratta nel mondo, ossia 1 su 4, hanno meno di 18 anni e, in un caso su 20, addirittura le vittime hanno meno di 8 anni. La forma più diffusa di sfruttamento resta quella sessuale (84,5 per cento) che vede principalmente come vittime donne e ragazze. Rispetto al totale, il 95 per cento ha un’età compresa tra i 15 e i 17 anni. Il fenomeno però resta prevalentemente sommerso e, con l’emergenza Covid-19, ha visto trasformare alcuni modelli tipici della tratta e dello sfruttamento dei minori. I gruppi criminali dediti allo sfruttamento sessuale in particolare, sottolinea Save the Children, sono stati ovunque rapidissimi nell’adattare il loro modello operativo attraverso l’uso intensivo della comunicazione online e dello sfruttamento nelle case, “indoor”, e il lockdown ha costretto le istituzioni e le organizzazioni non governative ad affrontare maggiori difficoltà nelle attività di prevenzione e supporto alle vittime. Inoltre, dai dati di Save the children emerge che in Europa, è boom di pedopornografia.

Onu: un percorso di consapevolezza e di intenti

Nel 2010, l’Assemblea Generale ha adottato un Piano Globale d’Azione per la lotta alla tratta di esseri umani e ha esortato i governi di tutti i Paesi a intraprendere azioni coordinate e coerenti per sconfiggere questa piaga. Il Piano esprime la necessità di includere la lotta al traffico nei programmi più ampi delle Nazioni Unite, affinché lo sviluppo e la sicurezza a livello mondiale vengano rafforzati. Una delle principali disposizioni del Piano è la creazione di un fondo fiduciario volontario delle Nazioni Unite, in particolare per donne e bambini. Nel 2013 l’Assemblea Generale ha tenuto un incontro di alto livello per la valutazione del Piano Globale d’Azione. I Paesi Membri hanno adottato la risoluzione A/RES/68/192, designando il 30 luglio come ricorrenza per la Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. La risoluzione l’importanza di questa ricorrenza “nel far conoscere la situazione delle vittime della tratta di esseri umani e nella promozione e protezione dei loro diritti”. E, a settembre 2015, i governi di tutto il mondo hanno aderito all’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile accogliendo anche gli obiettivi e i target che riguardano la tratta. Si chiede di porre fine al più presto al traffico e alla violenza sui bambini, di mettere in atto misure atte a eliminare qualsiasi forma di violenza e di sfruttamento di donne e bambini. Un altro importante avvenimento è stato il Summit per i Rifugiati e i Migranti che ha portato alla Dichiarazione di New York che contiene 19 “promesse” di cui tre sono volte ad azioni concrete contro la tratta di esseri umani.

15 anni fa il disarmo dell’Ira

Il 28 luglio 2005, l’Irish Republican Army, l’Esercito repubblicano irlandese, decide di cessare ogni attività militare nell’Irlanda del Nord avviando parallelamente e gradualmente lo smantellamento del suo arsenale. E’ una tappa decisiva del difficile processo di pacificazione dopo il sanguinoso confronto tra nazionalisti repubblicani e unionisti fedeli alla corona britannica passato alla storia come “Troubles”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un confronto, quello tra le due fazioni, che si trascina da anni ed anni e che si palesa nel 1921, quando le 26 contee dell’Irlanda del sud, a stragrande maggioranza cattolica, si dichiarano Stato libero. Seguono due anni di guerra civile. Le contee del nord (Ulster), a maggioranza protestante, restano fedeli al Regno Unito.

Le tappe principali

Negli anni Sessanta i cattolici si mobilitano per i diritti civili, segue il conseguente invio dei militari di Londra nell’Ulster per riportare la pace e sedare disordini e violenze. Poi avviene il riarmo dell’Ira all’inizio degli anni Settanta, il Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, quando a Derry (Londonderry per Westminster), 14 cattolici vengono uccisi dalle truppe di Londra. Arriva poi il tempo dello scioglimento del parlamento di Stormont di fronte all’aumento degli attentati, l’attentato che nel 1979 uccide Lord Mountbatten, cugino della regina Elisabetta e ultimo vicerè dell’India, il sacrificio di Bobby Sands, membro dell’Ira detenuto nel carcere di Maze, eletto al parlamento di Westminster, che preferisce morire dopo più di due mesi di sciopero della fame. Poi la svolta dell’inizio degli anni Novanta, con l’inizio dei negoziati che riuniscono per la prima volta i partiti unionisti e il governo irlandese, e la storica intesa del 1993 sul futuro politico della Regione, tra il premier britannico John Major e il premier irlandese Albert Reynolds. L’Ira proclamerà un primo cessate il fuoco nel 1994, seguito in ottobre dalle milizie protestanti. Poi un periodo di alti e bassi di quasi un decennio, con le prime istituzioni autonomiste, l’Assemblea dell’Irlanda del Nord, la bomba che compie una strage a Omagh da parte della ‘Real Ira’, scheggia terrorista che non accetta l’accordo di pace, l’insediamento del governo condiviso fra cattolici e protestanti, le mancate soluzioni del disarmo, le perquisizioni negli uffici dello Sinn Fein nell’Assemblea di Belfast alla ricerca di prove di spionaggio a favore del terrorismo, l’apertura da parte del premier Blair e del premier irlandese Bertie Ahern. Fino al 28 luglio 2005, quando viene annunciato lo storico disarmo e l’impegno ad una soluzione politica per l’Irlanda del Nord. Il risultato di quella giornata ha reso possibile la formazione a Belfast, già nel 2007, di un governo regionale presieduto dal leader degli unionisti, reverendo Ian Paisley, e dal vice Martin McGuinness, ex dirigente dell’Ira.

L’uccisione della reporter e la “nuova Ira”

Il 18 aprile 2019 a Derry in un momento in cui le forze di polizia si fronteggiano con militanti della Oglaigh na hEireann, ovvero la “nuova” Ira, gli spari di militanti della formazione nazionalista colpiscono la reporter Lyra McKee. Aveva 29 anni, era nata a Belfast, era considerata tra i più autorevoli osservatori della situazione in Irlanda del Nord, scriveva per diverse riviste.  Per la sua uccisione, la polizia ha arrestato due giovani di 18 e 19 anni residenti a Derry. E’ il momento più tragico al quale ha legato finora il suo nome la New Ira, gruppo formato nel 2012 unendo diverse realtà nazionaliste armate ancora attive. In altre occasioni ha provocato diversi attacchi ma senza vittime. Questo gruppo armato è piccolo, ma letale. Le origini della New Ira  risalgono all’assemblea straordinaria che i vertici dell’Ira organizzarono nel 1997, sei mesi prima dell’accordo di pace, in un piccolo villaggio del Donegal. Le decisioni di Gerry Adams non furono approvate all’unanimità. Alcuni se ne andarono in segno di protesta, sentendosi traditi. Erano contrari alla linea della leadership del Sinn Féin e volevano dichiaratamente continuare a battersi con la forza per la riunificazione dell’isola.

Per ricordare il significato della decisione dell’Ira, 15 anni fa, e per sapere quale sia la sensibilità oggi tra le persone sul territorio, abbiamo parlato con la collega Francesca Lozito che da anni segue le vicende in Irlanda del Nord:

Lozito spiega che nel 2005, dopo gli Accordi del Venerdì Santo, si è compiuto un passo che è stato decisivo per la pacificazione. Ricorda i protagonisti a livello regionale ma anche internazionale di tutto il lungo processo di dialogo e poi sottolinea quanto tra la popolazione sia stato importante il lavoro delle chiese locali in tuti questi anni fino ai nostri giorni, sottolineando che viene definito sul territorio “l’ecumenismo del quotidiano”. La giornalista Lozito inoltre spiega che il processo della Brexit, che tanta tensione ha portato nel Regno Unito, paradossalmente in Irlanda ha giocato a favore del dialogo e della collaborazione tra le parti, perché è stato un fattore di unificazione della popolazione irlandese. Problematiche quali la disoccupazione e il carovita hanno prevalso, tra le priorità.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/irlanda-dialogo-brexit-nordirlanda.html

Su L’Osservatore romano

Libano, fortezza del dialogo

La recensione di Elisa Pinna su L’Osservatore romano

Una nuova immagine del Paese dei cedri nel libro della giornalista Fausta Speranza

Nell’antica lingua siriaca, era il “cuore di Dio”. Da millenni snodo di incontri, di commerci, di scambi culturali tra civiltà diverse, oggi il Libano per molti aspetti è anche il cuore del Medio oriente. Nel biblico Paese dei cedri, una striscia di terra tra il mare e catene imponenti di montagne, stretta tra Israele e Siria, si rispecchiano infatti le tensioni, i drammi, le speranze, le occasioni mancate e la storia recente di un’intera regione che va dal Mediterraneo al Golfo Persico. Il libro Fortezza Libano, scritto da Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani, e pubblicato a luglio per i tipi di Infinito Edizioni, traccia con passione e ricchezza di dati politici, religiosi, culturali, storici — aggiornati fino all’attualità della bancarotta finanziaria e delle proteste di piazza — il quadro di un Paese dilaniato tra «tensioni interne e ingerenze esterne», come recita il sottotitolo di copertina. Il Libano è una democrazia araba, in una regione di sceicchi, teocrati, rais. Già questo lo rende un Paese pressoché unico nel panorama locale, ma anche uno spazio aperto dove le potenze regionali e globali — come osserva l’autrice — si prendono reciprocamente le misure e fanno le prove per regolamenti di conti futuri. È inoltre una Nazione in cui la matassa sociale è aggrovigliatissima, basti pensare che vi abitano 18 confessioni religiose: «Non c’è — scrive Fausta Speranza — un solo Occidente o una sola chiesa occidentale e non c’è soltanto un Oriente arabo o un solo mondo musulmano, né un solo modo di praticare l’Islam. Né una sola Chiesa orientale. Il Libano è un riflesso della formidabile diversità del mondo ma anche delle sue contraddizioni e dei suoi dolori». A complicare ancora di più le cose, vi è stato l’arrivo negli ultimi dieci anni di oltre un milione di rifugiati dalla Siria, che si sono aggiunti ai 300-400 mila palestinesi dei campi profughi del 1948, ed hanno sconvolto le dinamiche e i rapporti sociali in un Paese di quattro milioni e mezzo di cittadini libanesi. Per fare un paragone, sarebbe come se l’Italia avesse accolto — osserva Fausta Speranza — 20 milioni di rifugiati. A regolare i rapporti tra le diverse componenti vi è, dal 1943, un Patto nazionale che attribuisce ai cristiani la presidenza della Repubblica, ai musulmani sunniti l’incarico di primo ministro e, ai musulmani sciiti, la presidenza del Parlamento. Fino agli anni Settanta, il Libano era sinonimo di un Paese ricco, moderno, laico, modello di società plurireligiosa. In molti lo consideravano una Svizzera del Medio oriente, con il lungomare di Beirut affollato di bar, ristoranti, locali all’ultima moda. Lo scenario è mutato quando il Paese è stato risucchiato — spiega l’autrice — nell’orbita dei conflitti tra Israele, l’Olp di Yasser Arafat, la Siria, l’Arabia Saudita, l’Iran della post-rivoluzione khomeinista. Due invasioni israeliane: la prima nel 1982 (contro i palestinesi e i loro sostenitori libanesi), la seconda nel 2006 (contro gli sciiti di Hezbollah filoiraniani); nel mezzo, una guerra civile durata dal 1975 al 1990 innescata e pilotata soprattutto dalle vicine potenze regionali. Dal 2011 poi, il conflitto siriano è tracimato attraverso i porosi confini libanesi, non solo per la massa dei rifugiati in fuga ma anche — da un lato — per le incursioni dei miliziani del sedicente stato islamico (Is) nel Paese dei cedri e — dall’altro — per l’intervento diretto a fianco del presidente siriano Assad e dell’Iran da parte delle milizie sciite libanesi di Hezbollah. Spesso il Libano è percepito come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. In realtà, Fausta Speranza ne parla come di una fortezza che ha retto di fronte ad una sequenza ininterrotta di guerre, distruzioni, pressioni, attentati. «È sorprendente — scrive — come il Paese abbia tenuto testa all’egemonia siriana sui Paesi limitrofi, abbia resistito, psicologicamente oltre che militarmente al suo vicino Israele, liberando territori occupati, e poi come abbia respinto l’orrore del sedicente Stato islamico nel nord-est». In Libano inoltre, la convivenza di popolo tra cristiani e musulmani, nonostante i conflitti delle milizie e le tensioni istituzionali, non è mai venuta meno, come dimostra l’affluenza incessante di pellegrini non solo cattolici ma anche musulmani al santuario mariano di Nostra Signora del Libano ad Harissa. Il libro conduce il lettore in un viaggio pieno di riferimenti culturali, religiosi, storici, archeologici, persino culinari, oltre che ovviamente politici e sociali, mostrando anche gli aspetti meno conosciuti di quel piccolo-grande laboratorio a cielo aperto che il Libano rappresenta nel Medio oriente. Ad esempio ci svela il primo Giardino dei Giusti in terra libanese, uno spazio aperto per la preghiera individuale e la discussione collettiva in mezzo alla natura, creato nel villaggio di Kfarnabrakh nel 2019 dall’associazione Annas Linnas, guidata dal padre grecomelchita-basiliense Abdo Raad. Sull’esempio del museo ebraico dello Yad Vashem, anche qui vi è un’area che ricorda “i giusti dell’umanità”, nella quale è reso omaggio a donne e uomini di tutte le fedi che hanno scelto il bene, in situazioni molto diverse: dall’epoca della “pulizia etnica” degli armeni nell’Anatolia della prima guerra mondiale all’olocausto ebraico, dai massacri interetnici in Rwanda alle mamme di Plaza de Mayo in Argentina. L’autrice affronta anche l’ultima fase che si è aperta con le proteste scoppiate nel 2019: cristiani delle diverse denominazioni e musulmani sciiti e sunniti si sono ritrovati insieme in piazza contro il carovita e la corruzione, chiedendo il conto al governo per aver fatto sprofondare il Paese in una spirale di povertà, disoccupazione. Il premier Saad Hariri, erede di una famiglia di primi ministri sunniti tradizionalmente legati all’Arabia Saudita, è stato costretto alla dimissioni. Nel nuovo governo, presieduto — come previsto dal Patto nazionale — da un nuovo premier sunnita, Hassan Diab, sono entrati rappresentanti di Hezbollah. La pandemia di covid-19 ha poi rimescolato e complicato tutto. L’esecutivo ha dichiarato la bancarotta e sta rinegoziando il proprio debito con il Fondo monetario internazionale. La rivolta non si è fermata: ha caratteristiche nuove, a protestare ci sono soprattutto i giovani libanesi che — come si legge anche nell’introduzione del libro firmata da Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano esperto dei Paesi del Mediterraneo — vogliono «prendere in mano il loro futuro».

su L’Osservatore romano 23 luglio 2020:

https://media.vaticannews.va/media/osservatoreromano/pdf/quo/2020/07/QUO_2020_166_2307.pdf

 

Sull’Avvenire, il Libano «laboratorio politico» di fratellanza

Avvenire 22 Luglio 2020

IL LIBRO

Il Libano un «laboratorio politico» di fratellanza

Il Libano, un Paese che resiste, e per questo la sua maggiore virtù è la resistenza. Le manifestazioni contro la corruzione e il carovita, esplose nell’autunno del 2019, «sono state una interessantissima espressione popolare, trasversale rispetto a qualunque confessionalismo o settarismo». E per questo “Fortezza Libano. Tra tensioni interne e ingerenze straniere” di Fausta Speranza (Infinito edizioni, euro 14) è una ricognizione storica e culturale del Libano, nella ricerca di una nuova possibilità di sviluppo.
«La maggiore virtù del suo popolo – scrive nella introduzione Pasquale Ferrara – è la resilienza ed è per questo che esso ha diritto a una nuova opportunità di sviluppo umano, di cittadinanza partecipativa, di inclusione sociale, soprattutto per i suoi giovani, scesi in piazza per prendere in mano il loro futuro». Una chance che, secondo Fausta Speranza, ora va cercata nel Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam di alAzhar, al-Tayyeb: «Uno strumento nuovo e straordinario perché non è solo l’espressione di propositi di convivenza e di pace», afferma l’inviata de L’ Osservatore Romano. Nel Libano, «Cuore di Dio» in siriaco, da sempre esposto alle tensioni culturali e geopolitiche dell’intero Medio Oriente, in modo concreto questo documento apre «al concetto di cittadinanza, in linea con l’affermarsi di una comune identità nazionale che superi la logica di minoranze alla ricerca di protettori politici». Il Libano, laboratorio politico della fratellanza. ( L.Ger.) RIPRODUZIONE RISERVATA.

Al voto in Siria

 Tra  violenze e crisi economica

Domani, domenica 19 luglio, si vota per le legislative in Siria, dove, dopo nove anni di guerra non si muore più come prima, ma non si può ancora parlare di completa pacificazione. In particolare, le armi non tacciono nel nord ovest del Paese e anche nell’est resta molto alta la tensione. Intanto, l’80 per cento della popolazione è caduto sotto la soglia di povertà. Con noi l’esperto dell’area Lorenzo Trombetta

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Circa 19 milioni di siriani sono chiamati alle urne domani, domenica 19 luglio, in 7.313 seggi elettorali distribuiti in tutto il Paese per eleggere 250 deputati tra 2.100 candidati. Sono stati creati seggi elettorali anche per le province di Idlib, Raqqa e parti della campagna settentrionale, di Aleppo che non sono ancora completamente sotto il controllo delle forze governative per la presenza di sacche di forze ribelli. Di questo appuntamento elettorale e della situazione del Paese abbiamo parlato con l’inviato dell’Ansa nel Vicino Oriente Lorenzo Trombetta:

In questi anni – ricorda Trombetta – si sono svolte altre elezioni e il governo centrale di Damasco, in particolare dopo la proclamazione tra il 2018 e il 2019 della sconfitta del sedicente Stato islamico, rivendica non solo la legittimità del suo potere, ma anche di aver ripreso il controllo del territorio. In realtà, se nella provincia di Idlib è ancora confronto aperto tra le varie potenze straniere che sono entrate in campo, anche nell’est restano alti la tensione e il rischio che possano riesplodere violenze per la presenza di forze legate al sedicente Stato Islamico. Trombetta ricorda il ruolo delle varie potenze interessate da questo conflitto ormai al decimo anno e descrive poi la situazione sociale. La popolazione – spiega – risente della forte frantumazione del tessuto sociale e comunitario ed è stremata, oltre che dal dramma della morte vissuta da vicino in questi anni, anche dalla crisi economica che è stata perfino aggravata dalle misure restrittive dovute alla pandemia. Tanto che – ricorda Trombetta – nei rapporti dell’Onu si parla dell’80 per cento della popolazione che ormai si trova sotto la soglia di povertà.

Il dramma della provincia di Idlib

Gli investigatori delle Nazioni Unite denunciano crimini contro la popolazione civile di Idlib, ultimo territorio nelle mani della rivolta, nella provincia nord occidentale del Paese. Secondo un rapporto dell’Onu pubblicato la settimana scorsa si tratta di crimini di guerra, e forse crimini contro l’umanità, in particolare se si considera le conseguenze sulla popolazione civile dell’offensiva lanciata tra novembre 2019 e aprile di quest’anno dall’esercito di Damasco e dalle forze russe alleate. Il rapporto, che si basa su materiale fotografico e video, parla di almeno 52 attacchi di questo tipo e riporta oltre 300 testimonianze. In particolare, nei mesi sui quali ha indagato l’Onu sono stati colpiti 17 presidi sanitari, 14 scuole, 9 mercati e 12 edifici civili, la maggior parte dei quali dalle forze del regime e dai loro alleati di Mosca. E il punto è proprio che sono stati “sistematicamente attaccati ospedali, scuole, mercati”. Stando al rapporto, inoltre, le forze governative hanno anche usato bombe a grappolo. Secondo Paulo Sérgio Pinheiro, presidente della commissione d’inchiesta Onu sulla Siria, “alcuni bambini sono stati bombardati mentre erano a scuola,  civili sono stati bombardati mentre facevano la spesa al mercato, pazienti sono stati bombardati nei loro letti d’ospedale e alcune famiglie sono state colpite mentre fuggivano verso luoghi più sicuri”. L’offensiva delle forze del presidente Bachar al-Assad ha provocato un milione di profughi e più di 500 morti secondo il rapporto. “Nel corso di questa campagna le forze del regime hanno violato in modo flagrante le leggi della guerra e dei diritti dei civili siriani”, dice ancora Pinheiro. Mentre, sempre secondo il rapporto, alcuni “bombardamenti indiscriminati”, in particolare quelli su Maarat Al-Nouman, “potrebbero rientrare nella categoria dei crimini contro l’umanità”. Gli autori del rapporto hanno anche accusato la milizia islamista Hayat Tahrir al Sham (Hts), che controlla parte di Idlib, di bombardamenti nelle aree sotto il controllo del governo, nei quali hanno perso la vita oltre 200 civili. I miliziani, inoltre, si sono macchiati di crimini di guerra come saccheggi, rapimenti, torture e omicidi di civili.

L’appello delle Nazioni Unite

In questi giorni si è svolta a Ginevra la 44esima Sessione del Consiglio dei Diritti Umani ed è emerso l’appello alle parti in conflitto a rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e proteggere la popolazione e le infrastrutture civili, incluso scuole ed ospedali. Inoltre, è stata sottolineata l’importanza che le forniture di aiuti umanitari siano garantite in maniera imparziale e senza discriminazioni, attraverso il pieno utilizzo di tutti i canali assistenziali possibili, inclusi i meccanismi emergenziali “crossborder”.

La questione aiuti

Il consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la settimana scorsa una risoluzione che proroga la fornitura degli aiuti umanitari alla Siria dalla Turchia, ma solo attraverso un solo punto di passaggio. E’ quanto ha chiesto la Russia, che nei giorni scorsi insieme con la Cina aveva messo il veto a tutte le proposte per mantenere i due ‘crossing point’ previsti nella risoluzione scaduta venerdì scorso. Secondo Mosca sarebbe stata una violazione della sovranità di Damasco.

L’incubo pandemia

Il coronavirus è arrivato anche a Idlib: un medico di 30 anni è risultato positivo due giorni fa e sono in corso accertamenti su coloro che sono entrati in contatto con lui. L’ospedale è stato temporaneamente chiuso. Già a marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva inviato un team per monitorare un’area potenzialmente esplosiva: su tre milioni di abitanti, oltre un milione di persone sono ammassate in tende e alloggi di fortuna, tra malnutrizione e malattie, con un sistema sanitario notevolmente decimato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/siria-guerra-pandemia-crisi-economica-armi.html

Le misure legali che creano povertà

La denuncia della Caritas Internationalis

Cancellare il debito dei Paesi poveri e rivedere le sanzioni che colpiscono i civili senza portare altri frutti: è l’appello della Caritas Internationalis, emerso nella conferenza stampa streaming di presentazione del suo Rapporto annuale. Il presidente, cardinale Tagle, ha auspicato una nuova speranza di solidarietà per il futuro, oltre l’emotività della crisi sanitaria, chiedendo che si lavori per “un cessate il fuoco globale”.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Debito e restrizioni commerciali tagliano i ponti delle possibilità di riscatto di intere popolazioni ben oltre i confini dei Paesi direttamente colpiti. Un esempio è sotto gli occhi di tutti: il Libano, che certamente paga anni di politiche economiche miopi, si trova però sotto scacco anche per le ripercussioni delle sanzioni imposte al governo siriano, che da anni mortificano gli scambi commerciali. Per Beirut, Damasco rappresentava il primo partner commerciale della regione. E’ solo uno dei risvolti di cui si è parlato nella conferenza stampa streaming di presentazione del Rapporto annuale di Caritas Internationalis che si è svolta ieri pomeriggio. Hanno partecipato il presidente, il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle; il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John; il cardinale Wilfrid Fox Napier, presidente di Caritas Sud Africa e Rita Rhayem, direttore di Caritas Libano.

Un orizzonte nuovo nelle parole del cardinale Tagle

Il cardinale Tagle ha mandato un messaggio di speranza, nella convinzione che “i tanti cambiamenti che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo siano un’occasione per il futuro” per costruire una “nuova connessione di solidarietà”. Siamo “una sola famiglia umana” – ha ricordato il presidente di Caritas Internationalis – e la sensazione di vicinanza che ha suscitato la pandemia, colpendo tutti, non può essere dimenticata senza lasciare un segno: e quel segno dovrebbe essere la capacità di dare nuove risposte. Non solo emotività nel momento della crisi sanitaria – è il messaggio del cardinale Tagle –  ma anche capacità di combattere con forza condizioni drammatiche come la fame nel mondo, le guerre, le violenze, che calpestano vite umane e la dignità delle persone. E dunque – ha spiegato – significa recuperare lo sguardo inclusivo di Papa Francesco nella Laudato Si’ e adoperarsi per azioni concrete come quella di “un cessate il fuoco globale”.

Lo sguardo particolare al Medio Oriente

Ad illustrare il quadro che emerge dal Rapporto Caritas Intrnationalis 2019 è stato il segretario generale dell’organizzazione, Aloysius John, che ha sottolineato come “la situazione in Medio Oriente è peggiorata drasticamente negli ultimi sei mesi e le sanzioni economiche e l’embargo sulla Siria hanno contribuito ad aggravare la tendenza”. La convinzione di Aloysius John è chiara: “Le sanzioni unilaterali senza dialogo o negoziati non sono mai servite allo scopo, al contrario, sono state controproducenti”. Ha spiegato che gli effetti delle sanzioni come strumento politico non hanno sortito gli effetti sperati e piuttosto hanno dimostrato un enorme potere di distruzione delle vite delle persone più vulnerabili”. I prezzi sono saliti alle stelle, le persone non hanno i mezzi per comprare cibo, la malnutrizione si sta diffondendo e c’è una crescente rabbia contro la comunità internazionale. La situazione è peggiore per i più vulnerabili, in particolare i bambini, le donne e gli anziani, già profondamente colpiti da guerre, tensioni, fondamentalismo e dal Covid-19. “I più poveri – ha ricordato – sono quelli che pagano sempre il prezzo più alto”. In questi giorni “guardiamo tutti con particolare preoccupazione al Libano, che è sempre stato un modello di equilibrio per l’intero Medio Oriente”, ha sottolineato Aloysius John. Un Paese che è sempre stato un “messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per Oriente e Occidente”, come diceva San Giovanni Paolo II.

Significativi i dati sul Libano

Oggi in Libano – ha ribadito Rita Rhayem, direttore della Caritas del Paese dei cedri – il 75 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza e la valuta locale ha perso l’80 per cento del suo valore. “Ma – ha proseguito Aloysius John – questo non è l’unico motivo per cui siamo fortemente preoccupati per la crisi libanese”, aggiungendo: “Il Libano è sempre stato un centro essenziale per l’invio di aiuti umanitari a Paesi come la Siria e l’Iraq, e se la situazione non migliora, le conseguenze per l’intera regione saranno catastrofiche”.

Le richieste concrete

Essenziale il richiamo al Papa: più volte Papa Francesco ha invitato le nazioni ricche a riconsiderare la cancellazione dei debiti per le nazioni più povere, ha ricordato il segretario generale. Il debito delle nazioni più povere è spesso pagato dal sudore e dalla fatica dei più poveri. Sono altamente vulnerabili e sono facili prede di tutti i tipi di problemi di salute a causa della loro fragilità. La Caritas chiede la riduzione del debito delle nazioni più povere e la riallocazione dei fondi alle organizzazioni affidabili che lavorano con queste comunità. “Solo la riduzione del debito e la sua riallocazione per lo sviluppo alla base – è stato ribadito durante l’incontro telematico – consentiranno il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e garantiranno la dignità dei più poveri”. “È inconcepibile – ha affermato Aloysius John – che misure affrettate messe in atto senza alcun dialogo con gli attori regionali siano fatali per i più poveri”. Dunque, i rappresentanti della Caritas si sono uniti al grido del Papa, “per fermare qualunque violenza e  conflitto” e chiedere “l’immediata sospensione delle sanzioni”.

Parole dure contro le sanzioni

Aloysius John ha affermato che le sanzioni opprimono i più poveri e sono, in sostanza, strumenti per “l’uccisione passiva di civili innocenti”.  Ha definito le sanzioni “misure ingiuste che colpiscono le persone più vulnerabili, soprattutto in questo momento del Covid-19” e ha affermato che “stanno creando terreno fertile per il terrorismo”. “Le persone che fuggono da situazioni difficili diventano migranti illegali che vengono respinti dai Paesi vicini e dall’Europa”. In sostanza, Aloysius John ha ricordato che “la lotta contro la fame, la povertà e l’ingiustizia è l’obiettivo principale della confederazione in quanto garantisce il benessere e la dignità umana dei più vulnerabili”.

L’impegno dell’organismo ecclesiale in tempo di pandemia

Per fronteggiare l’emergenza Covid, la Caritas Internationalis ha finanziato 23 progetti e altri 14 sono già stati approvati. Grazie ad essi, le famiglie sono state aiutate con l’assistenza alimentare di base, kit per l’igiene, sapone, pannolini e assistenza in contanti per pagare l’affitto e altri bisogni urgenti. E’ solo un esempio di centinaia di azioni piccole, ma molto importanti, che contribuiscono alla prevenzione della propagazione del virus. Al momento, Caritas Internationalis sta aiutando quasi 9 milioni di persone in 14 Paesi, inclusi Ecuador, India, Palestina, Bangladesh, Libano e Burkina Faso. Sono circa 2 milioni di persone, inoltre, i beneficiari dei programmi di fondi per un totale di 9 milioni di euro in differenti parti del mondo. Purtroppo però i responsabili della Caritas sanno bene che ci sono altre centinaia di migliaia di persone che hanno bisogno di aiuto.

L’allarme del Fmi in vista del G20

E’ stato ricordato che il lockdown a diverso titolo ha paralizzato l’economia globale, con forti ripercussioni in Europa, Stati Uniti, Cina, Giappone. Il punto è che la Caritas torna a richiamare tutti ad una consapevolezza: quella di essere davanti a un’emergenza atipica in cui Paesi che normalmente sono tra i maggiori donatori sono anche i più colpiti dal virus. Anche per questo motivo, l’utilizzo degli aiuti internazionali per rispondere ai bisogni nazionali “non rappresenta la giusta soluzione”, non può essere sufficiente. L’incertezza resta alta anche se qualche segnale di ripresa c’è. E’ quanto afferma il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel documento preparato per il G20 dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali, che si terrà virtualmente il 18 luglio. Al G20 il Fondo chiede “sforzi collettivi”: “Sono essenziali per mettere fine alla crisi finanziaria e rilanciare la crescita”. Anche l’Europarlamento chiede un approccio nuovo. Nel comunicato pubblicato la settimana scorsa durante la Plenaria, si legge che in Siria, dopo un decennio di conflitto, è giunto per l’Europa il momento di ripensare i propri interessi e la propria politica. Oltre al sostegno al rinnovo del meccanismo delle Nazioni Unite (che fornisce aiuti transfrontalieri alla Siria), “l’Europa dovrebbe sviluppare delle politiche parallele che possano gradualmente andare oltre la semplice fornitura di aiuti umanitari”. Questo “potrebbe consistere nell’autorizzare gli attori locali a realizzare progetti di recupero attraverso un sostegno diretto, utilizzare istituti di microfinanza per erogare prestiti agli agricoltori e alle cooperative agricole o sostenere le capacità delle piccole aziende farmaceutiche per soddisfare le esigenze locali”.

A rischio fame 230 milioni di persone

Secondo il World Food Program, il numero di persone che rischia la fame nel mondo per le conseguenze della pandemia potrebbe raddoppiare fino ad arrivare a 230 milioni di persone. In Africa manca il cibo e in molti Paesi si stanno aggiungendo inondazioni, siccità, invasioni di locuste e raccolti scarsi. In alcuni Stati del Medio Oriente, dell’America Latina e dell’Asia sta già aumentando la malnutrizione infantile e il numero di adulti che soffrono la fame. Tra le categorie più a rischio i migranti, gli sfollati interni, i rifugiati e i rimpatriati, come quelli in Venezuela. Particolarmente critica la situazione dei migranti irregolari perché non rientrano in nessuna delle categorie che possono ottenere aiuti.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-07/caritas-medio-oriente-libano-siria-pandemia.html

Fortezza Libano nella recensione di Paolo di Giannantonio

Il dramma e la magia del paese dei cedri nel libro di Fausta Speranza

di Paolo Di Giannantonio

 Notizie molto più che preoccupanti dal Libano: ormai siamo alla narrazione quotidiana del precipitare di una nazione intera negli abissi di una crisi finanziaria ed economica che è anche politica e sociale. E, sullo sfondo, si sentono i sordi scricchiolii anche di quel difficile equilibrio che ha permesso una straordinaria, anche se mai facile, convivenza a 18 confessioni religiose diverse. L’incubo di tutti e che si torni a regolare i conti con le armi, con si è spesso fatto negli anni passati.

Oggi la “Svizzera del Medio Oriente”, così come la si definiva negli anni d’oro, sembra chiamata a pagare, tutte e subito, le contraddizioni che ieri erano considerate elementi costitutivi di uno Stato unico nel suo genere, profondamente arabo e mediorientale, ma anche composto da pezzi d’Occidente di avanguardia. Le analisi, tutte pessimistiche, si rincorrono. Le previsioni per il futuro prossimo, sono tutte negative. Inflazione, banche in dissesto, manifestazioni di piazza, scarsità di alcuni generi di prima necessità, interruzione di servizi essenziali come la corrente elettrica per periodi sempre più lunghi. La tristezza, narrata con magistrale lucidità, da quell’intellettuale amaramente consapevole di Samir Kassir, è diventata angoscia, incertezza per il domani, voglia di fuga. E, dal passato recente, riemergono ferite mai chiuse, i ricordi di massacri e crudeltà impossibili da dimenticare. Da quello meno recente i dubbi su quella ingegneria post-coloniale che ha tratteggiato il Medio Oriente per quello che è ancora e che non dovrebbe essere più.
Il Libano soffre l’aggressività e l’ingerenza degli stati vicini, a cominciare da Israele, subisce i danni delle tragedie irakena e siriana, sente sulla pelle le tensioni tra Arabia Saudita ed Iran.
Ci sono stato più volte, a raccontare l’affermazione di Hezbollah, l’arroccamento e le divisioni interne dei cristiani, il mistero dei Drusi, in campi profughi senza speranza dei palestinesi, il malumore della popolazione sunnita. Ma anche la straordinaria vitalità di Beirut, le impareggiabili bellezze naturali ed archeologiche di Tiro, Sidone e della Beckaa. Il fermento culturale, la voglia dei libanesi di restare uniti, di sentirsi popolo. Ma subito dopo anche l’amarezza dei giovani, che non riescono a vedere un futuro.
TuttI questi spunti vengono puntualmente approfonditi e sviluppati dalla collega Fausta Speranza, nel suo bel libro, “Fortezza Libano”, che potrà essere strumento utilissimo per chi vorrà conoscere questo paese così complesso e pieno di sfumature.
Nella interessantissima prefazione, Massimo Campanini, autorità indiscussa della mediorientalistica italiana (consentitemi questo neologismo), ricorda che questo è stato un paese “costruito” dagli ingegneri geopolitici francesi nel dopoguerra e che paga e pagherà sempre questa stortura. Ne sottolinea, anche, la ricchissima tradizione culturale, che Fausta Speranza ben racconta e illustra nella seconda parte del volume. È paese da apprezzare E studiare nella letteratura, nelle arti, nella musica ed anche, molto, nella cucina.
E se la politica sembra confusa e miope, incapace di trovare vie di uscita alla grande crisi che attanaglia non solo il Libano ma la regione intera, molto attiva è la diplomazia di Papa Bergoglio, che con le parole d’ordine dialogo, fratellanza e pace non si risparmia. Fausta Speranza tutto questo lo illustra, dando, a questo momento pieno di incertezze, un motivo di speranza. Ecco: da cronista disincantato spero proprio che abbia ragione lei…

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/cultura1/libri-film/199-fortezza-libano-il-dramma-e-la-magia-del-paese-dei-cedri-nel-libro-di-fausta-speranza

“Fortezza Libano” racconta le sfide di un Paese che ‘resiste’

“Fortezza Libano” è l’espressione che la giornalista di Vatican News Fausta Speranza ha scelto per descrivere la realtà di un Paese che rappresenta un unicum nel contesto mediorientale e può essere un laboratorio fecondo per tutta la Regione

Debora Donnini – Città del Vaticano

“Il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano”. La citazione del Cantico dei Cantici che dà il “la” al libro “Fortezza Libano”, uscito per Infinito Edizioni, testimonia già da queste prime parole la centralità di questo territorio che porta le orme e il fascino di storia e civiltà, tra cui quella cristiana. I viaggi che la collega Fausta Speranza vi ha compiuto sono stati in qualche modo tradotti in queste pagine nelle quali si fotografa la situazione di un Paese che fino agli anni Settanta era il più ricco e moderno del Vicino Oriente mentre oggi è attraversato da tensioni interne, ingerenze straniere e manifestazioni di piazza contro il carovita e la corruzione. “Quello che io ho potuto constatare – dice Fausta Speranza nell’intervista –   è che il Libano è un Paese che dopo la guerra civile tra il 1975 al 1990, vive una situazione particolare”. In definitiva, si tratta di “un Paese che resiste”. “A 20 chilometri da Balbeek, dove c’è il bellissimo sito archeologico – racconta – si trova il confine con la Siria, un Paese in guerra da circa 10 anni. Da questo si capisce che il Libano ha resistito, ad esempio, all’ingerenza del sedicente Stato islamico. Non solo,  sono arrivati un milione e mezzo di profughi – in una certa fase perfino due milioni – e questo piccolissimo Paese di circa 4 milioni e mezzo di abitanti li ha accolti. Tuttora vi si trovano un milione e mezzo di profughi siriani e il Libano resiste alla tentazione del rifiuto”. Un piccolo territorio, il Paese dei cedri, “un crocevia fondamentale negli equilibri del contesto regionale, che ha resistito da dopo la guerra civile finora anche al fenomeno che  l’intellettuale statunitense Huntington ha definito ‘scontro di civiltà’”.

Le sfide

Ma Speranza vuole raccontare anche le sfide, a partire da quelle sul piano economico e sociale, con cronaca e approfondimenti sulle tensioni interne e sulle ingerenze straniere, come recita il sottotitolo del libro. E descrive la peculiarità di un Paese dove la rappresentanza politica riflette, in qualche modo, quella delle differenti religioni che lo abitano. Vi sono  cristiani, sunniti, sciiti, alcune minoranze, e la Costituzione prevede una forma di governance definita confessionalismo, con le tre principali cariche attribuite a cristiani maroniti, sunniti, sciiti. Un Paese che l’autrice definisce “un possibile laboratorio privilegiato del Documento di Abu Dhabi firmato il 4 febbraio del 2019 da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb”. E  questo perché – spiega – “si tratta di un documento importante per l’affermazione della promozione del dialogo tra credenti in termini di incontro nello spazio dei valori etici e spirituali,  per la  presa di posizione importante contro qualunque strumentalizzazione delle religioni nel senso della violenza, ma anche perché si tratta di un documento in cui si parla del concetto di cittadinanza”. Speranza sottolinea che dobbiamo considerarlo un pronunciamento  molto importante e afferma: “Cittadinanza significa riconoscere l’uguaglianza dei diritti e doveri su un fondamento di giustizia, e il Libano, dove l’equilibrio tra la presenza cristiana e quella musulmana è particolare anche se tra diverse sfide, può essere indicato anche come un laboratorio per il processo di acquisizione del concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale”.

Il riferimento al magistero dei Papi

A proposito dei risvolti del magistero dei Papi nel libro, l’autrice cita, oltre a Papa Francesco, in particolare due riferimenti: nel 2010  il Sinodo sul Medio Oriente voluto da Benedetto XVI; e, facendo  un passo indietro, nel 1997 la visita di Giovanni Paolo II  in Libano per la pubblicazione dell’Esortazione post-sinodale del Sinodo speciale dedicato proprio al Libano. In quell’occasione il Papa oggi Santo ha parlato così della terra dei cedri: “Il Libano è qualcosa di più di un Paese: è un messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per l’Oriente come per l’Occidente”.

La testimonianza di scrittori e poeti

Il libro di Fausta Speranza va anche a ritroso nella storia di questo Paese dai mille volti, dalle impronte fenice ai numerosi richiami nella Bibbia, e rintraccia, nell’oggi quegli scrittori e poeti testimoni di quella bellezza e profondità della cultura libanese come Amin Maalouf, “un romanziere particolarissimo – dice Speranza – un intellettuale simbolo, un interprete particolarissimo di tutte le sfide culturali che coinvolgono l’Oriente come l’Occidente. “Mi ha affascinato molto e c’è questa frase che mi è rimasta dentro: Sogno un mondo in cui l’agnello e il lupo si abbeverano allo stesso ruscello”. Dipinge così quell’afflato di dialogo e di scambio che da sempre nutre la variegata eredità libanese.

da Vatican NEWS del 14 luglio 2020

Nasce la Rete contro l’odio social

Viene definito hate speech: è il linguaggio carico di aggressiva ostilità che caratterizza molti dei contenuti che girano sui social network o su Internet. Vari Paesi d’Europa hanno emanato leggi ad hoc, in Italia ancora non c’è una normativa precisa, ma nasce la Rete che riunirà agenzie educative e associazioni di studi giuridici per monitorare il fenomeno dell’odio sui social e studiare gli strumenti per contrastarlo. Con noi l’esperto di linguistica Federico Faloppa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La neonata Rete, presentata oggi con una conferenza stampa online, si occuperà di ricerca, condivisione di buone pratiche di narrazione corretta e accurata, di promozione di percorsi educativi e formativi per sensibilizzare la società civile su un fenomeno galoppante, al quale non ci si può abituare. Tra i promotori tre ong che operano a livello internazionale (Action Aid Italia Onlus, Amnesty International Italia, COSPE Onlus), che hanno coinvolto diverse asociazioni e studiosi. Del fenomeno e della doverosa reazioni a tutti i livelli della società, abbiamo parlato con Federico Faloppa, docente di Linguistica all’Università Reading in Gran Bretagna:

Sono i numeri – spiega Federico Faloppa – che raccontano l’ampiezza della compagine che ha dato vita alla prima Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. I numeri – 5000 denunce in pochi anni – evidenziano l’importanza e la forza del progetto, unico nel suo genere, perché capace di riunire le più importanti realtà che da diverso tempo si occupano di mappare e combattere i discorsi e i fenomeni di odio: di particolare rilievo, l’approccio multidisciplinare che consente di coprire tutti i territori che è necessario presidiare per un’efficace azione, dalla ricerca alla proposta normativa, fino agli interventi nelle scuole per combattere bullismo, discriminazioni e intolleranze e per favorire la cultura dell’inclusione. Di fronte alla sempre più violenta e pericolosa pervasività dei discorsi e dei fenomeni di odio ad essi collegati – sottolinea – diventa urgente coordinare le diverse iniziative per dar vita a una risposta davvero incisiva. Da qui, la creazione della Rete, tra le cui finalità spiccano gli elementi individuati anche dall’Unesco e dal Consiglio d’Europa come necessari per affrontare il fenomeno dello hate speech: dal contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, dai fenomeni di disinformazione da cui essi traggono origine alla creazione e promozione di narrazioni corrette e accurate e narrazioni alternative.

Le prime adesioni all’iniziativa

Oltre alle ong hanno aderito all’iniziativa otto associazioni tra cui ASGI-Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, ARCI, Associazione Carta di Roma, Associazione Giulia Giornaliste, Lunaria, Pangea Onlus, Vox-Osservatorio italiano sui Diritti, etc. Partecipano inoltre ricercatori provenienti da otto università (Bicocca, Bologna, Firenze, Padova, Reading (Uk), Statale Milano, Trento, Verona) e tre centri di ricerca (Cnr Palermo; Centro per le scienze religiose e Centre for information and communication technology della Fondazione Bruno Kessler); un centro studi (Cestudir Venezia); due osservatori (Oscad-Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, Osservatorio di Pavia); il Consiglio Nazionale Forense e la Commissione diritti fondamentali della Camera penale di Venezia. Partecipa al confronto promosso dalla Rete l’Unar – Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali.

Dell’impegno sul piano della formazione, parla Silvia Brena, giornalista e docente di Facoltà di Teorie e tecniche della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano:

Silvia Brena spiega che, tra i vari progetti per assicurare una narrazione alternativa a quella che rientra nella definizione di hate speech, la Rete promuoverà da settembre una serie di webinair su tematiche inerenti. L’obiettivo – sottolinea Brena – è quello di assicurare un’informazione e una formazione che possano contrastare le fake news, che sono il primo grave scalino dell’incitamento all’odio. La disinformazione purtroppo dilaga e – spiega Brena – quella che è imperversata attraverso whatsap durante il periodo di lockdown è stata incredibilmente condivisa e ripostata. Dare false notizie è il modo più facile e immediato per alimentare rancore e risentimento nelle persone. Dunque, Brena spiega che i seminari online si riprometteranno di offrire seria informazione su quei temi sui quali invece si ritrovano più distorsioni sui social.

da Vatican NEWS del 14 luglio 2020