L’Europa premia i dissidenti iraniani

Il nobel per la pace Sharin Ebadi ritira il premio europeo Sacharov per conto di Nasrin Sotoudeh, ora in carcere in Iran. “L’Europa denunci chi fa affari con il regime iraniano”.

“La libertà é non dover trascurare la famiglia per il rispetto della verità e della giustizia”. E’ la convinzione di Nasrin Sotoudeh, l’iraniana che ha ricevuto il Premio Sacharov 2012, che il Parlamento Europeo assegna a quanti si distinguono nella difesa dei diritti umani. E’ avvocato, é donna e si trova nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, per il suo impegno in tribunale accanto a studenti e donne perseguitati dalla giustizia. Da mesi é in sciopero della fame per chiedere che si allenti la pressione persecutoria su suo marito e i suoi due figli.
A ritirare il premio a Strasburgo c’é un’altra avvocato donna iraniana, la più nota Sharin Ebadi che nel 2003 ha ricevuto il Nobel per la pace e che da 4 anni é costretta a vivere all’estero. A Famiglia Cristiana la Ebadi confida: la prima verità da gridare al mondo in questo momento é che “il popolo iraniano é indignato per il supporto di inteligence e di armi che il regime islamico di Teheran sta assicurando al regime in Siria per la sua feroce repressione”. “Il popolo iraniano – afferma la premio Nobel – é cosciente del ruolo che il governo di Teheran sta giocando nell’area mediorientale per tentare di esportare il suo modello di islamizzazione politica”.

 Sharin Ebadi
L’accusa per Sotoudeh é: attentato alla sicurezza dello Stato. La stessa accusa per cui é in carcere l’altro iraniano premiato quest’anno con lei dall’Assemblea di Strasburgo. Si tratta del regista cinematografico Jafar Panahi. E’ noto agli ambienti del cinema dal 1995, anno in cui ha presentato la sua prima pellicola a festival internazionali. Ma é diventato famoso nel 2010 quando Cannes ha premiato il suo “Questo non é un film”, che racconta qualcosa della drammatica situazione in Iran ad oltre tre decenni dalla rivoluzione islamica dell’ajatollah Khomeini. Al posto di Panahi, a ritirare il riconoscimento c’é un suo collega, Kosta Gavas, che ci racconta: “Non poter fare film, per Panahi, equivale a una morte lenta”. Panahi é stato condannato a 6 anni di carcere ma anche a non realizzare nessun tipo di prodotto cinematografico per 20 anni.

Sia l’avvocato Sotoudeh sia l’artista Panahi sono stati incarcerati nel 2010, nel pieno del giro di vite del regime di Teheran che ha fatto seguito alle manifestazioni di piazza subito subito dopo le elezioni presidenziali a giugno 2009. Per settimane tantissimi giovani e tantissime donne hanno fortemente manifestato contro la rielezione di Akhmadinejad. Ma ogni protesta é finita nella dura repressione. E’ stato un anticipo di quello che avremmo visto in tanti paesi nordafricani e mediorientali con l’esplosione a partire da gennaio 2011 della cosiddetta primavera araba. In Siria alle proteste hanno fatto seguito la sanguinosa repressione e poi l’attuale drammatico irrisolto conflitto. In altri paesi, come la Tunisia e l’Egitto, é cominciata una difficilissima transizione. In altri, come il Bahrein o la Giordania, – sostiene la Ebadi – alcune rivendicazioni sono state ascoltate, altre più significative sono state come congelate.

Parliamo con la premio Nobel Shrin Ebadi qualche minuto prima che sia accolta nell’emiciclo dell’europarlamento, per rappresentare la collega Sotoudeh.

“Perché il Medio Oriente conosca la democrazia ci vuole tempo”, ci spiega la Ebadi. “Il lento processo – spiega – in alcuni paesi sembra iniziato, in altri é ancora un sogno nelle menti di alcuni”. Ci ricorda che l’Iran é al secondo posto nel mondo per il numero di giornalisti arrestati, che centinaia di studenti sono nelle carceri, che di recente oltre 50 donne sono state perseguitate dalla giustizia perché hanno osato ricorrere ai tribunali per il rispetto di loro basilari diritti. Ci ricorda che in Iran é normale che, in caso di dovuto risarcimento per la morte accidentale di una persona, si consideri il valore di un uomo doppio del valore di una donna. Poi la Ebadi ci ricorda: in Iran nel 2013 si svolgeranno le elezioni presidenziali.

La Ebadi ci spiega che, in Iran, Sotoudeh e Panahi sono personaggi conosciuti e molto stimati.

“Il popolo é con loro”, ci dice. “Il popolo – aggiunge – soffre per le sanzioni imposte dall’occidente ma sa bene che l’Europa non premia i nemici dell’Iran, come il vergognoso regime iraniano vorrebbe far credere con la sua martellante propaganda, ma piuttosto l’Europa tenta di sostenere chi lotta per la dignità umana”.

Chiediamo alla Ebadi se ha qualcosa da aggiungere a proposito delle sanzioni: ci pensa un attimo, come a voler ponderare le parole, e poi afferma lapidaria: “Ci vuole il coraggio di imporre sanzioni mirate, indicando nomi e cognomi”. L’appello rivolto all’Europa che difende i diritti umani é ancora più forte nelle parole del sostituto di Panahi: “Il parlamento europeo che premia i difensori della libertà di espressione deve denunciare con sempre maggiore forza i governi europei che fanno affari e commerci, nonostante l’embargo, con il regime iraniano”.

Fausta Speranza

Urss, la verità sui test atomici

Nel Nord Est del Kazakhstan c’è Semipalatinsk, il sito di esperimenti nucleari dell’Urss: 616 esplosioni tra il 1949 e il 1989. Ecco quel che resta.

La verità sul nucleare dell’Urss

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Veduta aerea dell’area sottoposta ai test nucleari.

Da Semey (Kazakhstan) – Esattamente 20 anni fa nasceva il Centro studi che avrebbe raccontato tutta la verità sulla tragedia legata al più concentrato sito di esperimenti nucleari dell’Unione Sovietica e forse del mondo. Parliamo del sito di Semipalatinsk, nel Nord Est del Kazakhstan, dove tra il 1949 e il 1989 sono stati effettuati 456 test nucleari, comprensivi di 616 esplosioni. Per un totale di energia irradiata che, considerata nel complesso, è pari a oltre 1000 volte quella della sola bomba di Hiroshima, lanciata dagli Usa in Giappone nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A Semipalatinsk il 29 agosto del 1949 è esplosa la prima bomba nucleare sovietica e il 29 novembre del 1955 è esplosa la prima bomba russa a idrogeno. Inoltre sono state provocate 175 esplosioni con materiali chimici. In alcuni casi ci sono state dispersioni di plutonio. Almeno 3 milioni di persone sono morte su questa terra. Un bambino su due è nato con malformazioni.

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Quel che resta della vecchia torretta del sito nucleare.

Il territorio direttamente colpito dai test è di 3.000 km2, all’interno dei quali si individua un ulteriore epicentro denominato Opytnoye. Con linguaggio internazionale viene identificato come Experimental Field o Ground Zero. Si tratta di un’area di 300 km2 con un perimetro di 64 km2. È il cuore del dramma Semipalatinsk. Delle strutture e strumentazioni che c’erano conserva solo i resti di una torretta.

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Inizio dell’Experimental field

L’abbiamo sorvolato in elicottero. Le immagini girate dal finestrino, però, forse non riescono a rendere tutto il senso di desolazione e il grigiore insolito della terra. A piedi siamo giunti al punto estremo in cui permettono di arrivare con scarpe speciali che evitano almeno la contaminazione diretta dal suolo.

Nei primi anni si sono svolti soprattutto esperimenti in superficie, esattamente 116, mentre negli anni seguenti le esplosioni si sono concentrate in tunnel sotterranei, almeno 340. Il maggior numero di tunnel, 181, si sono concentrati nella montagna di Degelen e nella zona di Balapan, dove scorre il fiume Shagan, le cui acque sono un concentrato di radioattività.

Si distinguono i laghi atomici, cioè laghi formatisi subito dopo esplosioni. In conseguenza degli esperimenti nel sottosuolo, il direttore del Dipartimento Sicurezza Radiazioni, S. N. Lukashenko, ci spiega che ancora accadono smottamenti con crolli improvvisi e fuoriuscite di gas.

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Il presidente Nazarbayev alla conferenza.

Solo nel 2010 si è conclusa la fase di stoccaggio del materiale di 350 reattori che avrebbe assicurato 800 armi nucleari. Il Kazakhstan si è proclamato indipendente nel 1991. La scelta di chiudere Semipalatinks e di rinunciare, dunque, al quarto arsenale nucleare al mondo è stata immediata. Al presidente Nazarbayev è riconosciuto a livello internazionale il ruolo di leader della battaglia contro gli esperimenti e le armi nucleari. Su sua pressione, l’Onu ha istituito la Giornata internazionale per la messa al bando dei test atomici, celebrata per la prima volta il 29 agosto del 2010.

Non è data casuale: il 29 agosto del 1949 iniziavano le esplosioni a Semipalatinsk e lo stesso giorno del 1991 si è svolta la cerimonia ufficiale di chiusura del sito. Proprio il 29 agosto scorso, dunque, si è svolta ad Astana la Conferenza internazionale intitolata: Dalla messa al bando dei test a un mondo senza armi nucleari, con 175 parlamentari e rappresentanti di Ong di 60 Paesi.

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Jonos Gahr, vice presidente del gruppo PNND, NuclearNon Proliferation and Disarmament.

È emerso un appello ai capi di Stato e di Governo a passare dalle parole ai fatti: esiste un Trattato di messa al bando dei test nucleari ma non viene ratificato, così come non viene rispettata la moratoria voluta dall’Onu. Nel mondo si spendono almeno 100 miliardi l’anno in armamenti nucleari. Paul Dewar, del Senato canadese, ci spiega che l’obiettivo dovrebbe essere quello di una Dichiarazione universale che possa portare a una vincolante Convenzione ma che nel frattempo, si devono creare sempre più nuclear weapons free zones.

La prima zona senza armi nucleari è nel centro Asia, frutto dell’Accordo firmato a Semey nel 2006 dalle ex Repubbliche sovietiche: Kazakhstan Kyrghizistan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Il vice presidente del gruppo internazionale conosciuto come PNND, Nuclear Non Proliferation and Disarmament, il norvegese Jonos Gahr, non ha dubbi: le prossime free nuclear weapons zones devono essere assicurate in Medio Oriente, nel Nord Est dell’Asia, nell’Artico. Gahr ha ottenuto che fosse scritto chiaramente nell’appello. Chissà quando si otterrà di averle.

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L’ingresso del Centro studi.

L’ospedale di Semey ha in cura il 63% dei sopravvissuti ai test nucleari: i tassi di tumori sono due volte doppi rispetto ad altrove

Nella zona adiacente al sito di esperimenti nucleari di Semipalatinsk si registrano tassi di tumori due volte doppi rispetto alla media nazionale. Oltre 600.000 persone, cioè il 93% dei sopravvissuti, sono in cura per una forma di cancro o leucemia, o per gravi disturbi respiratori o della pressione sanguigna. I livelli di radioattività sul terreno variano molto. Il presidente dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, Khadirzanov, ci spiega che molto è dipeso dai venti al momento delle esplosioni e dalla pioggia che, se compare, aggrava di decine di volte la contaminazione.
In un complesso sono riuniti il Centro studi, l’Istituto di Ricerca scientifica Medicina radiologica e Ecologia, un Dispensario di oncologia e l’Unità di medicina radiologica dell’Università di Stato. C’è da dire che adiacente a tutto il complesso, c’è anche l’area di 32 ettari chiamata Parco Nazionale Nucleare dove c’è attività per uso civile. Il Kazakhstan, infatti, non ha affatto rinunciato al nucleare ma solo alle armi atomiche.

L’orrore di quei test

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Tradizionale abitazione kazakha ai limiti di Experimental field.

Il sito di sperimentazione nucleare è cominciato a sorgere nella regione di Semey nel 1948, dopo un sopralluogo e un rapporto in cui si legge che si trattava di 18.000 km2 di steppa deserta. Niente di più falso: in quel territorio, che apparteneva alle regioni di Pavlodar e Karaganda, c’erano 19 distretti con villaggi abitati. Un Museo conserva la memoria di scelte disumane. Ci sono teche con organi di animali con innaturali deformità e anche con materiale umano di cui scegliamo di non parlare.

Raccontiamo, invece, dei frammenti delle strumentazioni conservati. Strumentazioni portate e installate su decisione del Comitato centrale del Partito comunista e del Consiglio dei ministri URSS, e con la supervisione dell’unità 52065 dell’esercito russo, ma sfruttando uomini presi dai Gulag.

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“Più forte della morte”: il monumento per le vittime dei test nucleari.

Si intitola Più forte della morte: è il monumento eretto nella città di Semey a memoria di tutte le vittime dei test nucleari sovietici nel nord est del Kazakhstan. Rappresenta una sorta di fungo con in alto il simbolo dell’atomo e in basso la statua di marmo bianco di una donna con un bambino in braccio.

kuyukov-kasipbek   Kuyukov Karipbe.

I sopravvissuti raccontano di un dramma durato 40 anni senza la consapevolezza da parte delle vittime di quello che accadeva. Kuyukov Karipbe è nato nel 1968 senza braccia e con alcuni disturbi. Ci racconta del dolore di sua madre, delle difficoltà incontrate nella vita e della scoperta della verità. Con grande dignità ci dice che vuole parlare con più giornalisti possibile del mondo: sebbene sia molto penoso, vuole contribuire a denunciare con la sua persona “uno degli orrori che l’uomo è riuscito a provocare perdendo di vista il valore della vita umana”. Ci invita a far girare la sua foto.

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Bambini in parata durante una cerimonia di commemorazione.

Partecipiamo a una solenne cerimonia di commemorazione, con giovanissimi in parata ufficiale. La gente è tanta e chiede che non solo in Kazakhstan siano sospesi gli esperimenti nucleari. Una donna ci dice: “Siamo sopravvissute alle radiazioni ma in realtà la cosa più strana è stata sopravvivere a tanto dolore”.

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Sultan Kurtoyev, vicepresidente del Movimento Nevada-Semipalatinsk.

Sono tra i protagonisti del movimento che si è dato il nome di Nevada-Semipalatinsk. Sono stati i primi cioè a scendere in piazza nel 1989, nella allora capitale del Kazakhstan Almaty, per ascoltare il poeta Olzhas Suleimenov che denunciava pubblicamente gli avvenuti test nucleari. Il giorno dopo nella stessa piazza sono accorse 5000 persone. Poco prima in Nevada, negli Stati Uniti, in seguito agli esperimenti atomici voluti da Washington si erano svolte manifestazioni contro i test durante le quali 2000 persone erano state arrestate. Il vicepresidente del Movimento, Sultan U. Kartoyev, ci racconta come, nonostante la barriera della lingua, i due gruppi si siano messi in contatto e abbiano dato vita a un movimento, in virtù di “un dolore comune espresso senza troppe parole”. La storia seguente è storia di incontri e confronti e di una battaglia comune a livello civile ancora viva.   Fausta Speranz

Famiglia Cristiana in edicola l’ 11 Novembre 2012

Etiopia, i colori dell’Africa cristiana

Aethiopia Porta Fidei. L’Etiopia, porta della fede.

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La foto di copertina è dell’agenzia Reuters.

La storia religiosa millenaria dell’Etiopia in oltre 100 preziosi manufatti artistici. E’ la mostra “Aethiopia Porta Fidei. I colori dell’Africa cristiana”, ospitata al Museo diocesano di Vicenza fino al 24 febbraio 2013. Per tutto il suo passato storico, prima giudaico e poi cristiano, l’Etiopia è considerata una sorta di provincia dell’Oriente cristiano “casualmente” in terra d’Africa. Icone, rotoli magici, croci, libri, strumenti: i reperti sono tutti molto particolari e poco conosciuti.

La lunghissima tradizione esposta nella mostra comincia addirittura le sue radici nel popolo ebraico e viene fatta risalire lontano fino forse alla regina di Saba, nel suo viaggio in terra di Israele per incontrare il re Salomone. Secondo alcune interpretazioni, già vive nell’antichità, dovrebbe identificarsi proprio con la regina di Saba la voce femminile del Cantico dei Cantici che pronuncia la frase che in in latino suona “Nigra sum sed formosa” e che potremmo tradurre in “Sono bruna ma bella”.   La tradizione locale colloca proprio in Etiopia il regno di Saba e racconta che Salomone avrebbe preso la regina con l’inganno durante la visita di lei alla corte di Israele.

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Ci sono poi i reperti che ci riportano alla Chiesa cristiana delle origini, che rivive ancora oggi perché si sono conservati riti, rappresentazioni artistiche in cui è evidente lo spirito della prima età evangelica. E questo si deve naturalmente al fatto che l’Etiopia cristiana si è trovata rapidamente circondata da popoli islamici e che proprio per questo si è radicata nella tradizione, ha difeso l’affermazione di un’identità di razza, lingua, costumi, che in buona misura, nonostante tante fasi critiche, è giunta fino a noi.

Di fronte al racconto di tutto ciò attraverso bellissimi reperti ci si ricorda che in Europa non si può essere monocentrici. E’ la riflessione del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, che incontriamo alla presentazione della mostra a Roma. «Riscoprire questa ricchezza – ci dice – serve a noi europei per perdere l’autoreferenzialità che ci caratterizza,  derivata spesso da un senso di superiorità che, pur avendo come adice ultima delle giustificazioni dal punto di vista della storia, del pensiero e della cultura, non si giustifica mai quando va oltre i limiti di una capacità di convivenza e di unità con tutta quanta la famiglia umana».

E’ indubbio che la ricchezza della Chiesa d’Etiopia, che la mostra documenta, è un’occasione e una provocazione per la nuova evangelizzazione in Europa. Basta pensare all’intensità dei colori delle icone, che sembrano sintetizzare l’immaginario religioso di un popolo. Nella mostra ce ne sono una quarantina di piccolissimo formato, realizzate tra il XVI e il XVIII secolo. Erano un accessorio quotidiano quanto prezioso.

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L’arcivescovo di Addis Abeba, cardinale Demerew Souraphiel Berhaneyesus, e l’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola.

Ma tanta ricchezza di storia non può far dimenticare l’oggi: l’Etiopia è il secondo Paese più popoloso d’Africa, con più di 86 milioni di abitanti, di cui la metà ha meno di 20 anni. E’ uno dei Paesi più poveri al mondo. Nelle zone rurali si conta un medico ogni 100.000 abitanti. Ha le potenzialità per crescere ma lo sviluppo economico, industriale e quello delle infrastrutture richiede innanzitutto personale con adeguate competenze. I migliori giovani attualmente vanno a frequentare l’Università all’estero.

Ecco che la storia cerca di mettersi a servizio dell’attualità: la mostra è stata voluta per raccogliere fondi per portare avanti il progetto dell’Università Cattolica d’Etiopia San Tommaso d’Aquino Ecusta, ad Addis Abeba. Il terreno c’è: il Governo federale della Repubblica Democratica d’Etiopia ha donato 60 ettari. Attualmente c’è solo una piccola struttura gestita da suore salesiane di Zway, a 250 chilometri dalla capitale, che ospita corsi di laurea diurni e serali per tecnici di laboratorio medico e operatori sociali. Ma si farà, invece, un vero e proprio Campus medico in gemellaggio con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’Università degli Studi di Padova.

L’arcivescovo di Addis Abeba, cardinale Demerew Souraphiel Berhaneyesus, ci racconta che i servizi educativi assicurati dalla Chiesa cattolica da tempo sono molto apprezzati dal popolo e che lo stesso governo etiopico chiese a Giovanni Paolo II di aprire un’università. Ci spiega, poi, che il progetto è stato fortemente sostenuto dalla Conferenza Episcopale Italiana. E’ evidente che un Campus universitario così progettato potrà essere molto importante non solo per l’Etiopia ma anche per tutto il Corno d’Africa, per la Somalia, per Gibuti, per l’Eritrea, per il Sudan.

L’arcivescovo di Addis Abeba aggiunge che “il polo universitario può avere conseguenze positive fino in Medio Oriente, dove si recano molti etiopici per lavorare come domestici, come infermieri”. Sottolinea che ovunque “solo con l’educazione si può avere una coesistenza pacifica e si può assicurare partecipazione dei giovani allo sviluppo del Paese”. La mostra insegna che non può esserci educazione senza memoria storica.
Fausta Speranza

Famiglia Cristiana del 29 Ottobre 2012

Bruxelles, battaglia di quote rosa

Secondo i dati Eurostat, le donne spiccano per preparazione, ma la loro presenza nelle istituzioni europee è sempre ridotta. L’opposizione di molti Paesi.

Riunione del 4 ottobre 2012

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Le uniche tre donne rimanste nel Parlamento Europeo.

Il Parlamento europeo fa mea culpa sulla scarsa presenza delle donne nelle istituzioni comunitarie e discute seriamente di quote. Ma prima ancora che sia pronto un testo di proposta di Direttiva, è arrivata a Bruxelles la lettera firmata da 9 Paesi membri che promettono dura battaglia. Parte così in salita l’impegno del “Gruppo di lavoro ad alto livello sulla parità di genere”, che si è appena costituito nell’ambito dell’ufficio di presidenza del Parlamento Europeo, dopo che nella seconda metà dell’attuale legislatura, al momento del passaggio di testimone tra il polacco Buzek e il tedesco Schultz, il numero di vice presidenti donne si è dimezzato: piuttosto che 6 su 14, si è ridotto a 3 su 14.

È stata confermata in carica l’italiana Roberta Angelilli, che ha assunto con forti motivazioni la presidenza del Gruppo. Ed è partito il gemellaggio con la Commissaria europea alla Giustizia, Viviane Reding, che da due anni elabora strategie in proposito. Primo passo è stato quello di fotografare la presenza rosa nei posti di comando in Europa.

In temi di crisi, in cui 62 milioni di donne risultano a rischio povertà, cioè ben il 24,5% di tutto il mondo femminile, fa effetto che nessuna donna compaia nel board della Banca Centrale Europea, che di recente ha avuto un ruolo sempre più di rilievo nelle politiche attivate contro la crisi economica. Eppure, secondo i dati Eurostat, le donne spiccano per preparazione: tra i laureati in Europa, sono ben il 60%, così come pure tra i master. Anche se poi, guadagnano sempre circa il 16% in meno degli uomini, seppure a parità di mansione e di qualifica.

E anche se le giovanissime disoccupate sono più dei colleghi maschi. Se si guarda al Consiglio europeo, sono solo 3 le donne che figurano nella foto di gruppo (tedesca, danese e lituana) su 28 componenti, cioè i 27 più il presidente della Commissione europea. D’altra parte, la Commissione europea non ha avuto mai una donna alla presidenza. L’Europarlamento ne ha avute solo 2 su 29, Simone Veil proprio agli inizi, e Nicole Fontaine.

Ma è interessante anche vedere la composizione dell’euroassemblea a Strasburgo: alla nascita del Parlamento europeo nel 1979 i seggi rosa erano il 17%. Nell’attuale legislatura, ben 30 anni dopo, c’è stato solo un raddoppio. C’è una sola conquista di rilievo da evidenziare: la recente nomina per la prima volta di un Segretario aggiunto donna, che è l’italiana Francesca Ratti.

C’è poi da analizzare la presenza femminile nei vari parlamenti nazionali UE: si trova una media inferiore a quella europea, che si attesta al 25%. Per i ministri, scende al 23%. E se non ci fossero Paesi particolarmente tinti di rosa come Svezia, Finlandia, Danimarca, la media scenderebbe di molto.

Se questa è la rappresentazione del mondo della politica, c’è poi il mondo delle imprese. Nei Consigli di amministrazione di tutta Europa si registra una media di solo una donna ogni 7 uomini, cioè un bassissimo 13%. E, in tema di imprese, troviamo il punto che più ha convinto la Reding a dare dura battaglia per imporre le quote di presenza rosa. La Commissaria, infatti, due anni fa ha lanciato una campagna ad alto livello per convincere le imprese a provvedere spontaneamente a una maggiore femminilizzazione, ma a raccogliere l’invito sono state unicamente 24 società su tutto il territorio del vecchio continente.

Un risultato più che deprimente che ha convinto la Reding, che ci confessa di non aver mai amato le quote, a pensare una Direttiva per imporle. L’italiana Angelilli confida di aver fatto lo stesso percorso mentale. “Le quote – ci dice – potrebbero far pensare a misure da riserva indiana, ma al momento sono l’unico strumento con cui potremmo oltrepassare quello che chiamiamo il tetto di cristallo oltre il quale le donne non accedono”. Va detto che attualmente sono già 12 i Paesi membri che hanno approvato nella loro legislazione nazionale quote minime di presenza femminile.

Il caso più recente è quello della Francia che, con la legge sull’equilibrio di genere entrata in vigore nel 2011, ha inciso da sola su circa la metà dell’aumento registrato negli ultimi mesi nei consigli di amministrazione delle imprese europee. Non ha affatto inciso su nessun bilancio, invece, il provvedimento preso in Italia in relazione all’inserimento di donne nelle liste presentate dai partiti: la legge impone la quota rosa, pena il mancato rimborso delle spese elettorali, ma dal momento che la legge elettorale in Italia lascia all’elettore solo la scelta del partito e non della preferenza della persona, basta mettere le donne in fondo alla lista e si è sicuri che difficilmente saranno elette. Lo ricorda, non senza vivo rammarico, la Angelilli.

A proposito di Italia va ricordato che spicca al negativo per la scarsità di servizi alla famiglia, tipo asili nido per tutti o forme di assistenza serie per disabili. Misure che prima ancora delle quote rosa potrebbero contribuire ad assicurare una presenza sempre più qualificata di donne nel mondo del lavoro e potrebbero facilitare la conciliazione tra impegno lavorativo e famiglia.

In ogni caso, la battaglia per le quote si presenta non facile, per l’opposizione netta di Olanda, Gran Bretagna, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica ceca, Ungheria, Romania e Malta. E citando Malta non si può non notare che la Repubblica di Malta è l’unico Paese a non avere neanche una donna in tutta la delegazione al Parlamento Europeo. Si tratta dei Paesi firmatari della lettera contro l’ipotesi finora solo verbale di una Direttiva pro quote.

E inoltre, al gruppo, anche se non ha firmato, promette pieno appoggio la Svezia, che nell’immaginario di tutti dovrebbe essere a favore di qualunque misura pro donne. Ma parlando approfonditamente con la Angelilli e con la Reding, capiamo che c’è un asso nella manica su cui contano. Viene dal mazzo del Trattato di Lisbona, che prevede la formula della cooperazione rafforzata per alcuni Paesi che vogliano procedere nell’adozione di una Direttiva che non passerebbe mai a maggioranza.

E’ possibile procedere a “cooperazione rafforzata” se anche solo 9 Paesi su 27 sono d’accordo. In questo caso, si conta sull’appoggio degli almeno 12 Stati che hanno previsto già nelle loro legislazioni le quote. Al momento la battaglia è appena cominciata. La prima scadenza per una verifica di conta sarà probabilmente a ridosso della prossima Giornata internazionale della donna, l’8 marzo, sempre celebrata con eventi significativi all’Europarlamento. Intanto, tra tanti dati, c’è una consapevolezza in più: il tanto discusso Trattato di Lisbona, pur firmato allora praticamente da quasi tutti uomini, potrebbe distinguersi per un assist alle donne. Fausta Speranza

da Famiglia Cristiana dell’8 ottobre 2012

Ue e giovani, proposte e non proteste

Centinaia di ragazzi si sono riuniti a Francoforte, sotto l’EuroTower, nel cuore della finanza europea, per proporre idee concrete contro la crisi: dal lavoro all’accesso al credito.

“Vi aspetto a Bruxelles”: a parlare è il presidente del Parlamento Europeo, il socialista Martin Schulz. Ma non è un appuntamento dato a leader europei e nemmeno un invito rivolto a big della finanza o dell’industria o a esponenti delle parti sociali.
Schulz ha convocato a Bruxelles i 500 giovani che hanno dato vita, durante il weekend, al Movimento di Francoforte, con una manifestazione organizzata nel cuore della finanza europea: a Francoforte, sede della Banca Centrale Europea.
Di fronte all’Eurotower i giovani sono arrivati con molta grinta, poca voglia di protestare ma con la ferma volontà di presentare idee concrete.

Hanno chiesto “un patto europeo per il diritto alla formazione di qualità, al lavoro e all’accesso al credito per i giovani imprenditori”. Ma hanno anche chiesto che ci sia “un sistema di penalità per gli Stati membri che non promuovono efficaci azioni per l’occupazione giovanile”. I ragazzi hanno sostato sotto la Banca centrale europea ma hanno anche ottenuto di riunirsi in locali all’interno dell’Eurotower, in video conferenza con Schulz. Li ha seguiti la vicepresidente italiana del Parlamento Europeo, Roberta Angelilli, e sono poi arrivati i messaggi di 75 deputati di vari paesi.

Schulz ha incoraggiato i ragazzi a utilizzare uno strumento concreto previsto dal Trattato di Lisbona: l’iniziativa legislativa popolare europea. In sostanza proposte che dal basso possono farsi legislazione.
A parlare con i giovani seduti sotto l’Eurotower colpiva la seria consapevolezza di appartenere a una generazione “stritolata negli anni peggiori” di una crisi non paragonabile a precedenti della storia recente del vecchio Continente, unita però alla voglia di “fare qualcosa”.

Nessuna falsa rassicurazione da parte dei vertici dell’europarlamento. Schulz ha affermato: “La disoccupazione giovanile è una piaga per l’Europa e voi rischiate di essere una generazione perduta”. Ma ha poi aggiunto: “Eppure dà forza vedervi qui e vedere nascere qualcosa”. Cosa sia nato a Francoforte è più chiaro nelle parole della vicepresidente Angelilli che fotografa “un laboratorio di idee e di proposte che può essere un punto di riferimento e di partecipazione per tutti i giovani italiani ed europei”. Va fatta una considerazione sulla scelta del luogo: l’Eurotower.

Nel mezzo delle diatribe tra paesi del Nord Europa, rigorosi sui conti, e paesi del Sud, più o meno pasticcioni, il Governatore della Banca Centrale europea, Mario Draghi, ha messo d’accordo tutti, di recente, sul piano di acquisti di titoli di Stato da parte proprio della Bce, per salvare situazioni di seria difficoltà e per salvare in definitiva l’euro e l’Unione Europea. Ritrovare i giovani seduti sotto il simbolo dell’euro a Francoforte ha fatto pensare a un ruolo nuovo che la Bce ha assunto anche agli occhi dei cittadini e non solo dei leader.

Ha fatto pensare che il messaggio sostanziale di solidarietà tra Paesi lanciato da Draghi non sia passato inosservato ai giovani, in uno scenario difficile di crisi della finanza e della politica. Bisogna dire che tra le proposte presentate, c’è “la riforma della BCE affinché diventi una vera e propria banca dello sviluppo al servizio dei cittadini e delle imprese europee”. In definitiva non dovrebbero passare inosservati tanti giovani che hanno chiesto aiuto alle istituzioni europee, dopo anni in cui politici nazionali inadeguati hanno buttato sull’Europa tutte le responsabilità di qualunque fallimento o di qualunque sacrificio da fare. Forse il gioco dello scarica barile che poteva sempre finire a Bruxelles non funziona più con i giovani.

In questo caso i ragazzi a Francoforte non hanno solo battuto un colpo sulla loro esistenza ma hanno anche dato una bella lezione.

Fausta Speranza

La soluzione c’è: il Mercato Unico

Merci, servizi, persone e capitali. L’Europa avrebbe dovuto costruire uno spazio economico unico per poter essere competitiva con i mercati Usa e d’Oriente.

L’Unione Europea, che vacilla tra emergenze dei mercati e interventi di salvataggio di Banche e Paesi, e che discute di misure di rigore e di piani per la crescita, dimentica di avere a disposizione da 20 anni lo strumento privilegiato del Mercato Unico Europeo. Una dimenticanza che comporta costi gravosissimi. Un esempio: soltanto la mancata adozione di un Brevetto unico per i 27 Paesi costa alle imprese mezzo milione di euro al giorno. Lo assicura Arnaldo Abruzzini, segretario generale di Euro Chambre, federazione di 2.000 camere di commercio e industria con sede a Bruxelles. Abruzzini spiega che Londra, Parigi e Monaco si contendono la sede dell’agenzia di gestione del Brevetto e non trovano un accordo.

Parliamo di un Mercato di 500 milioni di consumatori, più di tutti gli statunitensi che superano di pochissimo i 300 milioni di abitanti. Rappresenterebbe un volano per l’economia, ma gli Stati membri non l’hanno mai realmente lanciato. Non c’è da considerare solo il business mancato nel circuito interno ma anche le opportunità perse in termini di esportazione in Paesi terzi, dove gli europei si avventurano a ranghi sparsi, niente affatto compatti, mentre il mondo premia i più grandi.

La libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali rappresenta l’ossatura del Mercato Unico. Nel 1992 Bruxelles annunciava queste quattro libertà fondamentali. Oggi per i giovanissimi è scontato ma viaggiare, studiare, lavorare, vivere e fare acquisti in un altro paese dell’Ue senza troppi problemi non lo era affatto fino a pochissimo tempo fa. Ma l’obiettivo non poteva essere solo la mobilità. Si doveva costruire uno spazio economico unico che permettesse all’Europa di posizionarsi con tutto rispetto nel panorama internazionale che nel frattempo rispondeva alle leggi della globalizzazione. A ben guardare aspettiamo il Mercato Unico non solo dall’anno di lancio. Lo prevedeva l’Atto unico del 1986. Ed era stato pensato ben prima. Nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957 si legge: “il Mercato unico è l’obiettivo principale”.

Servizi pubblici, Banche e finanza non ne vogliono proprio sapere

Il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella, parla di servizi pubblici che restano sotto la gelosa sovranità nazionale, come altri ambiti dell’economia. Sottolinea, per esempio, il danno prodotto dalla mancanza di un mercato comune del settore energia. Cita «il mercato tedesco dell’energia che è particolarmente chiuso». Questo – dice – è contrario a ogni aspirazione a un riequilibrio di ricchezza e benessere tra gli Stati membri.

I singoli Stati, inoltre, non cedono nulla della sovranità in materia fiscale o di protezione sociale. In più, i settori interbancari e finanziari sfuggono alle logiche del Mercato Unico. Il presidente di FederLazio, Maurizio Flammini, ci racconta il bluff delle carte di credito. Da tempo gli imprenditori chiedono commissioni uguali in tutti i 27 Paesi. Ora ci sono commissioni anche doppie e triple e, in caso di cifre considerevoli, la carta si blocca solo per questo motivo. Altro che Mercato Unico, commenta Flammini.

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Maurizio Flammini, presidente di FederLazio.

A pensarci non è un caso che abbiamo adottato l’euro come moneta unica di 13 Paesi senza adottare misure monetarie comuni. La finanza resta un tabù, anche perché è uno di quegli ambiti in cui anche l’ultimo Trattato, quello di Lisbona, ha ribadito la necessità del voto all’unanimità. E basta la City finanziaria di Londra a bocciare aperture. Proprio dalla Gran Bretagna, per esempio, viene la prima opposizione alla Tobin Tax, la prima tassa che in tempi di crisi non toccherebbe i cittadini bensì le Banche, incidendo in modo irrisorio su ogni transazione finanziaria. Farebbe sentire ai cittadini, più di altro, che uno spazio economico europeo esiste. La vicepresidente del Parlamento Europeo, Roberta Angelilli, ha promosso la questione fino al recente voto positivo dell’Assemblea di Strasburgo ma gli Stati tergiversano decisamente. La Angelilli assicura che per l’Unione Europea significherebbe un introito di 60 miliardi di euro all’anno. E poi aggiunge: anche la Tobin Tax sarebbe Mercato Unico.

Per i servizi c’è la Direttiva del 2006: recepita ma ignorata

A parte i territori che restano intoccabili, per altri ambiti si è faticosamente arrivati, sei anni fa, alla Direttiva 2006/123/CE, che ha mutato il contesto normativo più di qualunque altra. E’ nota come la Direttiva Servizi. Nonostante il formale recepimento da parte degli Stati, risulta troppo spesso dimenticata. Il segretario generale di Euro Chambre, Abruzzini, spiega che basta citare il cosiddetto Sportello Unico, un ufficio pensato per assicurare alle aziende una serie di servizi a livello nazionale e soprattutto europeo. Andando a verificare nelle varie capitali, si scopre che gli sportelli non si trovano in tutti gli Stati e che, dove si trovano, soddisfano richieste solo a livello nazionale. E’ un fatto emblematico.

Passando dai servizi ai prodotti, si legge che i Paesi Ue hanno adottato il principio del riconoscimento reciproco delle norme nazionali. Non si capisce bene che cosa possa significare all’atto pratico. Parlando con imprenditori e avvocati si scopre che l’obiettivo doveva essere il Testo Unico amministrativo al quale non si è mai arrivati. E non si riesce neanche a lanciare il Contratto europeo di vendita per semplificare e sveltire molte procedure.

Per quanto riguarda la libera circolazione delle persone, c’è l’accordo di Schengen sottoscritto da un primo gruppo di Paesi già nel 1985, poi esteso ad altri. A parte altre discussioni in merito all’apertura delle frontiere, non si può dire che risiedere in un altro Stato o intraprendervi determinate attività sia sempre facile. Riconoscimento reciproco e coordinamento delle norme facilita accesso e esercizio di alcune professioni, come medici e ingegneri, ma ad esempio non è mai stata messa a punto l’annunciata  Patente europea per tecnici o artigiani.

Se guardiamo all’Italia, troviamo ritardi fortemente penalizzanti. L’europarlamentare Raffaele Baldassarre afferma che siamo fanalini di coda nell’applicazione di quasi tutte le direttive importanti.

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L’europarlamentare Raffaele Baldassarre.

Basta citare il primato assoluto in negativo nell’applicazione della Direttiva che da anni impone il pagamento da parte delle Pubbliche amministrazioni alle imprese entro 60 giorni dal servizio. In Italia si viaggia tra i 400 giorni e i due o tre anni. L’imprenditrice Flavia di Stefano ci dice che la sua azienda Crony electronics aspetta soldi dal 2007 dalla Regione Lazio.

Paradosso e-commerce: non ha barriere fisiche ma ben riflette le divisioni europee

Per il commercio online parlano i dati. Lo sviluppo raggiunto in ambito nazionale segna  una media di scambi del 27%. Ci sono Paesi che non raggiungono questo livello, come l’Italia, ma che si attestano comunque al 16%. Ma quando si guarda agli scambi commerciali on line transnazionali si scende a non più del 4%. In sostanza il tedesco o il francese compra facilmente in internet prodotti rispettivamente tedeschi o francesi ma non di altri paesi europei. Il paradosso è che l’e-commerce dovrebbe essere di per sé un passpartout che si fa beffa delle tradizionali barriere. Ma basta pensare alla indispensabile firma digitale che resta rigidamente nazionale. Alberto Abruzzini, segretario generale di Euro Chambre, sottolinea che al momento, cioè, la firma digitale certificata in Finlandia non è riconosciuta in Slovenia. I 27 non hanno adottato un codice di firma digitale europea. Per non parlare del fatto che non c’è un meccanismo europeo di risoluzione di eventuali controversie.

A Bruxelles assicurano che la potenzialità di crescita a breve dell’e-commerce in Europa sarebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro nonostante la crisi.

Il Mercato Europeo è più frammentato che mai visto dalla Cina

Mentre si discute di barriere tra Paesi europei, la Cina imperversa nel mercato dell’Antico continente. Non ci sono, dunque, solo le opportunità perse in termini di business per la mancata realizzazione del Mercato Unico Europeo: ci sono anche le pesanti conseguenze nel confronto commerciale mal gestito con la Cina. Marielle De Sarnez è l’europarlamentare francese che ha curato il Rapporto votato dal Parlamento Europeo per chiedere ai capi di Stato e di governo di essere all’altezza del braccio di ferro commerciale con Pechino.

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L’europarlamentare francese Marielle De Sarnez.

Marielle De Sarnez parlando con Famiglia cristiana afferma: «L’Europa è la prima economia e la Cina è la futura prima economia mondiale senza dubbio. Ora il rapporto non è equilibrato. Noi importiamo più di quanto esportiamo e la Cina sta costruendo il suo impero economico sull’esportazione». Le chiediamo qualche esempio concreto della mancata reciprocità e ci cita «le restrizioni per le imprese europee sul mercato pubblico cinese, a partire dalla negazione di accesso agli appalti pubblici, e le barriere commerciali non tariffarie». Poi ci ricorda la questione delle materie prime preziose «sulla quale c’è un contenzioso aperto» e la questione della proprietà intellettuale «che loro non rispettano». E poi la moneta cinese che è «un grande vantaggio per loro».
Pechino sostiene di usare effettivamente il tasso di cambio dello yuan per contrastare l’inflazione ma Usa e Europa parlano di manipolazione consapevole della valuta per ottenere un vantaggio sleale negli scambi con l’estero. Washington e Bruxelles tentano di fare pressione. Un’arma ci sarebbe: la Cina sta tentando di ottenere un posto nel Wto, l’Organizzazione Internazionale del Commercio. Si potrebbe negoziare su più piani. Ma l’indebitamento da parte degli Stati europei con la Cina e la crisi dell’euro certamente in questo momento non aiutano.
La De Sarnez ci dice che «per negoziare bisogna avere forza e prima di tutto non essere naif. La Cina ha una strategia, gli Stati Uniti hanno una strategia – ammette senza mezzi termini – noi manchiamo di una strategia».

Il presidente della FederLazio , Maurizio Flammini, sconsolato sottolinea che al momento solo dall’Italia operano in Cina 22 delegazioni, tra province, regioni, associazioni varie e si chiede come si possa parlare europeo. Il segretario generale di Euro Chambre, Arnaldo Abruzzini, esprime critiche precise. Primo aspetto: spiega che il Commissario europeo delegato a mediare con la Cina «di fatto non ha potere di negoziazione perché prima di ogni decisione deve riportare il tutto al Consiglio dei capi di Stato e di governo che devono di fatto decidere». Il secondo aspetto si intreccia con il primo: «Nel frattempo ogni capo di Stato o di governo si reca in Cina e tenta affari a livello bilaterale, pensando di essere furbo». Abruzzini non ha dubbi: «Questo modo di fare non ha giovato finora a nessuno».

Famiglia Cristiana del 17 Luglio 2012

Chiesa e media, sospetti e fiducia

Don Giuseppe Costa, direttore della Libreria editrice vaticana, racconta in “Giornalismo e religione” 60 anni di storia dei rapporti tra Chiesa e media.

“In tema di rapporti con i media, l’istituzione ecclesiale di colpe, non premeditate ma pur sempre tali, ne ha”. Sono parole di don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana. Si leggono nel volume intitolato Giornalismo e religione, che don Costa firma insieme con gli studiosi di media don Giuseppe Merola e Luca Caruso, edito proprio dalla LEV.

Si tratta di una particolare e preziosa antologia che ripercorre oltre 60 anni di informazione sul fatto religioso e ripropone 152 articoli firmati da 63 giornalisti vaticanisti e non solo, e 19 interviste a professionisti del giornalismo e della comunicazione italiani e stranieri. Uno spaccato di prime pagine che hanno fatto la cronaca, per esempio delle elezioni dei Papi, ma anche riflessioni, opinioni. Cronaca e fede si intrecciano in modo molto critico. Il volume è praticamente concentrato sulla stampa cartacea, con minimi accenni alla rivoluzione dei media elettronici e di Internet, con un saggio sul fotogiornalismo religioso, del fotografoGiovanni Chiaromonte, che offre un flash di riflessione sul valore delle immagini.

Don Costa nel suo saggio in apertura del volume, intitolato Dentro la notiziareligiosa, ripercorre quello che definisce il “non facile genere” dell’informazione religiosa e il “percorso non lineare” da parte della Chiesa. Non è un saggio sul rapporto tra Chiesa e comunicazione ma don Costa offre preziose linee interpretative del percorso, riconoscendo che l’istituzione ecclesiastica è passata “lungo il corso della sua bimillenaria storia da una condanna dei media alla loro esaltazione e, in entrambi i casi, spesso con scarsa acribia”.

Insomma “dal fiero sospetto alla totale fiducia”. Don Costa ricorda episodi di “pesante censura e interferenza” e sottolinea che “in Italia in particolare esiste una sorta di peccato originale, a causa del quale in materia di media si riscontra non di rado un effettivo sospetto tra Chiesa cattolica e mondo laico e viceversa”. Ricorda ragioni storiche di tutto ciò e, con le parole di Giacomo de Antonellis, stigmatizza “anni di disinformazione” tra “fogli di chiara impostazioneanticlericale ma ben anche fogli grondanti uno zelo pedestre”.

Con autorevoli citazioni, indica un punto di svolta: il Concilio Vaticano II. Di fronte agli oltre 1.200 giornalisti interessati, la Chiesa cattolica il 6 ottobre del 1962 creò la vera e propria Sala Stampa, che oggi registra 400 giornalisti accreditati di cui solo 70 di testate cristiane. Dopo i primi momenti di “arroccamento intimorito” di una Chiesa che doveva comunicare gli sviluppi di una riflessione di “aggiornamento”, il Concilio – come scrive Gian Franco Svidercoschi – “obbligò la Chiesa a un generale ripensamento dei tradizionali metodi di approccio con la realtà religiosa”. Il Concilio non solo riprese e sviluppò il dialogo con il mondo contemporaneo ma lo fece facendo i conti con il mondo della comunicazione.

Nel suo saggio, il direttore della Libreria Editrice Vaticana riporta pagine di diario di Henri Fesquet, protagonista dell’informazione di quegli anni: “I giornalisti hanno bisogno di fiducia. Il giornalista deve informare il mondo sulla Chiesa e la Chiesa sul mondo. Egli può e deve aprire la bocca e le orecchie della Chiesa. Egli non deve lasciarsi chiudere né la bocca né leorecchie”. A 50 anni dal Concilio è molto interessante rileggere tutto ciò.

Gli anni post Concilio sono storia del proliferare di testate cattoliche e di sviluppo della figura del “vaticanista”. Don Costa argomenta sostanzialmente mettendo in guardia da alcuni rischi sia il fronte cattolico che il fronte laico. Dell’informazione religiosa prodotta da testate ed emittenti cattoliche dice che “spesso prevale la lode del convento”. Il buon giornalista in una testata cattolica – dice – “non dovrebbe essere né ateo né troppo devoto”. E poi fa una sottolineatura cbe sembrerebbe scontata ma che fa invece molto pensare: “Deve essere un ottimo professionista”.

Sull’altro fronte, cioè quello dell’informazione religiosa assicurata dai media laici, lamenta l’eccessivo sensazionalismo e la riduzione della figura del vaticanista a “uno che segue le mosse del Palazzo e non la vita del popolo della Chiesa e i fatti religiosi in modo adeguato”. Ma per tutto questo tiene a sottolineare che troppo spesso si processa il singolo giornalista che invece oggi generalmente è anche più preparato del passato.

Ma “sono cambiati – spiega – gli equilibri del lavoro per cui oggi una buona firma non ha comunque il peso che aveva all’interno di una testata 30 o 40 anni fa”. Oggi pesano di più le leggi di mercato, imperano il “sensazionalismo”, la “spettacolarizzazione” e la tendenza a una fuorviante “polarizzazione”. Su questo nel volume si offrono riflessioni interessanti. Su tutto lo spunto di Don Costa: “Il ruolo dell’opinione pubblica e quellodel giornalista sono problemi tuttora aperti”.

Non manca nel volume la considerazione dei momenti del papato di BenedettoXVI in cui la comunicazione ha significato le ripercussioni del discorso del Papa a Ratisbona o quelle in conseguenza della dichiarazione in aereo verso l’Africa aproposito di preservativi, o i fatti più recenti di documenti “rubati” che il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha definito dicendo che “anche il Vaticano ha avuto i suoi leaks, le sue fughe di documenti”. In generale dell’informazione religiosa Don Costa dice che “appare un’informazione a soggetto religioso per alcuni aspetti complessa, abbondante e carente al tempo stesso, per altri assente o per lo meno inadeguata alla piena descrizione di certi fatti”.

E nel suo saggio Don Costa riporta le parole di Giancarlo Zizola, da poco scomparso, sulla necessità di “riscoprire e valorizzare effettivamente la funzione civile della libertà cristiana” in un periodo segnato da una “svolta globale e radicale dell’organizzazione dei saperi e dal caos antropologico”. Il buon giornalismo,dunque, dovrebbe difendere la coscienza civile, il senso critico della collettività, riscoprendo i valori della dignità e libertà di pensiero che il Cristianesimo porta con sè. Ma questo dovrebbe farlo quando si occupa di qualunque tema, non solo di religione.

Fausta Speranza

UE: a rischio i fondi per i disabili

Inclusione, scolarizzazione, occupazione: questi sono gli obiettivi della Strategia per la disibilità adottata dalla Commissione Europea. E su cui la crisi proietta l’ombra dei tagli.

Il presidente dell’Europarlamento Schulz, Beatrice “Bebe” Vio e Roberta Angelilli, vicepresidente dell’Europarlamento. Foto di copertina: Reuters.

In Europa 80 milioni di persone vivono con una forma di disabilità, leggera o grave, e troppo spesso non partecipano alla vita sociale ed economica. In tempi di crisi in cui si parla di nuove povertà, non si può dimenticare che il tasso di indigenza delle persone con disabilità era già superiore alla media del 70% prima della crisi.

Sono dati dello European Disability Forum, presentati dal direttore Carlotta Besozzi a Bruxelles. L’Unione Europea e gli Stati membri hanno messo a punto negli ultimi anni strategie e strumenti utili e questo è proprio il momento delle azioni concrete, ma è scoppiata una pericolosa battaglia sui fondi a disposizione. Roberta Angelilli, vicepresidente dell’Europarlamento, denuncia: si stanno studiando «accorpamenti di fondi che dimenticano la voce disabilità». Il Parlamento europeo ha approvato nel 2008 la Strategia sui diritti dei minori disabili indicando obiettivi precisi di inclusione, scolarizzazione, occupazione. Nel 2010 la Commissione Europea ha adottato la Strategia per la disabilità indicando il periodo temporale tra il 2010 e il 2020 per l’attuazione di altrettanto precisi programmi e stanziando risorse. Dunque, per questi programmi i soldi ci sono. Il rischio è che la voce “disabilità” si perda nella riorganizzazione dei fondi che in molti spingono a fare a causa della crisi. La battaglia è in corso.

Per chiedere un migliore utilizzo dei fondi comunitari e maggiore coordinamento delle politiche dei vari Stati membri la European Parliament Alliance for Children ha organizzato con l’Unicef e varie associazioni un incontro, nell’emiciclo, tra il presidente dell’Europarlamento Schulz e la piccola Betrice Vio, conosciuta come Bebe.

Bebe è la promessa della scherma azzurra paraolimpica e sarà tedofora alla Paralimpiadi di Londra. Bebe ha raccontato la sua storia di impegno tra difficoltà e speranza: dalla terapia alle gare al più alto livello. E ha chiesto sostegno per la sua Associazione Art4sport che aiuta i bambini che hanno subito una qualche forma di amputazione attraverso lo sport. «La vita – ha detto Bebe – è una tela meravigliosa e lo sport la colora».

Lo sport è una modalità di sostegno e recupero importantissima. È chiaro a tutti ma Philippe Cori, direttore dell’Unicef di Bruxelles, sottolinea che una persona disabile su due in Europa non ha mai partecipato ad attività ricreative o a uno sport. Peraltro, rimanendo in tema di tempo libero, un terzo di tutte le persone disabili non ha mai fatto un viaggio all’estero o anche partecipato a gite di un giorno, a causa dell’inaccessibilità di strutture e servizi. Anche questa sarebbe inclusione sociale.
La Angelilli avverte: tutto ciò è inaccettabile ma poi spiega che per parlare di inclusione sociale prima di tutto bisogna parlare di scolarizzazione. Attualmente, secondo Bernard Dan, professore alla European Academy of Childhood Disability, nella fascia di età compresa tra i 16 e i 19 anni, il tasso di descolarizzazione di persone diversamente abili è pari al 37%, rispetto al 17% della media di chi non ha problematiche.
La Angelilli non parla mai di disabilità ma di persone diversamente abili e lo spiega: «Noi in Italia abbiamo fatto un passo avanti culturale importantissimo che si riflette proprio in questa espressione che ci aiuta a guardare e valorizzare tutte le abilità che ogni persona può avere a dispetto di altri limiti, piuttosto che fermarci proprio ai limiti».
La Angelilli spiega che non è una conquista solo verbale, visto che in Italia si tende ad assorbire negli istituti scolastici tutti i bambini, anche quelli bisognosi di una qualche forma di sostegno. Non è così dappertutto. In Belgio, per esempio, vige la separazione: i minori diversamente abili hanno istituti per loro. Camille Latimier, dell’Associazione Inclusion Europe, dedicata in particolare alle disabilità intellettive, si chiede come si possano gettare in questo modo le fondamenta dell’inclusione.
Ci sono differenze significative tra i Paesi membri dell’Ue su molti aspetti, a partire dalle risorse messe a disposizione o dalle strutture architettoniche nelle città. Ma vanno ricordati gli importantissimi punti fermi fissati finora proprio a livello comunitario per abbattere barriere ambientali e comportamentali. La teoria è scritta nera su bianco anche se i singoli Stati membri devono poi assorbire e mettere in pratica quanto stabilito a livello comunitario. Innanzitutto con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, diventa vincolante, per i 27 paesi Ue, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che nell’articolo 26 stabilisce che «l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità». L’articolo 21 sancisce inoltre che «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla disabilità». Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, TFUE, prevede che l’Unione debba «combattere la discriminazione fondata sulla disabilità nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni» (articolo 10) e le conferisce il potere di legiferare in materia (articolo 19). Bruxelles, inoltre, ha reso vincolante e ha inglobato nel suo ordinamento giuridico la Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, che però è stata ratificata attualmente da meno di 20 Paesi membri. Ma il punto centrale è che per passare dalle normative alla realtà quotidiana servono i soldi. Il papà di Bebe, promessa della scherma italiana alle prossime Paralimpiadi, dall’emiciclo del Parlamento Europeo ha lanciato il suo appello brevissimo: «Non lasciate sole le famiglie delle persone diversamente abili». Fausta Speranza

23 giugno 2012

La Polonia che ospita gli Europei ha già fatto goal sull’economia

Nell’Europa che vive la crisi economica e che mette perfino in dubbio la durata della moneta unica, c’è un solo Paese che continua a segnare una crescita del 3%: la Polonia. La ricca e forte Germania non va oltre lo 0,9%. Varsavia è entrata nell’Unione Europea nel 2004 con una disoccupazione a oltre il 20% e ora si presenta come una sorta di isola felice nel Vecchio Continente. Gli altri Paesi ex socialisti con la crisi hanno rischiato la bancarotta. Già dall’anno scorso Varsavia avrebbe dovuto adottare l’euro ma gli appassionati che si recano ai Campionati di calcio europei, che la Polonia ospita dall’8 giugno, devono munirsi di zloty. E’ stata ignorata la scadenza e non c’è intenzione di parlarne prima del 2016. L’economista Piotr Kuczynski, consulente della finanziaria Xelion, spiega che la priorità è la competitività. “La Polonia si fa porta di passaggio dei commerci tra l’Europa e la Russia o l’Ucraina e in questo ruolo di ponte economico è decisiva più di altri Paesi importanti”. L’ingresso nell’eurozona in realtà non è un optional: tutti i Paesi membri, con scadenze diverse, sono obbligati a farlo, ma ora tutto è sospeso. E in questo sospeso c’è qualcosa da ripensare.
Nel 2011, anno di continue emergenze per la Grecia ma anche di allarmi per Spagna o Italia, la presidenza di turno UE è stata affidata all’Ungheria, nel primo semestre, e poi alla Polonia, nel secondo. Un anno rappresentato dall’Est europeo, che forse poteva simbolicamente far riflettere di più sugli sviluppi degli equilibri, mentre si è parlato solo del direttorio franco-tedesco. Se Berlino è la locomotiva indiscussa, forse l’Est è una stampella da non trascurare. Molto elegantemente Rafat Trzaskowski, europarlamentare dalla prima delle due legislature a pieno titolo della Polonia, ci invita a rimuovere vecchi schemi: “La gente oggi distingue due o più facce dell’Europa ma la distinzione non è più tra Paesi dell’Ovest e Paesi dell’Est, o tra vecchi Paesi membri e nuovi entrati, piuttosto tra quelli che stanno meglio economicamente e quelli che stanno peggio, per standard di vita, prospettive di lavoro o di investimenti”. Poi, ricorda che la Polonia con i suoi 300.000 Km° conta quasi 40 milioni di abitanti e che compare dunque nel gruppo di sei Paesi più importanti per territorio e popolazione.
A proposito di investimenti, in tempi di resa dei conti sui debiti sovrani e di difficoltà del sistema creditizio e di dibattito tra rigore e crescita, la parola liquidità, pronunciata sempre meno, è la chiave dello stallo europeo. La parola investimenti quasi impronunciabile. Non può sfuggire che per l’anno in corso la Polonia registra un primato in fatto di visite e non sono le prenotazioni delle partite di calcio. Parliamo del fatto che Varsavia è l’unica capitale europea dove ha annunciato una visita entro il 2012 il premier cinese Wen Jiabao. Pechino si prepara a investire in Polonia.

La generazione del cambiamento e i giovani del post comunismo
In una sola generazione si è consumato il passaggio dal comunismo al capitalismo. Al momento del cambiamento, il 55% degli adulti si sono ritrovati senza lavoro. L’economista Kuczynski assicura: “I giovani hanno sostenuto il Paese molto più della classe dirigente”. Incontriamo Kuczynski in un palazzo di periferia moderno e in linea con lo spirito di economia di mercato. L’indipendenza della Polonia dall’Unione Sovietica, dopo decenni di dominazione, è arrivata nel 1989, solo poco più di 20 anni fa. A Varsavia non c’è quasi più segno del grigiore sovietico. Il centro storico, riconosciuto dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità anche se in gran parte frutto di ricostruzione, è smagliante e i palazzi dell’antica nobiltà restaurati richiamano i fasti del XVI secolo quando la Polonia era uno dei più ricchi e potenti Paesi d’Europa, o al XVIII e XIX secolo quando Varsavia era definita la Parigi del Nord. Ma se ci si reca ad esempio al cimitero Powazki, che con quello ebraico della capitale sono tra i più antichi d’Europa, riaffiora la storia molto sofferta del comunismo. Una fioraia e un signore anziano ci ripetono insistentemente: “nie ma komunizm”: il comunismo non c’è più. Con il tono di chi dà una notizia, segno di una sensibilità ancora molto viva. Una distinta commerciante sulla piacevole via Nowi Swiat, caratterizzata da caffè e negozi alla moda, ci racconta le lunghe file che la madre faceva di notte per comprare qualcosa e la gente depressa e triste. E raccomanda il valore della memoria: “I ragazzi oggi non sono interessati ai racconti degli anziani e questo non è bello”.
Andiamo dunque all’Ateneo Uniwèrsytet Warszawki che ha strutture moderne e un bel parco. Parliamo con Kataghina, studentessa di economia. Sottolinea che “il comunismo non tornerà più ma deve migliorare l’atteggiamento della collettività verso i cambiamenti: c’è troppa paura”. Sa che è crisi in Europa e Stati Uniti ma Kataghina punta comunque all’estero convinta che la Polonia non sia Paese di opportunità”. Forse perfino per i giovanissimi la Polonia cambia troppo rapidamente.

Nell’UE dal 2004, la Polonia è stata antieuropeista o quasi leader
Negli otto anni di piena appartenenza all’Unione Europea non è cambiato solo il volto economico della Polonia. Si è passati dal nazionalismo dei gemelli Kaczynski al sostegno di Bruxelles, all’obiettivo di contare di più’. L’esordio effettivamente non è stato dei migliori. Solo un anno dopo l’ingresso, la Polonia ha affidato ai nazionalisti gemelli Kaczynski la leadership del Paese: Jaroslaw premier e Lech presidente. Bruxelles si è ritrovata a fare i conti con il più grande degli ultimi Paesi entrati in posizione decisamente antieuropeista. Poi nel 2007 c’è stata la crisi politica che ha portato al governo il liberale Donald Tusk. I rapporti con Bruxelles, però, risentivano comunque del veto del presidente, che in Polonia è determinante. Ad aprile 2010 c’è stata la tragedia aerea in cui hanno perso la vita Lech Kaczynski e altre 96 persone in viaggio per partecipare alla commemorazione in Russia per le vittime dell’eccidio di Katyn in cui 22 mila soldati polacchi sono stati uccisi durante la Seconda guerra mondiale. L’aereo è precipitato nella Russia occidentale e nello schianto è stata decapitata la leadership del Paese: oltre a Kaczynski e sua moglie Maria, sono morti diversi ministri, il governatore della Banca centrale, il capo di Stato maggiore dell’Esercito. I poteri sono stati assunti dal presidente della Camera, Bronislaw Komorowski, che poi a luglio è stato eletto presidente. da allora il tandem liberale Tusk-Komorowski.
La svolta europeista è innegabile ma a ben guardare Varsavia sollecita Bruxelles su tematiche importanti e scottanti, come la discussa Politica Agricola Comune, che raccoglie oltre il 30% dei fondi dell’Unione. E’ un punto fermo difeso a spada tratta da Parigi. Varsavia chiede efficienza. Il ministro dell’Agricoltura polacca, Marek Sawicki, ci ha gentilmente ricevuto per una dichiarazione precisa e secca: “La Pac è stata creata in una situazione molto diversa. Ora paghiamo una struttura con criteri vecchi e troppa burocrazia. Dobbiamo riformare davvero e non solo fare finta”. A Bruxelles Varsavia lavora passo dopo passo per contribuire a un ripensamento serio della Pac. Chissà fino a quando la Francia potrà permettersi di essere determinante in materia.
Quando la Polonia è entrata in Europa c’era chi gridava al rischio di un’invasione da parte di mano d’opera dall’Est: si è parlato tanto del simbolico “idraulico polacco” che avrebbe tolto lavoro. L’invasione negli anni seguenti all’ingresso non c’è stata, mentre il Paese si è trasformato. Non è stata l’unica situazione in cui mentre ancora Bruxelles discuteva di problematiche già viste il panorama delle emergenze e delle opportunità cambiava.  di Fausta Speranza
Pubblicato il 25 Maggio 2012

Calano i consumi per la crisi ma aumenta il costo del petrolio

Caro energia, la paghiamo due volte.

L’Italia è il Paese europeo con i costi più alti. I cittadini si lamentano e danno la colpa al rincaro del petrolio. Ma i consumi aumentano e le “rinnovabili” sono lontane. E’ crisi non solo in Grecia, Irlanda, Spagna o Italia. Dell’insospettabile Francia, il responsabile dell’Ufficio europeo per l’energia nelle città, Frederic Boyer ci dice: “Nel mio Paese è stato un inverno molto freddo almeno all’inizio e alcune persone quest’anno non sono state in grado di pagare la bolletta del riscaldamento.” La crisi si fa sentire e, infatti, la riduzione dei consumi c’è stata: negli ultimi due mesi si è tagliato il consumo di energia del 10%. Nessuno però si è accorto di aver risparmiato perché, nello stesso periodo, il costo del petrolio è lievitato del 22%. L’energia al momento significa ancora sostanzialmente petrolio. Le energie rinnovabili sono la punta dell’iceberg. L’oro nero è sempre più costoso anche se da tutto l’Occidente cala la domanda. Di solito al calo di richiesta corrisponde calo di prezzo. Ma il punto è che non si deve solo ragionare di Occidente: in altri Paesi è boom di consumi e lo sarà sempre di più. Secondo dati Ocse, in generale la domanda di energia da qui al 2050 nel mondo sarà cresciuta dell’80%, con Paesi che si distinguono, come il Messico per cui la prospettiva è un aumento del 112%. Per non parlare della lanciatissima Cina.

Il petrolio non è inesauribile e soprattutto inquina: è di poche settimane fa la Conferenza intitolata Planet under pressure che ha riunito a Londra 3000 scienziati. L’allarme è ormai condiviso: le conseguenze dell’inquinamento minacciano la salute umana, la sicurezza alimentare e idrica, gli ecosistemi. D’altra parte il clima è un equilibrio energetico tra atmosfera, suolo, oceani, ghiacci e biosfera. Il parametro risulta alterato: il surriscaldamento provocherà sempre più desertificazioni e eventi estremi come uragani.

Uno degli esperti in materia, Sir Bob Watson, cattedratico britannico, ci spiega in poche parole: “Il messaggio è che dobbiamo agire ora. E’ urgente. Abbiamo a che fare con i cambiamenti climatici, la biodiversità, le questioni del cibo, acqua, energia e dunque abbiamo a che fare con la sicurezza per l’uomo”. Watson lamenta che gli esperti lo ripetono da anni: se non si interviene, il costo economico sarà enorme. E afferma: “Non c’è dicotomia tra rispetto dell’ambiente e crescita economica, anzi: mantenere un buon ambiente porta a una buona economia”. Tra i corridoi della Conferenza mondiale a Londra abbiamo ascoltato off the record la cosa che più ci colpisce: tutte le più grandi aziende mondiali studiano sempre di più la location dei loro quartier generali perché per i loro cervelli migliori serve aria buona, non inquinata. Anche questo fa pensare, mentre il mondo parla di Green economy e prepara Kyoto 2: tutti i Paesi devono presentare le linee guida entro il 1 maggio. E si dà appuntamento a giugno per Rio+20, la Conferenza globale sulla salute dell’ambiente a 20 anni dal primo Vertice sulla Terra nella stessa città brasiliana. L’obiettivo è lo stesso da alcuni anni: trovare alternative alle risorse fossili, come carbone e petrolio. Resta da dire che non esiste solo l’Occidente e non esiste neanche soltanto il mondo industrializzato. C’è ancora chi è senza energia elettrica. Jason Anderson del WWF ci ricorda che 1 miliardo e 400 milioni di persone al mondo vive senza energia elettrica e che 1,1 miliardo di persone la ricevono in modo irregolare. Tra tanti programmi, dunque, dovremmo pensare anche strategie per un’equa distribuzione delle risorse. L’Onu sembra provarci: ha dichiarato il 2012 Anno per le energie sostenibili per tutti. Fausta Speranza

15 Maggio 2012