Nizza, il Papa prega per le vittime: torniamo a guardarci come fratelli

Informato del crudele agguato terroristico avvenuto nella basilica Notre-Dame della città francese, che ha portato alla morte di tre persone, Francesco – riferisce la Sala Stampa vaticana – è vicino alle famiglie degli uccisi e al Paese: “La violenza cessi” e “l’amato popolo francese possa reagire unito al male con il bene”. Anche i vescovi francesi esprimono il proprio dolore, alle 15 campane a morto in tutta la Francia

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“È un momento di dolore, in un tempo di confusione. Il terrorismo e la violenza non possono mai essere accettati”. La Sala Stampa della Santa Sede, per bocca del suo direttore Matteo Bruni, reagisce così alla notizia giunta da Nizza, dove una sanguinosa aggressione ad opera di un killer  “ha seminato morte in un luogo di amore e di consolazione, come la casa del Signore”. Il Papa – ha proseguito Bruni -“è vicino alla comunità cattolica in lutto. Prega per le vittime e per i loro cari, perché la violenza cessi, perché si torni a guardarsi come fratelli e sorelle e non come nemici, perché l’amato popolo francese possa reagire unito al male con il bene”.

La cronaca

L’attacco con un coltello è avvenuto questa mattina, intorno alle 9, nella basilica Notre-Dame nel centro di Nizza, in Avenue Jean-Medecin. L’aggressore, che ha urlato “Allah Akbar”, ha decapitato una donna e ha sgozzato un uomo – il sacrestano –  che sono morti sul colpo all’interno della chiesa e ha colpito alla gola un’altra donna che è scappata rifugiandosi in un bar, dove però è deceduta dopo poco. Ha fatto in tempo a dire:  “Dite ai miei figli che li amo”.  Gli agenti hanno fatto irruzione sparando. L’attentatore è stato arrestato dopo essere rimasto ferito. Il sindaco di Nizza, Cristian Estrosi, che ha  immediatamente parlato di attacco terroristico, ha disposto che tutte le chiese fossero messe sotto sorveglianza o chiuse, così come tutti gli altri luoghi di culto della città.  Lo stesso sindaco ha poi riferito che “mentre stavano medicando l’attentatore questi continuava a gridare “Allah è grande”.

Il presidente Emmanuel Macron si è diretto sul posto. Il primo ministro Jean Castex ha lasciato precipitosamente l’Assemblea nazionale, dove avrebbe  dovuto presentare le nuove misure introdotte per fare fronte all’epidemia di coronavirus, per partecipare alla riunione di crisi organizzata al ministero degli Interni dal ministro Gerald Darmarin. Riattivato lo stato di emergenza attentati in Francia “al massimo livello”.

La preghiera e la vicinanza dei vescovi di Francia

“È con la più grande tristezza che ho  appreso del dramma che colpisce la comunità cristiana e ancora una volta la città di Nizza”.  Sono parole del presidente della Conferenza episcopale  francese, l’arcivescovo Éric de Moulins-Beaufort di Reims. L’arcivescovo ricorda che è accaduto a pochi giorni dal feroce omicidio del professor Samuel Paty ed esprime sgomento che “non può che essere forte dopo questa nuova dolorosissima tragedia. “La mia tristezza è infinita  – dice – di fronte a ciò che di disumano possono fare altri esseri umani”.  Sottolinea che tutte le chiese di Nizza sono poste sotto la protezione della polizia. Assicura: “Tutte le mie preghiere vanno alle vittime, ai loro cari, alle forze dell’ordine in prima linea in questa tragedia, ai sacerdoti e ai fedeli feriti nella loro fede e speranza”. Poi aggiunge: “Che lo spirito di perdono di Cristo prevalga di fronte a questi atti barbari”.

Inoltre, nel comunicato dei vescovi francesi pubblicato sul sito della diocesi si legge:  “Queste persone sono state aggredite e uccise perche’ si trovavano nella basilica: rappresentavano un simbolo da distruggere. Questi omicidi ci ricordano il martirio di padre Jacques Hamel. Attraverso questi atti orribili, è il nostro intero Paese ad essere colpito. Questo terrorismo mira a instillare un clima di ansia nella nostra società”. Dunque, l’appello: “E’ urgente che questo cancro venga fermato così come è urgente ritrovare la fraternità, indispensabile per tenerci tutti in piedi di fronte a queste minacce. Nonostante il dolore che ci attanaglia, i cattolici si rifiutano di cedere alla paura e, con l’intera nazione, vogliono affrontare questa minaccia infida e cieca”. I vescovi invitano dove possibile a suonare le campane a morto in tutte le chiese di Francia oggi alle 15.

Due settimane fa l’uccisione di Samuel Paty

L’attacco arriva mentre la Francia è ancora sotto choc per la decapitazione di Samuel Paty, l’insegnante ucciso il 16 ottobre  per aver parlato agli studenti delle vignette di Charlie Hebdo che ritraggono il Profeta Maometto. Inoltre la tensione è aumentata nelle scorse ore dopo la pubblicazione da parte di Charlie Hebdo di nuove vignette contro il presidente turco Erdogan e dopo le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron.

La strage del 2016

Torna alla mente la strage avvenuta a Nizza alle 22.30 del 14 luglio 2016, costata la vita a 84 persone. Allora  un uomo, alla guida di un autocarro, investì volontariamente la folla che assisteva ai festeggiamenti pubblici in occasione della festa nazionale francese nei pressi della Promenade des Anglais. La corsa del veicolo proseguì per 1.847 metri, durante la quale il conducente sparando all’impazzata, forzò la zona pedonale e provocando il numero massimo di vittime. E in quell’estate inoltre  due militanti del sedicente Stato islamico assassinarono in una chiesa della Normandia padre Jacques Hamel.

Dai vertici dell’Unione europea arrivano parole di condanna e di vicinanza alla Francia. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dice: “Restiamo uniti e determinati di fronte alla barbarie e al fanatismo”. Il presidente dell’europarlamento, David Sassoli, sottolinea: “Questo dolore è sentito da tutti noi in Europa: abbiamo il dovere di stare insieme contro la violenza e contro coloro che cercano di incitare e diffondere l’odio”.

Per riflettere sulle modalità, sul contesto territoriale e quello geopolitico, abbiamo intervistato Marco Lombardi, docente di politiche della sicurezza dell’Università Cattolica di Milano:

Lombardi sottolinea che siamo di fronte all’ennesimo attentato che ci riporta alla scia già vista. In particolare la modalità operativa con il coltello è una dinamica facile da replicare che fa pensare che non ci debba essere una organizzazione vera e propria dietro ma che basti una cellula a livello familiare o di relazioni pseudo amicali per far maturare la decisione e la messa in atto. Lo studioso poi si sofferma sul contesto in cui avviene: la Francia, già colpita e l’ultima volta solo due settimane fa, ma soprattutto la Francia che si ritrova al centro di dinamiche geopolitiche difficili con altri attori internazionali e in cui dunque un atto terroristico va letto pensando a quanti – tanti, sottolinea Lombardi – possano avere interesse a strumentalizzare le forze terroristiche stesse. E – spiega – anche se la pandemia ha distratto l’opinione pubblica dall’allarme terrorismo, in realtà il silenzio mediatico non ha significato alcun fermo di tali attività. Lombardi poi ricorda non solo l’uccisione dell’insegnante francese ma anche i tragici fatti sulla Promenade des Anglais di 4 anni fa. E, a proposito del contesto territoriale di Nizza e della Francia del sud, spiega che ci sono delle caratteristiche che tornano: il disagio di alcuni strati della popolazione, le diseguaglianze, sacche di mancata integrazione. Avviene in tutto il territorio francese ma in particolare nel sud. Lo studioso di dinamiche di sicurezza però avverte: capire l’humus in cui maturano non solo gli atti di sangue ma anche la pianificazione degli episodi terroristici non deve significare fermarsi a questo livello di analisi e pensare che tutto ciò giustifichi, motivi l’odio e il terrorismo. Il punto è che se le realtà difficili esistono, come in ogni società, c’è però qualcuno che ad arte fa leva su tutto ciò e fa opera di vera e propria strumentalizzazione.

da Vatican NEWS del 29 ottobre 2020

 

Libano e Israele a colloquio sui confini marittimi

Secondo round di negoziati per la demarcazione delle acque territoriali del Paese dei cedri e dello Stato ebraico. Una questione che non tocca l’equilibrio di rapporti tra i due Paesi dettato dall’armistizio in vigore dal 1949, come ricorda lo studioso Claudio Lo Jacono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo round di colloqui, nel giro di due settimane,  tra Libano e Israele, mediati dagli Stati Uniti, per la demarcazione della frontiera marittima. Si svolgono, il 28 e 29 ottobre,  a Capo Naqura, all’estremo sud del Libano. Si tratta della base del contingente Onu (Unifil) e i negoziati infatti sono alla presenza dell’inviato Usa, l’ambasciatore in Algeria John Desrocher. La prima sessione si era svolta lo scorso 14 ottobre. Dell’obiettivo abbiamo parlato con Claudio Lo Jacono, direttore della rivista Oriente moderno:

Incontri tripartiti

Su un altro piano si svolgono i cosiddetti incontri tripartiti tra i due Paesi e i rappresentanti Onu. Ad esempio ieri, sempre nel sud del Libano, c’è stato l’incontro tra militari libanesi, israeliani e i vertici di Unifil, il contingente delle Nazioni Unite  a ridosso della Linea Blu di demarcazione tra i due Paesi. Gli incontri tripartiti si svolgono da anni a cadenza regolare, circa ogni sei settimane, nella base di Unifil 132-A di Capo Naqura e sono guidati dal generale italiano Stefano Del Col, comandante in capo di Unifil. Vi partecipano delegazioni militari israeliane e libanesi e si discutono questioni tattiche e operative, e non politiche, in linea con gli obiettivi della risoluzione Onu n.1701 del 2006, che metteva formalmente fine alla guerra tra Israele e gli Hezbollah libanesi nell’agosto di 14 anni fa.

da Vatican NEWS del 28 ottobre 2020

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-10/libano-israele-idrocarburi-acque-mediterraneo.html

Contro le armi nucleari servono Trattati e una nuova mentalità

Andare oltre il principio di deterrenza: è quello che cerca di fare il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari, che dopo la ratifica in questi giorni entrerà in vigore a gennaio, mentre si parla anche di moratoria, come ricorda lo studioso Antonello Biagini. Molti i passi concreti che si possono fare, ma serve una visione complessiva, come spiega Matteo Luigi Napolitano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Vittoria di principio all’Onu sull’atomica. Dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto, in questi giorni, le 51 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Sarà vincolante dunque a partire dal 22 gennaio 2021. E’ una tappa da salutare con soddisfazione ma il cammino è lungo, come spiega lo storico e accademico Antonello Biagini, esperto di questioni internazionali:

Il professor Biagini spiega che l’obiettivo finale è quello di allontanare dall’umanità il pericolo di altre esplosioni nucleari ma che le strade e raggiungere questo obiettivo risentono molto degli equilibri mondiali. Ad esempio, il principio di deterrenza che gli Stati Uniti continuano a sostenere, criticando il Trattato sulla messa al bando, era stato concepito nel mondo a blocchi tra due grandi potenze, ma ormai appartiene al passato. Si basa infatti sulla minaccia reciproca di distruzione totale, ma oggi gli interlocutori sono potenzialmente tanti. Il professor Biagini ricorda quanto sia cambiato l’assetto internazionale e quanti siano i Paesi che emergono a partire dalla Cina, oltre Usa e Russia. Lo studioso sottolinea anche che una maggioranza così stretta al 51 per cento non può certo assicurare la messa al bando, ma ribadisce che trattandosi di un cammino, è positivo che anche se lentamente si vada ingrandendo la schiera dei Paesi che prendono posizione in modo ufficiale. Secondo Biagini, in parallelo bisognerebbe recuperare l’impegno ad assicurare una moratoria. Il primo punto a favore è che sarebbe molto più difficile rifiutare la sottoscrizione di un impegno del genere da parte dei vari Paesi, a partire dagli Stati Uniti.

La messa al bando delle armi nucleari è l’obiettivo finale auspicabile per l’umanità. Si tratta di un cammino in cui i Trattati – quello appena approvato della messa al bando o quello della non proliferazione (Tnp) – rappresentano delle tappe ideali, così come anche il principio di deterrenza. Ci sono altre iniziative che possono concorrere a fare passi avanti su questi temi, come spiega Matteo Luigi Napolitano, docente di relazioni internazionali all’Università del Molise, ricordando la posizione della Chiesa:

Napolitano spiega che il principio di deterrenza include il cosiddetto equilibrio del terrore, o equilibrio di potenza, o meglio – afferma – in tempo di nucleare, è opportuno parlare di principio di equilibrio tra “impotenze”. E, secondo lo storico, è importante ricordare che non esiste il diritto alla detenzione di armi nucleari. Il Papa – sottolinea – lo ha ricordato parlando ad un Simposio dedicato al disarmo dalle armi nucleari. Francesco ha condannato la minaccia dell’uso e anche il possesso di armi nucleari. Poi lo studioso ricorda che ci sono altre questioni sulle quali la comunità internazionale è chiamata a fare passi in avanti, come ad esempio la proposta di istituire una zona “nuclear free” in Medio Oriente, una task force per mettere in pratica il bando ai test nucleari, etc.

Lo storico ricorda il ruolo positivo che può avere una moratoria, come periodo utile per arrivare a pronunciamenti condivisi o anche per assicurare uno stop a spese, come quelle per gli armamenti, che potrebbero essere risparmiate per spendere invece per altre urgenze sociali.

L’analisi di Napolitano poi prosegue per spiegare che serve anche un approccio mentale nuovo a tante questioni, una mentalità che ci porti a concepire la tecnologia in termini di opportunità ma anche di limiti: la tecnologia – dice lo storico – deve essere anche una sorta di barriera che ci avvisa che al di là c’è l’abisso, come ad esempio in tema di nucleare. E Napolitano ricorda che l’Enciclica del Papa Laudato è illuminante proprio per allargare il pensiero e comprendere come le tante sfide attuali rientrino nella sfida più grande di ripensare la relazione dell’uomo con il suo ambiente.

da Vatican NEWS del 26 ottobre 2020

 

Entra in vigore il bando alle armi nucleari

Il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto le 50 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Cinquantunesimo Paese a impegnarsi è stato l’Honduras. E’ il primo accordo legalmente vincolante che vieta lo sviluppo, i test, la produzione, l’immagazzinamento, il trasferimento, l’uso e la minaccia delle armi nucleari. Dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, dunque, il no all’atomica diventa concreto.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Con l’adesione dell’Honduras, ufficializzata ieri sera dopo quella in giornata della Giamaica e di Nauru, il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto le 50 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Per produrre effetti dovranno passare altri novanta giorni e si arriverà al 22 gennaio 2021. In ogni caso,  tre anni, tre mesi e diciotto giorni dopo la storica approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, il bando all’atomica è concreto.  Il tutto accade all’apertura della settimana che, dal 1978, le Nazioni Unite dedicano al disarmo.

Un passo significativo

In sostanza le armi nucleari diventano illegali secondo norma internazionale. Soddisfazione viene espressa dalla International campaign to abolish nuclear weapons (Ican) – con i suoi partner italiani, Rete italiana pace e disarmo e Senzatomica -, insignita dal Comitato di Oslo del Nobel per la Pace proprio per il suo impegno contro gli ordigni di morte. Si calcola che nel mondo esistano oltre 13.000 ordigni. Si parla di 5 Paesi possessori legali – cioè che rispettano il Trattato di non proliferazione ( Tnp) – e sono Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina. Poi sono possessori dichiarati India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. Contrari alla messa al bando sono stati gli Stati Uniti, che sostengono la teoria della deterrenza. Significa che in relazione al Tnp, siglato nel 1968 e entrato in vigore due anni dopo, si ritiene che l’unico modo per prevenire un attacco nucleare sia la minaccia di distruzione totale del nemico. Perché funzioni, i Paesi atomici devono essere sempre pronti al lancio – con un costo di dodici milioni di dollari all’ora -, oltre che essere guidati da leader razionali. Il rischio di annientamento globale, con tale meccanismo, non viene scongiurato, come ha sottolineato il segretario generale Onu, Antònio Guterres. “Potremmo dirci al sicuro solo quando non esisteranno più le armi nucleari”, ha ribadito in occasione del 75esimo anniversario delle tragedie di Hiroshima e Kagasaki, ad agosto scorso. Nei giorni scorsi, il Parlamento europeo, con 641 voti a favore, cinque contrario e 47 astensioni, ha adottato una risoluzione in cui definisce il Trattato una tappa “imprescindibile” nel percorso per conseguire un mondo senza nucleare.

da Vatican NEWS del 25 ottobre 2020

 

La “dissidenza” dell’arcivescovo di Mosul

In Iraq, dopo quasi 20 anni di vari sviluppi geopolitici all’insegna del conflitto, è il momento della difficile normalizzazione. A Mosul i cristiani si stringono intorno all’arcivescovo caldeo, monsignor Najeeb Michaeel, che è stato tra i finalisti del Premio Sacharov 2020 per la sua “dissidenza” dalle logiche della violenza e dell’odio. L’arcivescovo conferma che purtroppo ci sono ancora miliziani dell’Is

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Con l’operazione militare guidata dagli Stati Uniti nel 2003 si è aperto un lungo periodo di violenza armata, con fasi diverse, segnate da interventi di potenze straniere, scontri da guerra civile settaria, fino alle dure battaglie tra il governo iracheno e il sedicente Stato Islamico (Is) dal 2014 al 2017. La piena portata dell’impatto delle armi esplosive negli ultimi due decenni sta emergendo solo ora. Traumi psicologici, sfollamenti e povertà si riverberano ben oltre l’impatto iniziale di un’esplosione. L’Unicef ha di recente riferito che circa 4,1 milioni di persone necessitano ancora di assistenza umanitaria, di cui circa la metà sono bambini.

Lo straordinario impegno dell’arcivescovo di Mosul

Durante l’avanzata del sedicente Stato Islamico in Iraq nell’agosto 2014, monsignor Najeeb Michaeel “ha favorito l’evacuazione di cristiani, siri e caldei verso il Kurdistan iracheno e ha salvato oltre 800 manoscritti storici, che vanno dal XIII al XIX secolo”. Per questo motivo il Parlamento Europeo ha deciso di candidarlo al Premio Sacharov 2020, che è stato poi assegnato, la settimana scorsa, ad un altro dei tre finalisti. Il riconoscimento è assegnato ogni anno a “persone e organizzazioni che lottano per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Per il presule la nomina ha rappresentato “un onore ed un incoraggiamento a tutti gli iracheni”, ma anche un modo “per ricordare tante vittime innocenti”.

La sconfitta ufficiale dell’Is

Nel dicembre del 2017 è stata proclamata la sconfitta dell’Is, dopo la caduta di Abu Kamal, roccaforte lungo il confine tra Iraq e Siria. Per la popolazione, dopo 17 anni di bombardamenti, esplosioni, atroci violenze, ora è il momento della speranza, ma restano tensione e paura in una fase segnata purtroppo anche dalle difficoltà della pandemia, come racconta l’arcivescovo caldeo di Mosul, monsignor Najeeb Michaeel:

L’arcivescovo Najeeb Michaeel spiega che Daesh, così come viene chiamato in arabo il sedicente Stato Islamico, sopravvive. Lo strapotere è stato combattuto in Iraq, ma rimangono frange di miliziani. Sottolinea che la predicazione della violenza, che dal Medio Oriente è arrivata in Europa, continua. “L’ideologia esiste tuttora”. Continua l’impegno della popolazione per ricostruire una vera pace. A proposito del Premio Sacharov, afferma che l’essere stato tra i finalisti è stata “una gioia”, perché è stato un riconoscimento non solo per la sua persona, ma per tutti i cristiani che hanno operato insieme con l’arcivescovo a Mosul e in generale per tutti i cristiani che hanno rifiutato la violenza e in special modo l’atroce violenza dell’Is. L’arcivescovo ricorda di aver cercato di difendere vite umane e di aver pensato all’eredità del popolo iracheno e della città di Mosul: “I libri che contengono cultura e valori sono stati messi fuori pericolo”.

“L’odio non è la soluzione, la guerra non è la soluzione”, ribadisce l’arcivescovo che aggiunge: “I cristiani hanno subito persecuzione e sterminio a Mosul e a volte alcuni musulmani che oggi ci chiedono perdono per quello che non hanno commesso loro, ma gli uomini dell’Is: avevano troppa paura per opporsi alle persecuzioni: uccidevano e rapivano figlie e mogli”. Monsignor Najeeb Michaeel sottolinea che quelli dell’Is si dicevano musulmani, ma nessuna religione chiede di macchiarsi di violenze. Le religioni non autorizzano la violenza, ma vengono strumentalizzate.  Racconta che tanti cristiani sono fuggiti da Mosul e dalla valle di Ninive e “ancora non tornano, perché non si sentono ancora sicuri: hanno paura”.

Per quanto riguarda il Covid-19, l’arcivescovo sottolinea che è molto diffuso nella sua zona e che nella valle di Ninive in particolare ci sono molti morti. Racconta che i religiosi rispettano le regole di isolamento, assicurano la Messa in collegamento on line per poter arrivare a tutti e poi spiega che escono solo per portare la comunione in alcune case, alcuni villaggi.

La tragedia dei minori

Oltre alla tragedia delle ragazze yazhide usate come schiave del sesso dai miliziani dell’Is, le Nazioni Unite hanno documentato che, tra il 2016 e il 2019, circa 300 minori sono stati reclutati come bambini soldato, 199 di questi sono stati usati come combattenti. Almeno 14 bambini sono stati utilizzati per compiere attacchi suicidi con ordigni esplosivi rudimentali (Ied). L’Is era responsabile della metà delle reclute minorenni, ma una percentuale significativa è stata reclutata anche dalle meno note Forze di mobilitazione popolare. Oggi si stima che circa 800 mila bambini iracheni siano rimasti senza uno o entrambi i genitori: questi bambini rischiano di essere vittime dimenticate della guerra, esposti a rischi considerevoli come il lavoro minorile e la tratta.

Il dramma dei residuati bellici

Sebbene la sconfitta militare dell’Is abbia stabilizzato la situazione della sicurezza, permane il rischio, in particolare per i bambini, sotto forma di residuati bellici esplosivi. In inglese si parla di Explosive remnants of war e, dunque, si identifica il fenomeno con la sigla Erw.  Gli ordigni inesplosi si trovano nei campi, nelle case. Le Nazioni Unite hanno scoperto che, durante il 2018 e fino alla metà del 2019, quasi la metà delle vittime infantili (47 %) sono state dovute a Erw nei territori precedentemente detenuti dall’Is. Un altro 40 per cento è dovuto all’uso di ordigni esplosivi improvvisati, Improvised explosive device (Ied). Quando a Mosul sono iniziate le attività di eliminazione dei pericoli di esplosione, il Servizio di azione contro le mine delle Nazioni Unite (Unmas), ha parlato di “entità mai vista prima”. Provocano gravi lesioni, disabilità e morte, ma inibiscono anche l’accesso dei bambini all’istruzione e ad altri servizi.

da Vatican NEWS del 24 ottobre 2020

 

Tecnologie e salute: la sfida del Green Deal

Cambiamenti climatici, degrado ambientale, coronavirus: sono tutte questioni che riportano alla strategia che l’Ue ha lanciato come “Green Deal”. Il professor Francesco Profumo ricorda che le tecnologie “pulite” ci sono, che dal Recovery Fund arriveranno fondi considerevoli, ma sottolinea che serve una nuova mentalità olistica, che comprenda crescita economica, uso delle risorse, salute

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Rendere sostenibile l’economia. La via è promuovere l’uso efficiente delle risorse grazie a un’economia pulita e circolare, ripristinare la biodiversità e ridurre l’inquinamento. Tutto questo compare nel cosiddetto Green Deal, il piano di azione dell’Ue pronto da tempo che la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, nel suo discorso programmatico a settembre scorso ha citato tra i punti centrali.

Ne abbiamo parlato con l’accademico Francesco Profumo, già presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, membro dell’Accademia delle scienze di Torino e dell’Accademia europea:

Il professor Profumo ricorda che già prima dell’emergenza Covid-19 la cosiddetta “transizione verde” era una priorità dell’Ue.  Sottolinea – in particolare con un impegno da assumere nel periodo tra il 2021 e il 2027 e con obiettivi fissati entro il 2030 o il 2050. E il punto è che la questione del coronavirus deve rafforzare la convinzione della necessità di agire con urgenza.  Profumo sottolinea che nel discorso di settembre scorso la presidente della Commissione europea ha perfino raddoppiato l’impegno: va considerato, infatti, che Von der Leyen ha vincolato ben il 37 per cento dei 750 miliardi di euro del Recovery Fund per la questione ambientale, così come, invece, si è deciso che il 20 per cento dei fondi siano per compensare i gap digitali. Profumo esprime l’auspicio che presto questi fondi siano effettivamente sbloccati, per poi chiarire che si tratta di portare avanti una nuova strategia per la crescita che trasformi l’Unione in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva. Tre gli obiettivi da soddisfare entro il 2050: che non siano più generate emissioni nette di gas a effetto serra; che la crescita economica sia dissociata dall’uso delle risorse; che nessuna persona e nessun luogo sia trascurato. Tutto questo compare nel piano programmatico della Commissione europea accanto alle altre questioni più urgenti.

La vera sfida è trasformare le problematiche climatiche e le sfide ambientali in opportunità in tutti i settori politici rendendo la transizione equa e inclusiva per tutti. L’Ue su questo è leader nel mondo perché – ricorda Profumo – gli Stati Uniti negli ultimi tempi hanno fatto passi indietro mentre gli altri grandi Paesi del mondo, come la Cina, hanno difficoltà a farlo o non hanno sviluppato finora la stessa sensibilità. Tutto ciò – sottolinea Profumo – in Europa è possibile perché un buon uso delle risorse e la crescita economica non sono in contraddizione, così come promuovere la tecnologia non significa andare contro le esigenze dell’ambiente. Piuttosto – ribadisce –  esistono tecnologie all’avanguardia che sono esattamente al servizio dell’ambiente per esempio nel settore dei trasporti o altro.

L’impegno concreto, infatti, deve muoversi su diversi piani: investire in tecnologie rispettose dell’ambiente; sostenere l’industria nell’innovazione; introdurre forme di trasporto privato e pubblico più pulite, più economiche e più sane; decarbonizzare il settore energetico; garantire una maggiore efficienza energetica degli edifici.  Bisogna comprendere che la transizione verde è un’opportunità grande per l’Europa e per il mondo ma – chiarisce Profumo – per farlo bisogna liberarsi dall’idea che i fondi del Recovery Fund che arriveranno ai Paesi membri dell’Ue possano servire a “tornare al passato”: bisogna comprendere invece che si tratta di inventare qualcosa di nuovo. Le tecnologie appunto ci sono, “quello che serve è una mentalità di tipo olistico che concepisca la sostenibilità come crescita economica e come strumento di benessere per gli esseri umani”.

da Vatican NEWS del 22 ottobre 2020

 

Si riapre la partita Usa-Russia sul trattato New Start

Stati Uniti e Russia sono vicini ad un’intesa che congelerebbe le testate nucleari di ciascuna parte ed estenderebbe il New Start per un periodo necessario a negoziare un nuovo accordo. Si tratterebbe di una nuova fase dopo che Washington si è ritirata ad agosto dai precedenti impegni. L’esperto di relazioni internazionali Luciano Bozzo analizza prospettive e contesto di una problematica che resta gestita a livello di super potenze

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“La Russia propone di prorogare il trattato New Start per un anno e, allo stesso tempo, è pronta, insieme con gli Stati Uniti, ad assumere l’obbligo politico di congelare un certo numero di testate nucleari possedute dalle due parti per questo periodo”. E’ quanto scritto in un comunicato del ministero degli Esteri di Mosca pubblicato online. La Russia quindi chiede che il congelamento delle testate non comporti alcun requisito aggiuntivo da parte degli Usa. “Se questo approccio va bene a Washington, allora il tempo guadagnato grazie all’estensione del New Start può essere utilizzato per condurre negoziati bilaterali globali sul futuro controllo strategico degli armamenti missilistici nucleari con l’obbligo di considerare tutti i fattori che influenzano la stabilità strategica”, continua il ministero.  “Siamo molto molto vicini ad un accordo”, ha detto una fonte dell’amministrazione di Donald Trump, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. Washington ha chiarito che se Mosca è pronta a congelare le testate, c’è tempo poi per negoziati che possano portare ad un nuovo accordo.

Le pressioni degli Usa su Mosca per un rapido accordo

Delle prospettive e dei punti in discussione abbiamo parlato con Luciano Bozzo, docente di relazioni internazionali all’Università degli Studi di Firenze:

Il professor Bozzo spiega che gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi dall’accordo New Start, che aveva rinnovato il primo storico patto sul nucleare alla fine della guerra fredda, chiedendo che in una nuova intesa sia coinvolta anche la Cina. Anche Pechino infatti è impegnata a formarsi un arsenale nucleare avendo raggiunto un notevole tasso di crescita economica e avendo assunto un ruolo di peso nel consesso internazionale. Mosca però non sembra propensa ad allargare l’intesa a tre. Dunque questo è uno dei punti in discussione. Bozzo ricorda che altri Stati sono impegnati nel nucleare a vario titolo, ma che non vengono considerati in relazione a un accordo del genere, visto il diverso peso delle strutture di cui dispongono e visto il diverso peso nello scacchiere internazionale. Per quanto riguarda la posizione degli Stati Uniti, lo studioso sottolinea un’evidenza: l’amministrazione Trump sta facendo pressione su Mosca per concludere l’accordo prima del voto del 3 novembre, per presentarsi con un successo diplomatico ottenuto negli ultimi giorni della campagna elettorale. Il professor Bozzo inoltre ripercorre le tappe che hanno portato alla fase attuale e fa una riflessione in tema di multilateralismo. E’ ancora un’illusione – spiega – pensare che gli armamenti nucleari possano rientrare sotto il controllo di una sorta di governance globale. Si tratta infatti di questioni strettamente di sicurezza e le grandi potenze non intendono perdere nessun margine di controllo.

Il primo impegno comune dopo la guerra fredda

Intense trattative avvennero tra Usa e Urss a partire dal 1979. Portarono al vertice che si svolse a Ginevra nel novembre 1985 e poi all’incontro, l’8 dicembre 1987, tra il presidente Ronald Reagan e il segretario generale del Partito comunista Michail Gorbacëv, in cui siglarono l’Intermediate range nuclear forces treaty. Il trattato segnò un punto di svolta nel processo negoziale legato al controllo degli armamenti tra le due superpotenze. Per la prima volta, infatti, i sistemi d’arma,  oggetto del negoziato, non venivano ridotti o ritirati, ma effettivamente eliminati. In secondo luogo l’Urss accettò una serie di regole e clausole che non aveva mai precedentemente accettato, in primis un rigido sistema di ispezioni internazionali sul proprio territorio.  Sulla base delle formulazioni della Dichiarazione congiunta approvata il 10 dicembre 1987, in seguito all’incontro al vertice di Washington, le parti proseguirono i colloqui al fine di mettere a punto un accordo a parte relativo al Trattato ABM. In tale ambito Gorbačëv e Reagan si incontrarono a Mosca nei giorni tra il 20 maggio e il 2 giugno 1988. Nel 1991 le superpotenze adottarono un trattato per la proibizione di questi armamenti – che ora chiamiamo Start 1 – e ne vennero smaltiti quasi 2.700.  L’accordo è stato poi rinnovato nel 2009 e si è cominciato a parlare di New Start.

Il ritiro degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti, negli anni successivi, hanno accusato più volte la Russia di violare l’accordo, fino all’accusa formale da parte dell’allora presidente Barack Obama nel 2014. Il New York Times ha parlato nel febbraio 2017 di due battaglioni russi con il nuovo missile a medio raggio SSC-8 equipaggiati con quattro lanciatori mobili, ognuno in grado di lanciare circa una dozzina di testate nucleari. Poi a novembre 2017 il segretario della Difesa degli Stati Uniti, James Mattis, ha denunciato formalmente ai colleghi della Nato tale violazione del trattato. Nell’autunno del 2018 il presidente Donald Trump ha annunciato il ritiro dal trattato, accusando la Russia di non rispettare l’accordo. L’amministrazione statunitense sostiene che il trattato svantaggi il Paese anche nei confronti della Cina, che non è parte dell’accordo e non ha restrizioni nella produzione di missili nucleari a media gittata. A gennaio del 2019, alla riunione del consiglio Nato-Russia c’è stato un reciproco scambio di accuse fra Washington e Mosca, rispettivamente per il sistema Shield europeo e per lo sviluppo del Novator 9M729. Gli Stati Uniti hanno minacciato la loro uscita dall’accordo per alcuni mesi fino ad annunciare formalmente il ritiro il 2 agosto 2019.

da Vatican NEWS del 21 ottobre 2020

 

Le prospettive del negoziato in Libia

Papa Francesco ha riportato l’attenzione sulla Libia con il suo appello, all’Angelus, per i colloqui di pace e il suo pensiero ai pescatori dei pescherecci sequestrati dal 1 settembre. Il momento sembra favorevole per un’intesa tra le parti nel Paese nordafricano diviso di fatto sul terreno, come spiega lo studioso di relazioni internazionali Massimo De Leonardis

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Libia si dialoga e il Papa ha avuto parole di incoraggiamento dopo la preghiera mariana di domenica 18 ottobre. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in visita in Italia due settimane fa ha espresso ottimismo per i miglioramenti raggiunti sul campo tra gli attori della scena libica, confermando che gli Stati Uniti sostengono l’iniziativa del cancelliere Angela Merkel per i colloqui del Comitato militare congiunto libico (5 + 5), uno dei binari principali del cosiddetto processo di Berlino. Delle prospettive di accordo sotto l’ombrello delle Nazioni Unite abbiamo parlato con Massimo De Leonardis, docente di relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore:

Il professor De Leonardis spiega che l’obiettivo al momento sarebbe confermare il cessate il fuoco per avviarsi verso elezioni per un governo di vera unità nazionale. Dall’uccisione di Gheddafi, il 20 ottobre del 2011, sono andate contrapponendosi due parti: l’autorità è stata affidata al governo di accordo nazionale, voluto dall’Onu con l’intesa di Skhirat e sostenuto, almeno sulla carta, dalla comunità internazionale, sotto il comando dell’ex ingegnere civile Fayez al-Serraj, con sede a Tripoli. A Bengasi fa base il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, ma poi c’è un complesso intreccio di alleanze e attori, fra tribù, milizie e interessi stranieri. Ogni tentativo di unire il Paese con la diplomazia finora è franato. Ma a questo punto è chiaro che nessuna delle due parti ha la forza militare per prevalere e dunque dovrebbero essere pronte a negoziare. A poco sono servite la Conferenza di Palermo del novembre scorso e il successivo summit di Dubai del 27 febbraio, dove i due principali contendenti si erano promessi di lavorare per elezioni nazionali che potessero dare al Paese una guida legittima. Ora – sottolinea De Leonardis – sembrano esserci le condizioni per un dialogo interno, ma si spera anche che ci sia l’opportuno contesto internazionale per favorire una reale intesa. A proposito della questione sequestri, De Leonardis ricorda che dal 1° settembre, i pescherecci “Antartide” e “Medinea” sono sotto il controllo delle forze che fanno capo al generale Haftar, insieme con i 18 membri degli equipaggi bloccati a 35 miglia dalle coste di Bengasi. L’iniziativa è giustificata ufficialmente dal fatto che il Paese considera parte del suo territorio anche uno spazio marino oltre le 70 miglia nautiche dalle coste. De Leonardis ricorda però che potrebbe anche essere una misura presa per fare pressione sull’Italia.

da Vatican NEWS del 19 ottobre 2020

 

Recovery Fund rimandato a dicembre

C’è ancora tempo per lo sblocco dei fondi del Recovery Fund in modo che siano disponibili nel 2021 anche se c’è il rischio di ritardi mentre crescono le urgenze socio-economiche dei Paesi. Il Consiglio Ue di questa settimana, infatti, si è concluso senza il necessario varo, rimandato a dicembre. Restano altre questioni importanti in tema di politiche monetarie da affrontare. Con noi l’economista Carlo Altomonte

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I 750 miliardi di euro devono essere utilizzati “assolutamente e al più presto”, come hanno messo in evidenza, tra gli altri, il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Giuseppe Conte, e il capo del governo spagnolo, Pedro Sánchez. “Quell’intesa ci è costata cinque giorni e quattro notti di confronto”, ha ricordato il primo ministro portoghese António Costa. Il voto sui 750 miliardi di euro messi a disposizione con l’accordo di luglio scorso, con il piano cosiddetto Recovery Fund, è legato alla questione del budget che i 27 Paesi devono votare per i prossimi sette anni. Il pacchetto è complessivo e infatti si è parlato di 1800 miliardi che l’Ue mette in campo a sostegno delle economie dei Paesi membri, a partire da quelle più colpite dalla pandemia, come Italia e Spagna.

Le obiezioni dell’Europarlamento

Gli eurodeputati hanno sollevato obiezioni a proposito del budget da votare perché dal bilancio pluriennale 2021-2027 sono state rimosse risorse per 39 miliardi di euro che erano state ipotizzate per politiche comunitarie come il sociale, la ricerca, la sanità, la digitalizzazione, i programmi per giovani.

La questione centrale, dunque, è che nello sforzo di sostenere finanziariamente i singoli governi si possano trascurare invece politiche comunitarie importanti. Di questo possibile sbilanciamento e delle altre questioni che rimangono in sospeso in generale in tema di questioni finanziarie europee, abbiamo parlato con Carlo Altomonte, professore associato di materie economiche all’Università Bocconi:

Il professor Altomonte ritiene che nel prossimo vertice di dicembre si troverà un accordo, che renderà possibile poi un’approvazione entro febbraio e dunque uno sblocco dei fondi per giugno. Ricorda che la questione Recovery Fund è legata al badget per sottolineare che come ci sono Paesi che premono di più per i soldi del Recovery Fund, così ci sono altri Paesi per cui è urgente lo sblocco del budget perché hanno bisogno di certezze in tema ad esempio di fondi strutturali all’agricoltura o altro. Commenta la posizione dell’Europarlamento spiegando che le ragioni di allerta sono giuste: l’Unione non può andare nella direzione di diminuire le risorse per politiche comuni limitandosi ad assicurare soldi alle singole casse statali. Intanto, è rimasta in sospeso la questione dei Parametri di Maastricht, che per anni sono stati considerati un dogma inamovibile ma che sono stati prontamente sospesi di fronte alla prima ondata di Covid-19. Interpellato a questo proposito, Altomonte sottolinea che il dibattito aspetta in effetti di essere ripreso. Al momento è ancora emergenza sociale ed economica, ma a suo parere già dalla fine del 2021 dovrebbe riprendere il confronto per capire cosa cambiare dell’equilibrio imposto tra debito e pil.

La questione Brexit

Intanto, nello stallo sull relazioni future tra Bruxelles e Londra nel dopo Brexit, i 27 Paesi sono uniti nell’offrire ancora al Regno Unito possibilità di ennesimi negoziati a novembre. Lunedì 19 ottobre infatti il negoziatore capo Ue Michel Barnier sarà a Londra. Il vertice europeo dei giorni scorsi non ha rilevato progressi, mentre si avvicina la scadenza del 31 dicembre 2020, data ultima per l’uscita definitiva del Regno Unito dall’Ue, con o senza accordo. Le posizioni dei negoziatori sono  distanti e lo scenario “no deal” appare sempre più probabile, con Londra che punta ad ottenere un trattamento sul “modello australiano”, disciplinato dalle regole del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. E mentre la pandemia di Covid sta impattando entrambe le economie, crescita del Pil e debito, Moody’s  taglia il rating della Gran Bretagna, proprio in considerazione degli impatti dell’emergenza sanitaria e dell’incertezza dei negoziati.

da Vatican NEWS del 17 ottobre 2020

 

L’assistenza alimentare chiave per promuovere la pace nel mondo

Reportage:  Il senso e il valore del Premio Nobel al World Food Programme

Un riconoscimento per l’impegno da sempre contro la terribile “pandemia delle carestie”. È questo il senso del Premio Nobel per la Pace 2020 assegnato al Wfp (World Food Programme), l’agenzia delle Nazioni Unite che da 75 anni si prefigge di combattere la fame nel mondo. Si devono considerare i successi raggiunti e l’impegno concreto di assistenza nel 2019 a 97 milioni di persone in 88 Paesi. Ma, soprattutto, la presidente del comitato di Oslo, Berit Reiss-Andersen, ha chiarito che si è voluto mettere in luce lo straordinario slancio dell’agenzia di fronte alla diffusione del covid-19: sono stati infatti intensificati gli sforzi prevedendo carestie di “proporzioni bibliche” nel giro di pochi mesi. Il comitato del Nobel, dunque, ha ricordato al mondo che «il cibo resta il miglior vaccino contro il caos».

Per l’epidemia da covid-19, 130 milioni di persone rischiano l’inedia. Si aggiungono agli oltre 800 milioni riscontrati negli ultimi due anni. Ad aprile scorso, il direttore esecutivo del Wfp, David Beasley, aveva dichiarato: «Mentre combattiamo la pandemia, siamo di fronte al rischio di una pandemia di fame, il pericolo reale è che molte persone muoiano più per l’impatto economico del covid-19, che per il virus stesso». Alla notizia del Nobel, Beasley ha commentato definendo il premio «un potente promemoria per il mondo che la pace e l’obiettivo fame zero vanno di pari passo».

In questi giorni il Fondo monetario internazionale ha quantificato i danni della pandemia a livello globale: 28.000 miliardi di dollari bruciati entro i prossimi cinque anni per colpa di una crisi, quella generata dalla pandemia di covid-19, che lascerà cicatrici evidenti almeno nel medio termine, in particolare per quanto riguarda il mercato del lavoro. E con una disconnessione tra mercati finanziari ed economia reale che, se protratta nel tempo, rischia di diventare un altro fattore di criticità della congiuntura globale.
Nell’anno in cui il mondo è stato sconvolto dalla pandemia del nuovo coronavirus, in molti scommettevano sulla vittoria dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). L’annuncio è arrivato il 12 ottobre un po’ a sorpresa: si contavano quest’anno 318 candidati per la categoria (211 erano individui e 107 organizzazioni).

Il premio al Wfp ci ricorda soprattutto che la pandemia passerà, mentre la fame era e resterà un problema globale a prescindere. Sembra che il Comitato di Oslo abbia voluto idealmente ricordare che la fame è  l’estrema conseguenza di molti fenomeni globali, tra i quali la pandemia è solo l’ultimo in ordine cronologico. Nel 2020, si è assistito a una recrudescenza di guerre, crisi economiche, al declino nei flussi di aiuti internazionali e a un drastico calo del prezzo del petrolio, il cui effetto combinato porta a una diminuzione delle scorte alimentari. Sono questi gli elementi su cui occorre lavorare per invertire la rotta ed evitare un disastro globale.
Come ricordato dai leader mondiali durante l’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scopo principale dell’azione della comunità internazionale deve essere quello di combattere la povertà, in tutte le sue sfaccettature. In primo luogo, le immense diseguaglianze sociali che oggi caratterizzano le nostre società, con ricadute molteplici. Va ricordato che, secondo i dati del Fondo monetario e della Banca Mondiale, la maggioranza dei Paesi del mondo era  impreparata ad affrontare l’emergenza covid: solo 26 dei 158 Paesi analizzati investivano a sufficienza in salute pubblica.

Ma è altrettanto significativo che le politiche sanitarie di Stati Uniti e India, due dei Paesi al mondo più colpiti dalla pandemia, continuano ad escludere centinaia di milioni di persone. Dunque, sono gravi le diseguaglianze tra Stati ma anche quelle all’interno delle società.
Va sottolineato infine che la povertà è anche povertà farmaceutica, ovvero mancato accesso alle cure mediche ed ai medicinali essenziali. È un altro elemento di quella spirale di esclusione e di disuguaglianza che va di pari passo con la povertà e la fame.

C’è poi una povertà che espone ai disastri ambientali.  In troppi contesti mancano, infatti, strutture socio-economiche per prevenire o ridurre al minimo i danni che gli effetti negativi del cambiamento climatico possono causare.  Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti nelle drammatiche cronache di catastrofi legate a piogge eccessive, inondazioni, smottamenti, innalzamento del livello del mare e siccità.
Infine, dobbiamo ricordare la povertà di istruzione: un percorso di scolarizzazione è essenziale per sollevare le famiglie e le comunità dal ciclo della povertà. Purtroppo, la pandemia ha influito negativamente anche su questo aspetto, tanto che il tasso di abbandono scolastico  è aumentato drasticamente.       di Fausta Speranza

Osservatore Romano 16 Ottobre 2020