Esposto al pubblico il cippo ritrovato al Mausoleo di Augusto

Nell’ambito dei lavori di restauro del Mausoleo di Piazza Augusto Imperatore è stato rinvenuto un cippo di travertino con una scritta leggibile: si tratta di un cippo del pomerio, il “limite” sacro, civile e militare della città voluto da Claudio nel 49 d.C. Un raro reperto archeologico che riporta alle scelte di inclusione fatte dall’imperatore erudito, come sottolinea il direttore dei Musei Capitolini, Claudio Parisi Presicce

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ stato presentato alla stampa all’Ara Pacis, oggi venerdì 16 luglio, il cippo dell’epoca dell’imperatore Claudio riportato alla luce circa un mese e mezzo fa nel corso degli scavi per la realizzazione del progetto di riqualificazione di piazza Augusto Imperatore a Roma. Presente il sindaco Virginia Raggi che ha sottolineato che nel corso del tempo, sono stati rinvenuti solo altri dieci cippi relativi all’epoca di Claudio e il più recente, fino ad oggi, è stato ritrovato nel 1909, dunque oltre 100 anni fa. Il cippo è da oggi visitabile in uno degli spazi dell’Ara Pacis ma al momento del completamento dei lavori sarà collocato all’interno del Mausoleo di Augusto.

Un rinvenimento d’eccezione

ll pomerio era il limite sacro che separava la città in senso stretto (urbs) dal territorio esterno (ager): uno spazio di terreno, lungo le mura, consacrato e delimitato con cippi di pietra, dove era vietato arare, abitare o erigere costruzioni e che era proibito attraversare in armi. Proprio per la sua importanza e per i suoi significati, veniva modificato molto raramente. Seneca, parlando dell’ampliamento effettuato da Claudio, menziona Silla come unico precedente. Tacito cita anche Giulio Cesare. Altre fonti ricordano ampliamenti di Augusto, Nerone,Traiano e Aureliano.

L’attestazione epigrafica e letteraria

L’impaginazione e la disposizione del testo conservato ricalcano quelle degli altri esemplari noti. Non si conserva il numerale seriale, che in tre casi compare sul fianco sinistro del cippo, e la parola pomerium, in due casi riscontrata sulla sommità. L’intervento sul pomerio effettuato da Claudio è l’unico attestato sia a livello epigrafico sia a livello letterario. Non solo. È l’unico menzionato nella lex de imperio Vespasiani, come precedente, nonché quello che apre il dibattito sui nomi degli autori di eventuali ampliamenti del pomerio. I rinvenimenti epigrafici, poi, testimoniano due interventi condotti da Vespasiano e Tito, nel 75 d.C., e da Adriano nel 121 d.C., che però sono completamente ignorati dalle fonti letterarie.

Ritrovato in loco

Il cippo di travertino rappresenta un tesoro archeologico di rilievo anche perché è stato ritrovato ancora infisso nel terreno, testimonianza precisa dello sviluppo dell’Urbe e del suo ampliamento. Grazie all’iscrizione, può essere ricondotto con assoluta certezza all’imperatore Claudio e, dunque, all’ampliamento del pomerio da questi effettuato nel 49 d.C., stabilendo il nuovo “limite” considerato all’epoca  sacro, civile e militare della città. L’eccezionalità del ritrovamento di questo cippo offre nuovi spunti di riflessione sul pomerio e anche sull’esistenza o meno dello ius proferendi pomerii, sulle valenze che allo “spazio” attribuivano i romani.

L’iscrizione

L’iscrizione non è completa ma a mancare sono solo le prime delle nove righe: si tratta proprio di quelle che invece risultano leggibili nei  frammenti degli altri cippi ritrovati. Dunque, è importante proprio che siano le altre righe ad essere visibili. La serialità del testo ufficiale inciso sui cippi permette di ricostruire la parte mancante. Claudio, secondo la formula di rito, viene ricordato con i suoi titoli e le sue cariche e rivendica l’ampliamento del pomerio, non menzionando territori conquistati, ma sottolineando l’allargamento dei confini del popolo romano. Ciò significa quindi allargamento del confine fisico, ma può indicare anche l’ingrandimento del corpo civico, con l’estensione della cittadinanza romana alle élites (primores) della Gallia. L’espressione è volutamente ambigua. In ogni caso, l’ampliamento del pomerio indica un allargamento della visione dell’Urbe. Claudio interviene sullo spazio della città attraverso un’azione che ha una forte valenza religiosa, politica e simbolica.

Sotto il segno dell’inclusione

L’autore dei cambiamenti si pone come “nuovo fondatore” della città. Ed è proprio questo che, con l’andamento segnato dai suoi cippi, fa Claudio, dopo la conquista della Britannia: rivendica l’ampliamento dei confini del popolo romano, in una visione articolata, che pur segnando il territorio non guarda solo ad esso, ma consente di comprendere sguardi politici, filosofia, strategia, perfino ambizioni, come spiega il direttore dei Musei Capitolini, Claudio Parisi Presicce:

Parisi Presicce ricorda che l’imperatore scrittore, storico e linguista, Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, così come definito anche in questa iscrizione, è stato il quarto imperatore romano appartenente alla dinastia Giulio-Claudia e il primo a nascere fuori dal territorio che corrisponderebbe oggi alla penisola italiana. È passato alla storia – spiega – come un abile amministratore, un grande patrono dell’edilizia pubblica, e un imperatore espansionista in politica estera: sotto il suo comando Roma ha conquistato la Britannia. Proprio l’espansione della cittadinanza romana – afferma – è stato uno dei motivi di critica e di forte dibattito all’interno del senato. Il cippo ritrovato e presentato è proprio un reperto del cosiddetto pomerio, il confine che Claudio ha voluto ampliare con risvolti non solo di tipo territoriale ma anche sociale: delimitava infatti gli ambiti della vita pubblica di Roma, della ritualità religiosa, dell’esercizio della magistratura, del potere militare.

Per il pubblico

Il direttore dei Musei Capitolini spiega ancora che il cippo, ritrovato in occasione di un approfondimento per la messa in opera del nuovo sistema fognario della piazza, da oggi si può ammirare nella Sala Paladino del Museo dell’Ara Pacis, dove si trova il calco della statua dell’imperatore Claudio, assicurando così la conservazione e consentendo al contempo la fruizione da parte del pubblico. La collocazione definitiva sarà – afferma – negli spazi museali del Mausoleo di Augusto non prima di un anno e mezzo.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-07/roma-archeologia-mausoleo-di-augusto-direttore-musei-capitolini.html

Multinazionali e minimum tax: primi decisivi passi

Dal G20 l’importante accordo sulla tassazione minima globale per le multinazionali. La strada per il varo dell’intesa, che al momento ha ottenuto il placet di 131 Paesi, è comunque lunga. All’Eurogruppo si è deciso di rimandare l’imposta sul digitale in Europa per procedere in modo congiunto con gli Stati Uniti. Il livello globale d’altra parte è quello migliore per assicurare regole nuove per modelli di business rivoluzionari, come sottolinea il presidente di Confassociazioni Angelo Deiana

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sintonia tra Bruxelles e Washington nel segno del multilateralismo: al mattino di ieri 12 luglio, il G20 – che comprende i Paesi che rappresentano oltre il 90 per cento del Pil mondiale – si è chiuso con la raggiunta intesa per una tassa minima che le multinazionali dovranno pagare e una ripartizione degli utili fra i Paesi dove operano. Si parla di risultato storico anche perché in tutto, oltre a quelli del G20, sono 131 i Paesi che si dicono d’accordo. Washington è tra questi. Dei 7 Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (Ocse) che non hanno firmato l’intesa solo tre sono dell’Ue: Ungheria, Estonia e Irlanda e si lavora per convincerli. In Irlanda la tassazione è fissa al 12,5 per cento, si dovrebbe arrivare a una minimum tax del 15 per cento.

Strategie congiunte tra Ue e Usa

Intanto, nell’ambito dell’Eurogruppo, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e la presidente della Bce, Christine Lagarde, hanno incontrato sempre ieri, a pranzo, la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen. Yellen rappresenta l’amministrazione Biden che è in linea con Bruxelles, ma ci sono resistenze al Congresso e dunque la von der Leyen ha spiegato che per procedere uniti si rimanda all’autunno la proposta di prelievo sul digitale. Sospesa, dunque, l’introduzione della tassa digitale ai colossi del web: la resistenza era dovuta al timore di un doppio prelievo con la tassazione minima globale, anche se l’Ue aveva pensato a un meccanismo per evitarla. La segretaria Usa al Tesoro dunque, è riuscita a ottenere il congelamento della Digital Tax alla quale stava lavorando la Commissione europea. Atteso per il 20 luglio, il piano è stato rinviato al prossimo autunno per evitare di intralciare la finalizzazione dell’accordo a livello globale. Si tratta di un rinvio ma a Bruxelles non si vuole abbandonare definitivamente lo strumento, nella convinzione che non ci sia alcun rischio di sovrapposizione con la global tax che ha ottenuto il via libera del G20 e dell’Ocse. Anche perché i proventi dovrebbero servire per finanziare una parte del debito comune contratto con il Next Generation EU. Le pressioni Usa si sono fatte sentire anche sui governi che hanno già introdotto una Digital Tax a livello nazionale, come l’Italia e la Francia. Ma i rispettivi governi non hanno alcuna intenzione di cancellarla, almeno fino a quando non sarà in vigore l’imposta globale.

Deiana: una questione molto complessa

Ma al di là dei tempi e delle priorità del contesto europeo e di quello globale, la questione è molto complessa, come spiega Angelo Deiana, presidente di Confassociazioni, la più importante Confederazione di associazioni dei servizi all’impresa e delle professioni innovative:

Deiana sottolinea, innanzitutto, l’importanza di aver avviato un processo che costituisce la base per stabilire misure fiscali su misura per le multinazionali che sfuggono a normative del passato. Mette in luce la complessità di tutto l’orizzonte tematico ricordando che le multinazionali non possono avere doppia imposizione di tasse e, dunque, bisogna comprendere dove fanno più utili e in quale Paese vanno tassati, per poi spiegare che in realtà la questione va ben oltre: si tratta di forme di business nuove che chiedono forme di pensiero nuove. L’idea di una minimum tax – che in Europa è stata definita Digital tax perché si tratta di aziende che viaggiano soprattutto nel digitale – teoricamente dovrebbe semplificare. Ma Deiana sottolinea che non è facile stabilire il tetto: si parla di aziende che fatturano oltre i 20 miliardi di euro o dollari ma è impensabile che chi fatturi 19 miliardi resti completamente esente. Inoltre, aggiunge, nel momento in cui si stabiisce una tassa minima bisogna rendersi conto che l’adeguamento sarà molto più facile per Paesi che prevedono tasse basse, mentre per chi viaggia con tassazioni più elevate potrebbe avere serie ripercussioni.

Urgente una legislazione all’altezza delle innovazioni

Deiana ribadisce come lo sforzo dell’Ue e dell’Ocse sia impegnativo e importante perché la sfida è davvero cruciale. Si tratta infatti di ragionare su prospettive nuove con regole nuove. Non si può pensare di affrontare l’orizzonte digitale, in cui la territorialità ha un peso completamente diverso dal passato, con regole antiquate. Deiana, dunque, mette in luce proprio l’urgenza di mettere in campo uno sforzo innovativo: bisogna capire, ribadisce, come tassare utili che sfuggono sostanzialmente ai criteri di territorialità ma che nello stesso tempo potrebbero poi rientrare – per contesti legislativi ancora in vigore – in meccanismi di incentivi fiscali che finirebbero per ridimensionare tante cose. Deiana tra l’altro chiarisce un punto significativo: alcune delle multinazionali in realtà non producono precisamente un livello alto di utili, piuttosto mettono in atto meccanismi di investimenti in strutture e logistica che creano di fatto “imperi” che attirano investitori in Borsa. E dunque è lì che creano “fatturati”. Anche per questo è difficile capire come assicurare forme di tassazione adeguate.

La minimum tax deve essere davvero globale

Il presidente di Confassociazioni ricorda l’impegno dell’Unione europea che da tempo studia una cosiddetta web tax o digital tax, ma poi chiarisce che l’impegno di Bruxelles è importante in quanto forma di stimolo, di pressione, per gli altri Paesi, perché si potrà davvero arrivare a concepire nuovi sistemi di fiscalizzazione solo a livello di Ocse. Anche lo stesso G20, secondo Deiana, può avere più un ruolo politico propulsivo che fattivo. E spiega che non solo l’ambito Ocse è importante perché coinvolge direttamente i suoi 38 Paesi membri e i 70 Paesi che non ne fanno parte ma che intrattengono con l’Ocse stretti rapporti, ma anche perché l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa ha già avviato un processo importante in tema di trasparenza fiscale, anche se non è certo un processo compiuto: restano ancora alcuni cosiddetti paradisi fiscali. Dunque, è convinzione di Deiana, l’Ocse è la sede migliore per far maturare questo processo.

da Vatican NEWS del 13 luglio 021

Terra Santa: la statua della Madonna di Loreto torna a casa

Nell’anno giubilare lauretano la statua della patrona dell’aviazione ha ricominciato a viaggiare: tappa d’eccezione il viaggio a Nazareth realizzato nell’ambito della prima visita in Terra Santa post pandemia dell’Opera romana pellegrinaggi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Abbiamo portato la Madre a casa sua”: con questo spirito  monsignor Remo Chiavarini, amministratore delegato dell’Opera romana pellegrinaggi (Orp), ha espresso la gioia di aver deposto nella grotta dell’Annunciazione a Nazareth la statua della Madonna di Loreto. E’ avvenuto ieri nell’ambito del pellegrinaggio in Terra Santa del gruppo guidato dal cardinale Enrico Feroci. Ad accoglierla a Nazareth è stato fra Bruno Varriano, guardiano della Custodia di Terra Santa a Nazareth. La statua della Madonna di Loreto, patrona dell’aviazione, è tornata così dunque a viaggiare nell’anno giubilare lauretano che Papa Francesco ha prorogato, 2020-2021, per via del fermo imposto dalla pandemia. Dei significati di questa cerimonia abbiamo parlato con Don Savino Lombardi, assistente spirituale dell’Opera romana pellegrinaggi (Orp):

Don Savino spiega che oggi la statua viene riportata a Roma a conclusione di questo primo pellegrinaggio in Terra Santa dopo i lockdown, per poi continuare a sostare negli aeroporti in quanto patrona dell’aviazione. Sottolinea l’importanza di vedere la statua della Madonna di Loreto in giro per il mondo, ma soprattutto si sofferma sull’immagine particolare e – dice – molto toccante di vederla poggiata nella grotta della Basilica dell’Annunciazione a Nazareth. Inoltre, ricorda che, mentre di solito la statua viaggia con la compagnia aerea Alitalia, in questo caso, viste le difficoltà dei voli, è stata la compagnia aerea israeliana El Al ad accettare di portare a bordo la scatola di legno contenente la statua.

La celebrazione a Nazareth

Don Savino spiega poi che la celebrazione – alla quale hanno partecipato i fedeli, sacerdoti e giornalisti del gruppo dell’Orp, oltre ai frati della Custodia di Terra Santa – è stata particolarmente toccante. Si è svolta infatti in una Basilica non frequentata come di consueto per via della situazione sanitaria globale.  Don Savino ricorda il legame tra Loreto e Nazareth, spiegando che la tradizione suggerisce che un lato della casa originaria di Maria, con la grotta, è a Nazareth e gli altri tre lati a Loreto. Non vuol dire – sottolinea – che la Madonna abbia due case, ma significa che Maria è “di casa” a Loreto come a Nazareth. Don Savino poi si sofferma a commentare la scelta di celebrare nella chiesa all’interno del complesso della Basilica dedicata a San Giuseppe: stiamo vivendo l’anno giubilare dedicato allo sposo di Maria e dunque – spiega – è stato significativo porre l’accento anche sulla figura di San Giuseppe che – aggiunge – è l’uomo del silenzio ricco di speciali scelte di amore che si accompagnano a quelle di Maria.

Ripartire per rincontrare le pietre vive di Terra Santa

Tra le altre riflessioni di questo pellegrinaggio, il cardinale Feroci ha suggerito l’idea che riprendere una certa normalità dopo la fase emergenziale del Covid 19  non significa tornare a fare quello che si faceva prima, ma partire nuovamente, cioè in modo nuovo, con delle novità. Con questo pellegrinaggio – ha sottolineato – si è voluto “mettere al centro non i luoghi, ma il Signore Risorto, e rinsaldare quel legame tra la Chiesa Madre, che è Gerusalemme, e la Chiesa Capo, quella di Roma. Il Covid ci ha separato: non solo le famiglie, ma anche le Chiese, eppure noi vogliamo superare questa separazione e tornare alla comunione originaria”. Riaprire i flussi dei pellegrinaggi – ha spiegato inoltre il porporato – vuol dire ribadire la nostra vicinanza, perché la nostra fede non deve poggiare solo su un discorso teologico, ma anche esperienziale. Questo significa non solo vedere i luoghi santi, ma incontrare la Chiesa che vive e opera lì oggi.

da Vatican NEWS dell’8 luglio 2021

Fragilità e speranza: l’esperienza del Piccirillo Handcraft Center

Betlemme, dove il 90 per cento delle famiglie vive di turismo religioso, ha sofferto come nessun’altra città i lockdown, ma ha preservato il laboratorio per ragazzi disabili che continua a vendere su commissione oggetti della tradizione artigianale. Un’esperienza di inclusione che diventa esempio di imprenditorialità, come raccontano padre Faltas e il direttore del Piccirillo Handcraft Center

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Betlemme è la città che più ha sofferto il Covid in Terra Santa: il 90 per cento delle famiglie lavora nel turismo religioso”. Sono parole di padre Ibrahim Faltas, francescano della Custodia di Terra Santa, responsabile delle scuole ma anche della struttura di accoglienza dei francescani “Casanova” a Gerusalemme:

Padre Faltas spiega che la maggior parte delle famiglie di Betlemme non ha potuto pagare la retta in quest’ultimo anno e che i bisogni sono stati tanti. Racconta che i francescani hanno provveduto a sostenere più persone possibili, dai pacchi alimentari agli aiuti per le spese della casa. All’inizio infatti le persone hanno dato fondo ai risparmi, poi – sottolinea – sono arrivati alcuni aiuti, ma ora – avverte – l’unico modo per dare speranza a questa terra è la ripresa del turismo religioso. Per questo l’arrivo del primo gruppo di italiani, accompagnati dall’Opera Romana Pellegrinaggi della Diocesi di Roma è stato per padre Ibrahim “un segnale di speranza per una popolazione che la sta perdendo”. Il francescano non nasconde che al problema del Covid si sono aggiunte anche le nuove tensioni tra israeliani e palestinesi.

Una risorsa dai più fragili

Nella tradizione della città dove è nato Gesù c’è tanto artigianato locale, soprattutto presepi e bambinelli di legno d’ulivo. In pandemia nessuno è passato a comprare nelle botteghe di Betlemme. Ma da qualche tempo i francescani, su inziativa alla vigilia del 2000 di padre Michele Piccirillo, francescano e archeologo, avevano rispolverato anche un’altra tradizione antica: quella della lavorazione della madreperla, accanto a quella del legno di olivo e della ceramica. A padre Piccirillo, scomparso prima dell’inaugurazione, è dedicato il particolare laboratorio nato per riproporre quest’arte antica: il Piccirillo Handcraft Center. È un laboratorio artigianale dove si fa soprattutto formazione ma che dà anche una chance di lavoro a chi non ne avrebbe, disabili e persone che vivono ai margini della società. Ne abbiamo parlato con Samer Barboun attuale direttore del Piccirillo Handcraft Center:

Barboun ci racconta che non si fa vendita nei negozi di Betlemme per non interferire con le famiglie di piccoli commercianti locali che da sempre vivono di questo. Si fanno invece lavori su commissione. E questo, sottolinea, ha signfiicato che durante il lockdown il lavoro non si è fermato. Dai rosari ai calici per la Messa, dalle decorazioni per l’albero di Natale alle croci di ogni forma e dimensione: sono i prodotti realizzati in due piani del convento dei francescani a Betlemme che sono stati adibiti ad ospitare macchinari e materiali, insieme con tanti giovani che mettono in comune diverse disabilità ma anche tanta precisione e tanto impegno.  Ogni anno – racconta Samer Barboun, che ha 40 anni – maestri artigiani formano decine di persone che possono poi mettere a frutto le loro competenze. Il laboratorio dà lavoro a circa 25 famiglie in maniera stabile e ad un’altra quarantina che fa piccole parti della lavorazione dalla propria casa. Attualmente, afferma, ci sono 100 persone impegnate. Passare dall’assistenza al lavoro è la sfida che si gioca a Betlemme.

da Vatican NEWSdell’8 luglio 2021

Pizzaballa: il pellegrinaggio è nel Dna di Gerusalemme

“La Terra Santa senza pellegrini è monca”: sono parole del patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa, che, accogliendo il primo gruppo dell’Opera Romana Pellegrinaggi guidato dal cardinale Feroci, dopo l’interruzione forzata da Covid-19, rinnova l’invito a tornare nei luoghi di Gesù e ricorda il legame tra Roma e la Città Santa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Il ritorno dei pellegrini significa per Gerusalemme tornare a respirare con due polmoni”: con queste parole Sua Beatitudine Pierbattista Pizzaballa ha aperto ieri con gioia le porte del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini a fedeli, sacerdoti e giornalisti che sono in questi giorni in Terra Santa quale primo gruppo dell’Opera Romana Pellegrinaggi – guidato dal cardinale Enrico Feroci e dall’amministratore dell’Orp, don Remo Chiavarini –  dopo un anno e mezzo di chiusure per la pandemia. Tante le riflessioni del patriarca di Gerusalemme dei Latini al nostro microfono:

Ascolta l’intervista con il Patriarca Pizzaballa

Il patriarca Pizzaballa non nasconde qualche preoccupazione in più a viaggiare ma rinnova con slancio l’invito a venire in Terra Santa. Della situazione politica, a due mesi dagli scontri, dice che molte delle tensioni sono rientrate anche se non si intravede una  vera soluzione della questione israelo-palestinese: i cambiamenti – spiega – hanno bisogno di un contesto che qui ora non c’è. È il momento di seminare, aggiunge.  Poi lo sguardo a Roma, per ricordare che Gerusalemme ha bisogno di Pietro come la Chiesa di Roma ha bisogno della Chiesa “madre”:

Il raccoglimento in più 

Il senso del pellegrinaggio in Terra Santa – come ci ha ricordato in questi giorni il cardinale Enrico Feroci – “permette di sperimentare con gli occhi”. È un’esperienza straordinaria sempre, che questo primo gruppo sta vivendo in una dimensione ancora più particolare di raccoglimento: nei luoghi sacri, infatti, non ci sono le consuete file per accedere o il normale vocio di tanti turisti. Si tratta di un tempo di dolore per l’assenza dei pellegrini, sottolinea il patriarca, ma anche di un’occasione di riflessione:

Ascolta la riflessione del Patriarca Pizzaballa

Ripensare ritmo e modalità di viaggi

Non abbiamo bisogno di masse, dice monsignor Pizzaballa, spiegando che questo tempo di vuoto, dopo aver portato tanti gravi problemi a tutti e in particolare alle tante famiglie che vivono di turismo in questa terra, può essere un’occasione di ripensamento. Si può cercare di ripensare ritmo e modalità di viaggi per far sì che rispondano sempre meglio alle esigenze dei pellegrini ma anche di chi fa turismo religioso e magari può essere toccato spiritualmente dall’incontro con i luoghi, con i fatti di Gesù e dunque con la persona di Cristo.

La preghiera al Santo Sepolcro

Dopo la Messa al Getsemani, la visita a Betlemme, nell’esperienza di questi giorni è arrivato il momento della preghiera al Santo Sepolcro, con l’abbraccio ideale tra i frati della Custodia e il cardinale Feroci:

Ascolta il saluto tra fra Sinisa e il cardinale Feroci

L’arrivo è stato accolto con la preghiera cantata dai frati minori della Custodia, che hanno dato il benvenuto commosso al cardinale Feroci e al suo gruppo. In particolare, fra Sinisa ha ricordato che mai la Basilica del Santo Sepolcro è stata chiusa davvero. Lo ha sottolineato spiegando di essere rimasto sorpreso e ferito alla notizia data dai media di una presunta riapertura con la fine del lockdown. Non si è mai smesso di celebrare né di giorno né di notte al Santo Sepolcro,  spiega il frate, assicurando che la preghiera è costante per tutti i cristiani nel mondo e chiedendo che si preghi per la Terra Santa.

da Vatican NEWS del 7 luglio 2021

Riprendono i pellegrinaggi in Terra Santa

Un gruppo di fedeli, sacerdoti e giornalisti guidati dal cardinale Enrico Feroci si trova a Gerusalemme per un pellegrinaggio dal 5 al 9 luglio, nei luoghi di Gesù. Nel cuore c’è la preghiera di Papa Francesco espressa a maggio scorso durante gli undici giorni di conflitto tra Hamas e Israele: si rimargini la “ferita inferta alla fraternità”. Ma sono tanti i significati del pellegrinaggio

Fausta Speranza – Gerusalemme

A due mesi esatti dall’inizio del conflitto tra Hamas e Israele, un gruppo di pellegrini, tra cui anche giornalisti,  guidati dal cardinale Enrico Feroci, parroco di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva e rettore del Seminario diocesano della Madonna del Divino Amore, vive l’esperienza speciale della visita ai luoghi di Gesù: dal 5 al 9 luglio. Ad accompagnare, ci sono monsignor Remo Chiavarini, amministratore delegato dell’Opera romana pellegrinaggi, don Filippo Morlacchi sacerdote da tre anni fidei donum della diocesi di Roma al Patriarcato Latino di Gerusalemme.

La Chiesa di Roma di casa a Gerusalemme

E proprio nel giorno dell’arrivo, il cardinale Feroci, in una celebrazione molto sentita, ha benedetto l’altare nuovo della casa gestita dal sacerdote fidei donum Filippo Morlacchi e denominata “Filia Sion”. Così il cardinale Enrico Feroci ha espresso in questa occasione le tre intenzioni di questo viaggio:

Nelle parole del cardinale Feroci c’è innanzitutto la preghiera, nel cuore di tutti, per la pronta guarigione di Papa Francesco. Poi, esprime l’auspicio che questo pellegrinaggio possa essere solo il primo di una ripresa nella normalità perché – ha sottolineato il porporato – la Chiesa di Roma ha bisogno di recarsi alla Chiesa madre di Gerusalemme, così come la Chiesa di Terra Santa ha bisogno di ricevere la visita della Chiesa di Roma.

In viaggio con la statua della Madonna di Loreto

A rendere speciale questo pellegrinaggio c’è anche una presenza d’eccezione: la statua della Madonna di Loreto, patrona dell’aviazione che nell’anno giubilare continua a viaggiare e che è giunta a Gerusalemme con il gruppo per poi essere portata a Nazareth nei prossimi giorni: dalla Casa di Loreto alla Casa della Madre di Gesù.

In raccoglimento per riscoprire la preghiera di Gesù

La Messa al Getsenami questa mattina è il primo dei forti momenti spirituali di un viaggio che cerca di ripristinare il normale afflusso alla Terra Santa. C’è l’entusiasmo di sempre per i luoghi sacri ma c’è anche la consapevolezza di un ritorno estremamente significativo per tutti. Dopo la crisi sanitaria e il ritorno al fragore delle armi in questa terra, è toccante ritrovarsi nel piccolo oliveto poco fuori dalla città vecchia di Gerusalemme sul Monte degli Ulivi, nel quale  Gesù si ritirò dopo l’Ultima cena prima di essere tradito da Giuda e poi arrestato. Qui Gesù ha pregato tanto e in maniera drammatica, assalito da angoscia. Ma Gesù, proprio in quel momento, si è rivolto a Dio chiamandolo “Abbà”, Padre. Questa parola aramaica – nella lingua di Gesù – esprime intimità, esprime fiducia: proprio mentre sentiva le tenebre addensarsi intorno a sé, le attraversava con quella piccola parola. Abbiamo lasciato il Getsemani, dunque, con il desiderio che l’umanità riscopra la gioia di dire Abba’.

Rinnovate tensioni

Non c’è solo la pandemia sullo sfondo di questo viaggio, ma anche gli undici giorni di conflitto a maggio. Proprio alla vigilia della partenza, domenica 5 luglio, si è tornati a registrare un attacco da parte di Israele contro obiettivi militari a Gaza dopo che palloni incendiari erano stati lanciati dalla Striscia, nei giorni precedenti, provocando incendi in territorio israeliano. Lo hanno confermato  l’esercito e fonti palestinesi. L’esercito israeliano ha affermato che i caccia hanno “colpito un sito di produzione di armi e un lanciarazzi appartenente all’organizzazione terroristica di Hamas”.

Ma a Gerusalemme ora è tutto calmo: Nablus road, dopo i giorni degli scontri, è tornata tranquilla: si torna a passeggiare lasciando che lo sguardo si perda sulla Porta di Damasco.

Pellegrini e testimoni della preghiera di Francesco

Il pellegrinaggio in Terra Santa è occasione di rinnovata spiritualità nello speciale incontro con i luoghi di Gesù. Lo è sempre nonostante da 70 anni la regione sia purtroppo terra di conflittualità. “Dobbiamo pregare perché i fratelli israeliani e palestinesi possano trovare la strada del dialogo e del perdono”. Così Papa Francesco ha aggiunto al Regina Coeli del 16 maggio, spiegando:  “Il crescendo di odio e di violenza che sta coinvolgendo varie città in Israele è una ferita grave alla fraternità e alla convivenza pacifica tra i cittadini, che sarà difficile rimarginare se non si apre subito il dialogo”. Al di là delle tappe più drammatiche che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso, oggi  – come dice il Papa – si vive un momento delicato per il dialogo. E’ proprio questa la consapevolezza che alimenta la preghiera di questo primo gruppo di pellegrini in Terra Santa dopo quasi un anno e mezzo di pausa.

L’appello del Papa il 16 maggio

“I violenti scontri armati tra la Striscia di Gaza e Israele hanno preso il sopravvento e rischiano di degenerare in una spirale di morte e distruzione”: è quanto ha sottolineato Papa Francesco al Regina Coeli di domenica 16 maggio aggiungendo che “tanti innocenti sono morti, tra di loro ci sono anche bambini, e questo è terribile e inaccettabile”. Il suo richiamo: “La loro morte è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distruggere”. E gli interrogativi: “Mi chiedo: l’odio e la vendetta dove porteranno? Davvero pensiamo di costruire la pace distruggendo l’altro?”. Dunque l’appello: “In nome di Dio, faccio appello alla calma, e a chi ne ha la responsabilità di far cessare il frastuono delle armi, di percorrere l’avvio della pace, anche con l’aiuto della comunità internazionale”.

Gli scontri più violenti dal 2014

Il 6 maggio iniziavano le prime proteste a Gerusalemme Est che hanno dato il via ad un’escalation di violenza  con giorni di preoccupante conflitto tra Hamas e Israele e con tristi episodi di scontri tra ebrei e arabi all’interno di alcune città miste in Israele, come Lod,  Haifa, oltre ai gravi disordini che hanno scosso Nablus, Betlemme, Hebron nei territori palestinesi.

Le proteste e le rivolte dei palestinesi sono scoppiate a Gerusalemme contro l’attesa sentenza della Corte Suprema di Israele in merito allo sgombero di alcuni residenti palestinesi a Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est. La sentenza della Corte Suprema israeliana è stata  rinviata: Avichai Mandelblit, il procuratore generale israeliano, ha cercato di ridurre le tensioni.  Ma il 10 maggio, Hamas e la Jihad islamica palestinese  hanno iniziato ad attaccare militarmente Israele, lanciando razzi e missili contro le città israeliane dalla Striscia di Gaza. Israele, dopo una serie di avvertimenti, ha risposto con attacchi aerei contro obiettivi militari, governativi e diversi condomini – che secondo Israele ospitavano uffici e armi di Hamas –  all’interno di Gaza, in quella che è stata definita l’operazione “Guardiani delle Mura”.

La tregua

Scontri aerei e di artiglieria tra le due parti sono continuati quotidianamente fino al 21 maggio, quando Israele ed Hamas si sono accordati per un cessate il fuoco a partire dalle 2 di notte locali. L’intesa è arrivata dopo 12 vittime israeliane e 227 morti palestinesi – di cui 65 bambini, 39 donne -, dopo 4000 razzi lanciati da Gaza su Israele, Gerusalemme e Tel Aviv compresi; dopo 100  chilometri di infrastrutture distrutti a Gaza, tra cui depositi di armi e centri di comando ma anche condomini dove, secondo l’esercito israeliano si nascondevano jihadisti.

da Vatican NEWS del 6 luglio 2021

Afghanistan al bivio tra stabilizzazione e nuovi conflitti

Si completa il ritiro delle forze Nato, ma da Kabul arrivano voci di forte preoccupazione per la possibile avanzata dei talebani. Il comandate statunitense Miller ha parlato di rischio di guerra civile. Non si può dimenticare un Paese che nei 20 anni di presenza militare dell’Alleanza ha fatto progressi a livello sociale, ma non ha cambiato alcune dinamiche di conflitto interne, come ricorda il generale Battisti, a capo del primo contingente in Afghanistan nel 2001

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Con il ritiro delle truppe statunitensi c’è il rischio di una guerra civile in Afghanistan. A lanciare l’allarme è stato il comandante della missione Usa a Kabul, il generale Austin Scott Miller che,  incontrando alcuni giornalisti, ha spiegato che la sicurezza in tutto il Paese è precaria e che i recenti attentati dei talebani sono molto preoccupanti, anche se non inaspettati. La situazione della sicurezza non è buona in questo momento, ha detto parlando presso il quartier generale della coalizione che si sta svuotando rapidamente a Kabul, secondo quanto riporta il Wall Street Journal. La guerra civile è certamente un percorso che può essere immaginato se il Paese continua sulla strada su cui si trova in questo momento. E questa – ha detto – dovrebbe essere una preoccupazione per il mondo. Condivide la preoccupazione il generale Giorgio Battisti, già Capo di Stato Maggiore Nato, alla guida del primo contingente arrivato in Afghanistan nel 2001 nell’ambito della strategia decisa dopo l’attacco alle Torri Gemelle a New York:

Il generale Battisti sottolinea che è chiaro l’intento dei talebani di riprendere il controllo  del Paese. Ricorda che in Afghanistan sono molte le etnie diverse da quella pashtun alla quale appartengono i talebani. Non solo per questo, ma anche per la scelta particolarmente oppressiva del regime voluto dai talebani, Battisti spiega che in molti nel Paese sono pronti ad abbracciare le armi per far fronte all’avanzata annunciata, in particolare – sottolinea – nel nord. Ricorda che l’accordo tra Stati Uniti e talebani, annunciato a febbraio 2020 dall’amministrazione Trump, non ha portato alcun frutto sul terreno. Battisti esprime la preoccupazione sottolineando che in questi 20 anni la società civile ha fatto grandi passi in avanti, ad esempio nella consapevolezza del rispetto dovuto alle donne o al rilievo dell’istruzione. I giovani che – ricorda – sono la maggioranza, hanno conosciuto diversi stili di vita e formazione. Questo non significa – sottolinea – che debbano scegliere o aderire a modelli diversi dalle culture tradizionali, ma significa che hanno avuto la possibilità di quel confronto che apre alla consapevolezza. Si spera – ribadisce – che qualcosa sia maturato soprattutto in termini di rifiuto delle logiche di violenza che si vorrebbe tornare  a imporre. L’importante – avverte – è che davvero l’impegno della comunità internazionale in Afghanistan non termini con il ritiro dei soldati.

Il ritiro delle forze internazionali

Il processo di ritiro è iniziato ufficialmente il 1° maggio scorso. L’esercito Usa ha già ritirato più della metà delle sue attrezzature e del personale e dovrebbe completarlo entro la metà di luglio. Il generale Miller non ha detto quando sarà completata esattamente la partenza delle forze statunitensi per motivi di sicurezza operativa. La Germania e l’Italia hanno ritirato i loro ultimi soldati rimasti dall’Afghanistan, ponendo fine a quasi due decenni di dispiegamento nel Paese devastato dalla guerra al fianco degli Stati Uniti e delle altre forze della coalizione. La Germania ha annunciato il suo ritiro militare senza molto clamore poco dopo che gli ultimi 250 soldati tedeschi sono stati trasferiti nella notte di martedì scorso fuori dalla loro base nel nord dell’Afghanistan. “Dopo quasi 20 anni di dispiegamento, gli ultimi soldati dell’esercito tedesco sono tornati a casa. Si è concluso un capitolo storico, un intenso dispiegamento che ha sfidato e plasmato l’esercito tedesco, come si è dimostrato in combattimento”, ha dichiarato su Twitter il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, che ha ringraziato i 150.000 uomini e donne tedeschi che hanno preso parte alla missione in Afghanistan dal 2001, dicendo che possono essere orgogliosi dei loro risultati. La Germania aveva ancora circa 1.100 soldati nel Paese quando Biden annunciò i suoi piani di ritiro a metà aprile. Facevano parte di una missione guidata dalla Nato incaricata di addestrare, consigliare e assistere i soldati afghani che combattevano l’insurrezione talebana. Anche l’Italia ha dichiarato che anche la sua missione militare in Afghanistan è terminata dopo che decine di soldati italiani hanno lasciato il Paese. L’annuncio è arrivato dopo che le forze italiane sono atterrate all’aeroporto internazionale di Pisa dalla città afghana occidentale di Herat, adiacente al confine iraniano. I funzionari hanno detto che 50.000 soldati italiani hanno prestato servizio in Afghanistan negli ultimi 20 anni, 53 dei quali sono morti mentre erano in servizio mentre 723 sono rimasti feriti. L’alto rappresentante civile della Nato in Afghanistan, Stefano Pontecorvo, ha assicurato che l’impegno della Nato continua in forme diverse.

Gli attacchi

Nelle ultime settimane, quasi un quarto dei distretti afghani è caduto nelle mani dei talebani.  Gli attacchi si sono intensificati dopo che ad aprile il presidente Joe Biden ha annunciato il completo ritiro delle truppe statunitensi entro l’11 settembre.

da Vatican NEWS del 1 luglio 2021

L’appello dei leader cristiani del Libano si leva con la voce di Papa Francesco

Libano, il rettore di Harissa: la preghiera di Francesco sia ascoltata dal mondo

Con la ricchezza delle peculiarità del Paese dei cedri, ma anche con la preoccupazione nel cuore per le condizioni del popolo, i leader religiosi incontrano il primo luglio il Papa in Vaticano. Padre Awan: anche la nostra è una “terra santa”. Padre Tarrabay, responsabile della Procura dei Maroniti a Roma: il nostro Paese è ferito da continue tragedie

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il Papa ha chiamato i leader cristiani del Libano per una giornata di preghiera e dialogo in Vaticano. L’evento è previsto il primo luglio per “camminare insieme”, come ha sottolineato il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il cardinale Leonardo Sastri in conferenza stampa.  L’immagine scelta come logo dell’iniziativa presenta stilizzata la figura della statua della Madonna di Harissa, che veglia sul Libano. Prima di partire per Roma, il patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Bechara Boutros Raï, ha dichiarato: “Non andremo in Vaticano portando solo le lamentele dei cristiani, ma quelle di tutti i libanesi. Portiamo la causa del Libano, causa di libertà, di dialogo e di convivenza islamo-cristiana”.

Il Signore Dio ha progetti di pace. Insieme per il Libano”: è questo il tema della Giornata di riflessione e di preghiera per il Libano con la partecipazione dei principali responsabili delle comunità cristiane presenti nel Paese. È previsto che il Papa e i capi delle Chiese e comunità ecclesiali si rechino camminando dalla Domus Sancta Martha alla Basilica Vaticana, all’inizio della giornata, dopo il momento di accoglienza e saluto nella hall della residenza che li vede tutti insieme ospiti dalla sera del 30 giugno alla mattina del 2 luglio. Sono stati organizzati diversi momenti di preghiera a anche di confronto: nella Sala Clementina ad un tavolo si ritroveranno con il Papa, il nunzio apostolico in Libano, monsignor Joseph Spiteri, che fungerà da moderatore, e i dieci capi delle comunità cristiane: per parte cattolica, il Patriarca di Antiochia dei Maroniti cardinale Bechara Boutros Raï, quello siro-cattolico Ignace Youssef III Younan, quello melkita Youssef Absi, il vescovo caldeo Michel Kassarj e il vicario apostolico latino, monsignor Cesar Essayan.

La preghiera e l’accorato appello

Dal Libano, terra di antichissime comunità cristiane dove vive la percentuale più alta di cristiani accanto alle comunità musulmane rispetto ai Paesi arabi vicini, anche se il numero si va assottigliando, si leva un accorato appello per la popolazione stremata dalla dilagante povertà, dall’impasse politica e dall’emergenza pandemica, ma ricca di fede e di fiducia nel Papa, come sottolinea padre Khalil Awan, rettore del Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa:

Padre Awan ricorda un dato che addolora profondamente: il 70 per cento della popolazione è ormai sotto la soglia della povertà in Libano e mancano beni di prima necessità. Della situazione politica dice che prevalgono dinamiche di corruzione e di interessi particolari sia all’interno del Paese che sul piano internazionale. È intensa la speranza – spiega – che l’attenzione che il Papa riserva al Libano possa rappresentare un appello ascoltato dal mondo. E poi padre Awan ricorda quella che definisce la bella convivenza tra cristiani e musulmani in Libano, sottolineando che non è sul piano di questo rapporto che si vivono i problemi ma sul piano della scontentezza per l’impasse sociale. Il rettore del Santuario che sovrasta Beirut ricorda poi che il Libano è Terra Santa, che nel sud del Libano ha vissuto Gesù e che il Paese dei cedri racconta la storia di tanti santi nei secoli.

Profonda gratitudine per tutta l’attenzione di Papa Francesco per il Libano, per questa Giornata di preghiera e per tutte le iniziative – come quella di inviare aiuti concreti oppure di inviare il Segretario di Stato cardinale Piero Parolin a Beirut per la giornata di preghiera il 4 settembre 2020 – viene sottolineata anche da padre Miled Tarrabay, responsabile della Procura dei Maroniti a Roma, che innanzitutto ricorda la ricchezza delle confessioni religiose in Libano:

Padre Tarrabay ricorda che sono 18 le confessioni religiose riconosciute dalla Costituzione in Libano, per poi sottolineare il valore di una convivenza nel rispetto e nello scambio reciproci che – sottolinea – rappresenta un unicum nella regione. Anche per questo, rammenta, Papa Giovanni Paolo II parlò del Libano come di un Paese che non è solo una realtà territoriale ma un messaggio per il mondo. Padre Tarrabay ribadisce l’importanza della scelta di Papa Francesco di tenere i riflettori accesi su quanto accade oggi in Libano perché la società – afferma – è profondamente ferita da una serie ininterrotta di tragedie. Ma, aggiunge, non mancano la preghiera e la fiducia che possa prevalere il dialogo nel Libano così come nel mondo che, ricorda, soffre il terrorismo fondamentalista e altre forme di rifiuto del dialogo.

La Chiesa di Antiochia dei maroniti

Secondo la tradizione, la Chiesa maronita, che ha preso il nome dal santo fondatore della Comunità san Marone, faceva parte all’origine delle chiese dette autocefale, ossia che non dipendevano direttamente da una o dall’altra sede patriarcale (Roma e Costantinopoli). Perseguitati dai bizantini come dai giacobiti, i maroniti si sarebbero rifugiati tra le montagne del Libano del Nord, per poi progressivamente diffondersi su tutto il territorio. Le storiografie ufficiali della Chiesa maronita, però, rifiutano la tesi delle origini monoteliti e sostengono la sottomissione dall’origine alla Chiesa di Roma. In ogni caso, è dopo le crociate che i legami della Chiesa maronita con il soglio pontificio di Roma si sono sviluppati in modo continuo. Questi legami sono consacrati dalla fondazione del Collegio maronita a Roma nel 1584. Nel 1736, il Concilio di Lou’aizé ha rafforzato la “latinizzazione” della Chiesa maronita, che conserva la sua liturgia in lingua siriaca e araba. Molte delle comunità presenti sul territorio libanese, al di là della Chiesa maronita, si definiscono “antochiane”, ossia si rifanno alla storica sede di Antiochia, città situata oggi in Turchia, dopo che la Francia ha ceduto la Cilicia siriana nel 1939 in cambio della neutralità di Ankara durante la seconda guerra mondiale. Le comunità cristiane

Altre comunità cristiane

La percentuale dei cristiani in Libano rispetto alla popolazione musulmana è la più alta rispetto a quelle che si registrano nei vicini Paesi arabi, anche se il numero purtroppo si va assottigliando. Le comunità cristiane sono divise secondo le scissioni sorte durante i primi dieci secoli di esistenza della Chiesa. A partire dal XVIII secolo, cresce la presenza della Chiesa romana attraverso i suoi missionari e si svilupperanno comunità nuove, come quella di greci cattolici, siriaci e caldei cattolici. Nel XIX secolo, anche le differenti chiese protestanti cominciano a dar vita a nuove comunità. Lo stabilirsi a Beirut, nel 1866, del Collegio siriano protestante, che diventerà in seguito l’Università Libano-Americana di Beirut, attirerà molti giovani cristiani di differenti confessioni orientali. Le chiese dette melchite – i greci ortodossi – sono quelle che derivano dalla loro obbedienza al Patriarcato di Costantinopoli. Questo scisma tra le due grandi sedi patriarcali di Roma e di Costantinopoli sarà appesantito dalla quarta crociata nel XIII secolo, poi consacrato dalla caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi ottomani. La comunità che raggruppa i Levantini, ossia i libanesi o siriani o palestinesi di origine europea che non hanno aderito a una delle chiese orientali esistenti, viene definita latina.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-06/libano-dialogo-cristiani-preghiera-dialogo.html

In Francia recupero dei partiti tradizionali alle amministrative

Né il partito di Le Pen né quello del presidente Macron ottengono la guida di una regione nel Paese, dove sembra tornare la divisione classica tra centrodestra e sinistra supportata dagli ecologisti. Estremamente significativo l’astensionismo record, che esprime più disorientamento che protesta, secondo lo storico Piero Craveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo i primi risultati del secondo turno delle amministrative francesi, che si è svolto domenica 27 giugno, in Francia recuperano terreno politico la destra neogollista e l’unione della sinistra,  gauche, con l’avanzata degli ecologisti: il centro destra ottiene sette regioni, la sinistra – con i verdi al suo interno – ne conserva cinque. Ma dopo il voto non ci sarà nessun rimpasto di governo, solo  alcuni “aggiustamenti necessari e limitati”. È quanto hanno dichiarato fonti dell’esecutivo citate ieri sera da Bfm-TV.

In vista delle presidenziali

A meno di un anno dal voto per l’Eliseo del 2022, lo scrutinio regionale doveva essere la prova generale del confronto che si immaginava tra l’attuale presidente Emmanuel Macron, del partito République En Marche, e Marine Le Pen, di Rassemblement National, ma si tratta proprio dei leader che hanno subito il più forte ridimensionamento. Zero regioni per La République en Marche, il partito della maggioranza presidenziale, nato nel 2016 per sostenere il cammino di Emmanuel Macron verso l’Eliseo, ma che ancora non risulta radicato a livello locale: si è fermato al 7 per cento dei consensi.  Il voto di ieri segna un apparente ritorno alla divisione classica tra destra (che ottiene sette regioni con il 38 per cento delle preferenze) e sinistra (con un’avanzata dei verdi al suo interno), che ne conserva cinque con il 34,5 per cento.

Non c’è nessuna amministrazione locale  neanche per il partito di Marine Le Pen, Rassemblement National, che si è presentato come uno schieramento più “moderato” rispetto all’originario Front National. Secondo gli analisti francesi, potrebbe avanzare alla sua destra la possibile candidatura dell’opinionista Eric Zemmour, ben più critico contro immigrazione e islam.

Secondo i primi risultati, con il 38 per cento delle preferenze, Républicains e alleati appaiono come la prima forza politica del Paese, pronti a lanciarsi nella corsa presidenziale. Xavier Bertrand, presidente uscente della regione Hauts-de-France, che è stato riconfermato battendo il candidato lepenista, ha dichiarato: “Questo risultato mi dà la forza per venire incontro a tutti i francesi”.

Un voto da interpretare

I consensi, in questo voto segnato dall’astensionismo record di due elettori su tre, hanno formalizzato la tendenza a recuperare fiducia nei confronti dei partiti tradizionali, ma hanno anche espresso forte disorientamento, come sottolinea lo storico Piero Craveri:

Craveri mette in luce un dato chiaro: con questo voto i francesi, che hanno alle spalle una tradizione forte di liberaldemocrazia, sono andati oltre la contrapposizione che si era creata negli ultimi anni tra due leader, Marine Le Pen e Macron. Al gioco di questa contrapposizione si era arrivati anche per la delusione nei confronti dei partiti tradizionali, travolti da scandali. E dunque, secondo lo storico, il punto è capire se questo rinnovato voto di fiducia nei confronti dei partiti tradizionali può portare a un reale recupero di peso politico.

Craveri ricorda che erano stati sfiduciati soprattutto per questioni di scandali e che è pensabile che qualcosa all’interno degli schieramenti sia stato fatto per superare problemi di tipo “morali” ma poi spiega che non è tutto: bisognerà vedere se gli elettori troveranno, nel centro destra che – dice risulta più favorito, e nella sinistra nuovi leader in grado di assicurare una visione per il futuro. Si tratta, spiega, di avere una visione che sappia fare i conti con il confronto con i Paesi dell’Asia – non solo la Cina –  che stanno sempre più emergendo.

Secondo lo studioso, non bisogna sottolineare troppo il dato dell’astensionismo: certamente è significativo e denuncia un certo disorientamento ma – afferma – è anche vero che è sempre diversa la partecipazione per le amministrative o per le politiche. C’è – sostiene – una sensibilità diversa. In ogni caso, Craveri interpreta la scarsa affluenza più come momento di perplessità collettiva che non come un dato di “protesta” e di disaffezione vero e proprio.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-06/francia-elezioni-centro-destra-sinistra-ecologisti.html

Papa Francesco e l’Europa: intervista con il presidente Sassoli

Sassoli: dal Papa l’invito alla difesa della persona  come misura di tutte le cose

Intervista con il presidente del Parlamento Europeo dopo l’udienza da Papa Francesco: “l’Unione Europea è impegnata nella realizzazione di alcuni stabilimenti in Africa per consentire dosi di vaccino a Paesi che in questo momento ne hanno particolarmente bisogno”
Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un incoraggiamento a difendere ogni persona, in particolare le più deboli: è il messaggio che il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha ricevuto oggi durante l’incontro con Papa Francesco in Vaticano. Dopo il colloquio, ha rilasciato un’intervista a Vatican News.

Presidente Sassoli,  cosa è emerso, cosa le resta di questo incontro?

Un forte incoraggiamento a difendere la persona ovunque si trovi, in qualsiasi condizione si trovi. La difesa della persona umana come misura di tutte le cose. Credo che questo sia il messaggio del Santo Padre. E naturalmente un incoraggiamento a fare in modo che l’Unione Europea sia uno strumento per difendere i più deboli, i migranti, le persone in difficoltà, tutti coloro che si sentono esclusi. E nello spirito dell’Europa in questo momento, degli strumenti che abbiamo messo in campo, c’è esattamente tutto questo. Dobbiamo diminuire le disuguaglianze e creare una protezione soprattutto per i più vulnerabili.

Ha colpito che all’ultimo Consiglio Europeo alla questione dei migranti siano stati dedicati dieci minuti di confronto. E non c’è ancora alcuna decisione sulla questione dei ricollocamenti … Manca ancora unione su questo tema, che dire?

Sento molta frustrazione, perché da tempo mi batto affinché ci sia innanzi tutto la dimostrazione dell’umanità dell’Europa nel salvataggio delle persone in mare e ho chiesto anche durante l’ultimo Consiglio di riflettere su un’iniziativa dell’Unione proprio per il salvataggio in mare. Come possiamo pensare di chiedere la difesa dei diritti delle persone in tutti i continenti e fuori dallo spazio europeo se poi noi non siamo in grado di salvare gli uomini, le donne, i bambini? Stiamo parlando di qualche migliaia di persone, non di milioni di persone. Ecco perché credo che in questo sforzo, che è una grande battaglia politica, c’è grande sintonia in questo momento con gli umori, gli incoraggiamenti che arrivano dal Santo Padre.

La pandemia, i vaccini: il Parlamento europeo si è pronunciato per la liberalizzazione, mentre la Commissione Europea manifesta una posizione diversa, contraria …

Innanzitutto, noi siamo molto fieri che dal primo gennaio il quaranta per cento della nostra produzione sia andata fuori dall’Unione Europea. Non l’hanno fatto tutti; non lo hanno fatto gli Stati Uniti, non l’ha fatto la Cina, non lo hanno fatto altre potenze. L’Unione Europea lo ha fatto. Questo non ha creato nemmeno scandalo, perché siamo convinti che la sicurezza degli altri sia la nostra sicurezza. Dobbiamo fare di più. E abbiamo chiesto che sulle licenze e sui i brevetti ci sia una riflessione perché deve essere chiaro che tutto quello che è utile ad avere più approvvigionamento di vaccini deve essere messo in campo. In questo momento l’Unione Europea è impegnata nella realizzazione di alcuni stabilimenti in Africa per consentire dosi di vaccino a Paesi che in questo momento ne hanno particolarmente bisogno. Non partiamo da zero; dobbiamo naturalmente fare di più.

Un altro tema che ha molto a che fare con la centralità della persona: la risoluzione, non vincolante, approvata giovedì 24 giugno dagli europarlamentari su salute e diritti riproduttivi e sessuali, in cui l’aborto viene riportato tra i diritti e viene definito come un  servizio medico essenziale. Papa Francesco ha pronunciato parole chiare, forti, in difesa della vita umana e nella sua visita a Strasburgo a novembre 2014 ha messo in guardia dal rischio di fraintendimenti sul concetto di diritti…

Questa risoluzione che non è vincolante, perché non è un atto legislativo, è una raccomandazione a fare in modo che tutti i Paesi in qualche modo abbiano delle legislazioni analoghe. Analoghe a cosa? Ad esempio, alla legislazione italiana, che mette la donna nelle condizioni di scelta, ma anche di sicurezza. E credo che questo sia il tema vero di quella raccomandazione. Credo che ci siano un po’ di strumentalizzazioni che è bene mettere da parte. Abbiamo visto che tanti Paesi si comportano in modi diversi e credo che alcune esperienze come quella italiana possono essere utili anche a loro.

Parliamo di Laudato si’. Non si era mai visto, anche nei corridoi della Commissione Europea oltre che dell’Europarlamento, un dibattito così intenso su un’Enciclica: se ne è parlato per settimane e mesi …

Ho ringraziato il Santo Padre perché le sue encicliche sono all’origine della riflessione che tutte le famiglie politiche hanno fatto in Europa per dar vita al green deal europeo, cioè questa grande possibilità che ha l’Unione Europea di essere prima della classe nella difesa del pianeta. Credo che all’origine della riflessione del Santo Padre sia una riflessione che ha colpito tutti. Le sue encicliche vengono citate in continuazione da tutti coloro che intervengono. Su cosa? Sulla necessità di prendere atto che il pianeta è la casa comune, che deve essere protetto e, nello stesso tempo, nella casa comune ci vuole più uguaglianza, perché l’ultima enciclica del Papa è un’indicazione molto politica per noi.

Casa comune, fratellanza umana. Quali sono in definitiva, secondo la sua sensibilità, le parole  forti di Francesco che possono essere più utili per le sfide che l’Europa affronta?

Sicuramente persone e comunità. Persone e comunità ci riportano a una riflessione di quella stagione in cui negli Anni ’30, di fronte ad un’Europa che si infiammava, molti intellettuali cattolici cominciarono a delineare e che oggi possiamo considerare un punto di riferimento importante, perché persone e comunità sono i riferimenti del personalismo cristiano. Credo che in questo ci sia molto legame tra i messaggi del Santo Padre e quell’esperienza. Ho consegnato a Papa Francesco un piccolo regalo: la prima edizione de “L’attesa della povera gente” di Giorgio La Pira, del 1951, un libricino molto povero, ma pieno di significati; la persona e le comunità al centro della nostra azione, con uno spirito di attenzione soprattutto naturalmente verso chi sta soffrendo. Oggi vediamo nelle nostre società classi medie che diventano povere, aumento della povertà, aumento della precarietà. Credo che gli sforzi di ripresa non avranno successo se non appianeremo queste disuguaglianze.

Un passo indietro nella storia: il 13 giugno del 1957, mentre si avviava l’avventura della costruzione europea, Pio XII, incontrando alcuni esponenti dell’allora movimento europeo, plaudiva a un’Europa unita su alcuni valori, raccomandando che non fossero solo economici;  invitava a evitare il rischio di un ripiegamento egoistico del continente e chiedeva di guardare all’Africa …

Credo che siamo ancora dentro quella riflessione, che non siamo arrivati alle conclusioni che nel 1957 i nostri padri fondatori, e anche la Santa Sede, auspicavano. Dobbiamo continuare. La storia dell’Unione Europea è una storia di successo, però certamente non è una storia che finisce qui, così come non finisce qui la risposta alla crisi, perché non possiamo accontentarci di quello che abbiamo fatto – che è molto importante -; dobbiamo proseguire perché la crisi sta entrando in ogni famiglia, in ogni posto di lavoro. L’attenzione all’aumento delle disuguaglianze, delle povertà, deve vedere tutti molto concentrati. Abbiamo bisogno di un’Europa che sappia esprimere una voce sola, naturalmente nel pluralismo, nelle tante sensibilità, che lo spazio europeo esprime. Però, in questo momento, capiamo e credo che anche i cittadini se ne rendano conto, che un’Europa più forte è un’Europa più utile anche per loro, per la loro sicurezza, per la risposta ai loro problemi. E in fondo questi quindici mesi di pandemia ci hanno dimostrato questo. I dati che arrivano, anche in quest’ultimo periodo, ci dicono che il settanta per cento dei cittadini vuole più competenze all’Unione Europea. Pensate a cosa vuol dire rispetto all’inizio della legislatura, dove il campo europeo si divideva tra Europa sì e Europa no, dove tanti volevano la dissoluzione dell’Europa, dove tanti attori in giro per il mondo scommettevano sulle divisioni dell’Europa. Credo che, rispetto agli strumenti che sono stati messi in campo, ci sia una consapevolezza che sta cambiando anche molti umori delle nostre opinioni pubbliche.

 

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-06/unione-europea-papa-francesco-udienza-sassoli-parlamento.html