All’ombra dell’odio nazista, luci di umanità e di fede

Nell’incubo delle persecuzioni antisemite, una madre di famiglia ebrea trova la mano tesa di una sconosciuta e di un collaboratore di Pio XII. Dopo oltre 75 anni, i figli dei protagonisti di tanto coraggio e tanta generosità raccontano la “scelta obbligata” dei genitori fedeli al messaggio cristiano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 27 gennaio di 75 anni fa le truppe dell’Armata Rossa entravano nel campo di concentramento di Auschwitz, trovando decine di persone. Erano i sopravvissuti che non erano stati in grado di mettersi in marcia con i soldati tedeschi che, pochi giorni prima, avevano abbandonato il campo trascinando via centinaia di prigionieri e tentando di cancellare le prove del piano messo in atto per lo sterminio degli ebrei. Su iniziativa dell’Onu, dal 2005, il 27 gennaio viene celebrata nel mondo la Giornata della Memoria.

Scampati ad Auschwitz

A scrivere pagine di storia da non dimenticare, c’è anche chi ad Auschwitz era destinato, ma non c’è mai arrivato perché sottratto alla furia nazista dalla generosità di alcune persone. Parliamo della famiglia Terracina – padre, madre e quattro figli – tratta in salvo dalla signora Anita Tana, incontrata per la prima volta solo pochi giorni prima. Tutti sono stati accolti nella sua semplice e piccola casa. Il padre, la madre e il bimbo che lei portava nella pancia sono rimasti dalla signora Tana per oltre un anno. Il bimbo di sei anni, invece, è stato accolto dopo poche settimane dalla famiglia Cencelli, mentre le due ragazzine di sette e di quattro anni sono state poi nascoste nel convento delle Suore Dorotee al Gianicolo. Tutte queste persone si sono esposte al rischio della rappresaglia di fascisti e nazisti che non avrebbe lasciato scampo a chi nascondeva ebrei.

Nei giorni della tragica retata al Ghetto di Roma

La vicenda, che rivive nelle interviste ai testimoni ancora vivi, si è svolta nei giorni intorno al 16 ottobre 1943, passato alla storia per il feroce rastrellamento al ghetto e in altre zone di Roma. Nella retata vennero prese 1259 persone, di cui 1023  furono deportate al campo di sterminio di Auschwitz.  Soltanto 16 di loro sopravvissero, 15 uomini e una donna.

La signora Letizia Terracina, morta alcuni anni fa all’età di 105 anni, ha raccontato di aver bussato inizialmente alla porta di amici per chiedere aiuto, ma di aver trovato muri di paura. Poi, un giorno, incontrando in una macelleria la signora Anita Tana, ha trovato il coraggio di rivolgerle il suo disperato appello per la vita dei suoi figli e del bimbo che aspettava, ormai all’ottavo mese. Forse gli occhi di quella signora originaria di Ferrara avevano tradito lo spessore del cuore: la signora Anita, che oggi quei bambini di allora definiscono “una donna molto buona e molto molto religiosa”, viveva con il marito, gravemente invalido in conseguenza della Prima guerra mondiale, in un appartamento di due stanze. Ha aperto la porta di casa a quella famiglia perseguitata, perché nessuna logica razziale poteva oscurare il messaggio cristiano di fratellanza di cui si era sempre nutrita. In un’intervista rilasciata dalla signora Letizia Terracina nel 1996 alla Fondazione Yad Vashem di Tel Aviv, quando aveva 92 anni, sottolinea un particolare: lasciare il loro letto a quella coppia di disperati, dormendo su un divano fino a quando non sono arrivati gli Alleati a liberare Roma.

I ricordi di chi allora era bambino

Quel bimbo in pancia oggi ha poco più di 75 anni. Si chiama Fernando e ci racconta che la signora Tana, nei suoi ultimi momenti di vita, lo ha voluto accanto a sé.

Fernando Terracina

L’emozione di Fernando Terracina è forte quando racconta di essere stato il più “fortunato” dei fratelli perché “inconsapevole delle atrocità che stavano avvenendo e perché mai separato dalla mamma”. Ma ci  confida anche di aver fatto spesso incubi nel sonno all’età di sei, otto anni, quando ha saputo che suo nonno paterno e alcuni cugini sono morti ad Auschwitz e ha capito qualcosa dell’angoscia e dei rischi vissuti dai suoi familiari. Sogni in cui deve “affannosamente cercare di scappare dai tedeschi”. Sono tanti anche i ricordi delle due sorelle, Milena e Bettina, che raccontano della serenità respirata nel convento e di come “è stato difficile venir via”. Bettina, la più grande, non riesce a parlare di quel passato: a stento racconta dell’inquietudine che avverte ancora oggi se sente sgorgare copiosamente acqua da un rubinetto. La mente torna a un episodio preciso: soldati tedeschi avevano fatto irruzione nella casa della signora Tana che, per coprire le voci delle bambine e del neonato lasciati nella stanza di bagno, ha aperto il rubinetto dell’acqua con la massima potenza. La piccola Milena non ha capito il rischio, ma quella bimba di nove anni, istruita dai genitori, ha provato terrore. Le piccole sono state poi accolte dalle suore che le hanno “confuse” tra le loro ragazze educande di buona famiglia. Tra tante sensazioni, Milena ricorda, con un sorriso, il senso di pace che quelle religiose hanno trasmesso loro.

Milena Terracina

L’impegno della famiglia Cencelli e del Vaticano

A portare le due sorelle dalle suore è stato il signor Armando Cencelli, un dipendente vaticano, che con la moglie Luisa si è preso in casa il maschietto, Leone, che oggi sottolinea di essere stato trattato proprio come un figlio.

Leone Terracina

Il figlio dei Cencelli, Massimiliano, era figlio unico e si è visto arrivare un “fratellino” della sua età dall’oggi al domani, con il quale ha dovuto condividere tutto. Dopo tanti anni ci  racconta, oggi, di aver pianto quando lo ha visto andar via. Ma soprattutto ci  parla, oggi a 75 anni dalla liberazione di Auschwitz, della scelta dei suoi genitori come fosse invece una decisione “normale, scontata per due persone profondamente credenti e toccate dal messaggio di Cristo”. Ribadisce che “il gesto dei genitori si inserisce in uno sforzo notevole di salvare ebrei che in quel momento si faceva in tutto il Vaticano, per volontà di Pio XII.

Massimiliano Cencelli

Massimiliano Cencelli ha speso la sua vita impegnato in ruoli politici e passa alla storia per il cosiddetto Manuale Cencelli con cui ha descritto i meccanismi di spartizione di incarichi e ruoli politici. Di suo padre, collaboratore di Pio XII, ricorda l’estrema semplicità. Ci  racconta di aver spesso ascoltato in casa storie di tanti altri salvataggi di ebrei voluti e messi in atto dallo stesso Pio XII, a partire dalle centinaia di uomini nascosti come guardie palatine o delle donne accolte in palazzi del Vaticano o in conventi. Descrive il Papa di quegli anni bui come un uomo essenziale, che cenava in quei tempi con un bicchiere di latte, e che tradiva con i suoi collaboratori il dolore per quanto accadeva.

Quando parliamo di umanità e di diversità religiose, Massimiliano Cencelli  afferma con decisione che “in ogni caso esiste una sola razza umana, il resto sono invenzioni di potere”. E delle religioni ci dice: “Non possono definirsi tali se non conservano umanità”.

Uno degli attestati di riconoscimento di Israele per la famiglia Cencelli

Resta il dramma dell’odio razziale e dei lager raccontato dal sopravvissuto Primo Levi come “qualcosa che è accaduto e che dunque può accadere di nuovo”. Ma resta anche il gesto d’amore di chi ha accolto in casa sua dei perseguitati, dividendo le poche risorse dei tempi di guerra e mettendo a repentaglio la propria esistenza. Quel gesto ha lasciato un’altra impronta: quella di un moto di umanità e di una profondissima testimonianza di fede.

Nell’incubo delle persecuzioni antisemite, una madre di famiglia ebrea trova la mano tesa di una sconosciuta e di un collaboratore di Pio XII.      Oltre 75 anni, i figli dei protagonisti di tanto coraggio e tanta generosità raccontano con semplicità la “scelta obbligata” dei genitori

da Vatican News del 27 gennaio 2020

L’appello del Papa nella Giornata dei migranti

Nella Giornata mondiale dei diritti dei migranti, l’appello del Papa, in un tweet, per l’accoglienza, la protezione, l’integrazione. Domani giovedì 19 dicembre Francesco incontra i rifugiati arrivati da Lesbo. Se si parla di migranti le situazioni sono tante e diverse. In ogni caso, gli esperti raccomandano uno studio serio e storicizzato del fenomeno. Intervista con la demografa esperta di flussi migratori Laura Terzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Così scrive il Papa nel tweet nella Giornata internazionale per i diritti dei migranti.  Se li mettiamo in pratica – aggiunge il Papa –  contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo.

Dal Papa i migranti di Lesbo arrivati in Italia

All’indomani della Giornata, domani, al termine delle udienze della mattina, il Papa Francesco incontrerà i rifugiati arrivati recentemente da Lesbo con i corridoi umanitari e farà posizionare una croce – nell’accesso al Palazzo Apostolico dal Cortile del Belvedere – in ricordo dei migranti e dei rifugiati.

La difesa del diritto di asilo nelle raccomandazioni dell’Onu

Ieri, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha chiesto di difendere il diritto di asilo che – ha spiegato –   è sotto attacco in un momento in cui tante frontiere e porte vengono chiuse ai rifugiati, perfino bambini. Secondo l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, sono oltre 70 milioni le persone al mondo costrette a fuggire dal proprio Paese. Un numero senza precedenti. Tra le vere emergenze, c’è la tragedia delle detenzioni in campi come quelli in Libia, dove quest’anno sono state riportate circa 9000 persone che avevano tentato la traversata verso l’Europa e dove l’Onu denuncia “condizioni indicibili”. In generale la tendenza non è quella dell’accoglienza. La studiosa Laura Terzera, docente dell’Università Bicocca di Milano:

Ascolta l’intervista con Laura Terzera
R. – È un fenomeno di cui non si può fare una fotografia, ma di cui bisogna conoscere un po’ la storia a seconda del Paese in cui ci si trova. La mobilità può essere studiata molto meglio attualmente attraverso il passato perché, pur avendo una carenza di dati, ne abbiamo di più rispetto al passato.

Sembra anche che il fattore mediatico amplifichi molto questa realtà …

R. – Semplicemente perché oggi sappiamo le cose. Abbiamo una forma di comunicazione che è immediata e che è più accessibile a tutti. Pensiamo semplicemente alla grande migrazione che c’è sta tra l’Ottocento e il Novecento fino alla Prima Guerra Mondiale; se ne veniva a conoscenza soltanto per passaparola. Si alzano molti più muri rispetto a quanti ce ne erano nel passato. Ci sono alcuni dati interessanti che mostrano proprio come l’aumento di frontiere sia dovuto in qualche modo al fatto che ogni territorio sembra avere una bandierina. È più difficile muoversi rispetto al passato.

In parallelo con il fenomeno delle migrazioni, c’è il fenomeno di una conflittualità che – sono dati Onu – cresce in tutto il mondo …

R. – Le conflittualità portano ad una certa tipologia di movimento che è quella forzata, cioè persone che non avrebbero scelto di migrare, ma che lo hanno fatto perché costrette, forzate per la sopravvivenza. Quindi si devono muovere perché c’è una carestia, una catastrofe naturale, una guerra, dei conflitti. E’ ovvio che quelle in qualche modo sono delle emergenze, quindi l’aspetto della mobilità di tipo economico, di tipo famigliare è più gestibile, perché più programmabile. Questa, è ovvio, per sua definizione è improvvisa, è un’emergenza.

Si parla tanto di politiche per alzare muri per chiudere le frontiere. Ma di politiche invece per contrastare quei fenomeno come guerre, carestie che provocano tanta mobilità forzata se ne parla meno. Le pare?

R. – È più facile costruire un muro che non mettersi intorno ad un tavolo con teste diverse, con obiettivi diversi. Interessante per esempio è anche l’opinione pubblica che si crea nei diversi Appesi. Per esempio, l’euro-barometro Eurostat che misura i dati europei, mette a confronto quella che è la percezione della popolazione sulla dimensione della migrazione, quindi della popolazione straniera, con il dato reale. L’Italia è il Paese in cui lo scarto è maggiore, quasi un venti percento in più, cioè si ha la sensazione che ci sia molta più presenza. Ci sono Paesi come la Germania in cui invece la presenza è sicuramente consistente – se non uguale, maggiore dell’Italia – la precisone è molto più ridotta. Quindi sicuramene come viene presentato il fenomeno nel Paese può portare anche a politiche che siano più coerenti con quella che è la realtà, cioè capire esattamente qual ‘è la realtà, secondo me, è il primo passo, non ignorare qual è veramente la realtà. In qualche modo ci si concerta in quello che in quel momento mediaticamente attira insomma.

Da ricordare che in un mondo in cui ogni due secondi una persona è costretta ad abbandonare la propria casa a causa di conflitti o persecuzioni, milioni di persone restano apolidi: viene negata la nazionalità oltre all’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento.

Una giornata di preghiera per la pace in Colombia

Alla scommessa di pace che si vive in Colombia, la Chiesa colombiana ha voluto dedicare la Giornata di preghiera nella festa odierna della Vergine di Guadalupe. A Bogotà, un momento di incontro ufficiale per parlare di riconciliazione e giustizia, nella difficilissima fase di attuazione dell’Accordo di pace raggiunto nel 2016. Intervista con Leonardo Morlino docente di America Latina all’Università Luiss

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Conferenza episcopale colombiana (Cec) invita alla riflessione e alla preghiera “per chiedere la riconciliazione, la pace e l’unione” della nazione. L’iniziativa –  si legge nella nota della Conferenza episcopale – “si svolge nell’ambito della festa di Nostra Signora di Guadalupe, patrona d’America e in sintonia con l’invito del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) ad assumere uno sguardo cristiano e una posizione di semina basata sulla speranza e con i costanti messaggi di Papa Francesco sulla riconciliazione e la pace di tutte le nazioni”. Il momento d’incontro ufficiale, a Bogotà nell’auditorium Regina Apostolorum della sede Cec, viene trasmesso anche per televisione, radio e su web.  Sui social network, gli hashtag: #OremosPorColombia #AméricaLatinaRezaPorLaPaz.

Il cammino verso la pace

A tre anni dall’Accordo di pace tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie colombiane-Esercito del popolo (Farc-Ep), la Colombia vive una fortissima tensione sociale e continue mobilitazioni popolari.  Dal 21 novembre migliaia di persone sono scese in piazza contro il pacchetto di misure economiche  varato dal presidente Iván Duque e non hanno fermato le proteste neanche dopo l’annuncio, giorni fa, di una piattaforma di dialogo sociale denominata   «conversazione nazionale».  Delle sfide che vive la Colombia, abbiamo parlato con Leonardo Morlino, docente di America Latina all’Università Luiss:

R. – La tensione, le dimostrazioni e le proteste che abbiamo oggi in America Latina – dal Cile fino ad Haiti, compresa la Bolivia e altri Paesi – sono il sintomo di fenomeni differenti che non devono essere confusi. Ad esempio, se parliamo di Cile, parliamo di una democrazia tutto sommato consolidata e quindi si tratta di rispondere a proteste che incidono poi sulla vita specifica. Ma il Cile è un Paese democratico. Se parliamo della Colombia, invece parliamo di un Paese che noi definiamo a regime “ibrido”, cioè non ancora completamente democratico, non ancora con gli aspetti essenziali della democrazia ma con problemi piuttosto seri di limitazione delle libertà individuali.  C’è la combinazione di due fattori: da una parte, la novità di tutti gli immigrati che sono arrivando dal Venezuela, ma soprattutto, dall’altra, il fatto che l’accordo con le Farc non sia stato accettato, come si è visto poi dal risultato del referendum, da una buona maggioranza dei colombiani, e quindi il paese si trova in una situazione molto difficile.

Arrivare comunque all’accordo e chiudere decenni di conflitto è stata una scommessa importante di pace…

R. – Importantissima. E non solo, qualche atteggiamento più moderato dovrebbe portare all’accettazione di questo accordo. E’ vero anche che una parte della popolazione ha sofferto troppo in questi anni e non è disposta a perdonare e dimenticare.

C’è anche tanta voglia di pace, di tranquillità…

R. – Non c’è dubbio e questa può essere la leva per giungere a una qualche soluzione, però i problemi ci sono ancora e credo che soprattutto nell’atteggiamento, almeno vedendo alcuni dati di sondaggio, nell’atteggiamento dei cittadini c’è voglia di pace, ma c’è al tempo stesso il ricordo ancora vivo di tutto quello che è successo con la guerriglia.

Quanto ha inciso, nel momento delicatissimo dell’attuazione dell’accordo, lo scossone del Venezuela in crisi?

R. – Esattamente, sì, secondo me, ha inciso a peggiorare un quadro che era già molto incerto e problematico. Sì, indubbiamente ha inciso.

E quanto può incidere la destabilizzazione un po’ in tutta l’America Latina…

R. – Questo di meno, proprio perché, come dicevo, hanno diverse caratterizzazioni e diverse origini.

Se vogliamo cercare di individuare i punti di forza perché il Paese possa avere uno sviluppo positivo, cosa possiamo citare?

R.  – Non è semplice per il coinvolgimento della polizia… In ogni caso, probabilmente il punto di forza è proprio quello che diceva lei: la necessità, la necessità della pace. Cioè la Colombia ormai  ha la necessità che esca dalla sua tradizione di violenza e di guerra interna. Alla fine, psicologicamente si giunge a un punto che non è possibile andare avanti. E’ necessaria la pace. Solo una percezione piena di questo aspetto, sia a livello di élite sia a livello della gente, può dare una svolta.

L’Algeria al voto ma senza l’opposizione

Dopo l’uscita di scena di Bouteflika e mesi di incessanti manifestazioni, è arrivato l’appuntamento con le urne in Algeria. L’opposizione non riconosce nei candidati personalità capaci di vero cambiamento, mentre la società civile resta protagonista di una eccezionalmente pacifica protesta. Intervista con Luciano Ardesi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Giovedì 12 in Algeria si vota per eleggere un nuovo presidente per la prima volta dalle dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, costretto di fatto a lasciare il suo incarico all’inizio di aprile scorso per la pressione di milioni di algerini. Ma il movimento di opposizione, che si chiama Hirak, boigotta il voto ritenendo che i candidati non rispondano alla domanda di vero cambiamento. Abbiamo intervistato Luciano Ardesi, esperto di paesi del Maghreb:

R. – Il movimento Hirak, come si chiama in arabo, contesta le elezioni di domani. Vorrebbe che si tenessero elezioni   solo e soltanto dopo il ricambio del sistema di potere. Quindi chiede che se ne vadano tutto il governo e tutto il parlamento. Vorrebbe le elezioni dopo un rinnovo delle istituzioni attraverso un percorso di transizione, che però non è ancora molto chiaramente disegnato dai manifestanti.

Tra i candidati ci sono ex politici già con altre cariche significative…

R. – Sì, ci sono cinque concorrenti, due ex ministri, due ex primi ministri e altri tre ministri, ex esponenti di precedenti governi. Quindi questo anche ha lasciato perplesso il movimento di protesta perché di fatto, qualunque sarà il vincitore, non ci sarà un vero e proprio ricambio di personalità politiche.

Intanto in tutto questo il ruolo dell’esercito qual è?

R. – L’esercito più che mai è il perno del sistema di potere in Algeria. L’esercito ha preso in mano la situazione, in modo particolare il capo delle forze armate, il generale Gaid Salah che in un primo momento aveva promosso la candidatura del presidente Bouteflika ad un quinto mandato e che poi sotto la pressione del movimento popolare invece ha costretto alle dimissioni lo stesso Bouteflika e poi ha disegnato il percorso che ha condotto, dopo due rinvii, alle elezioni presidenziali. Quello dell’esercito è praticamente un ruolo che si conferma ininterrottamente, fin dall’indipendenza del Paese. Diciamo che la repressione è aumentata nel corso dei mesi; oggi ci sono circa 150 rappresentanti del movimento di protesta che sono in prigione, detenuti con o senza processo e a parte questo c’è stato un tentativo in qualche modo di ripulire il sistema attraverso denunce di scandali, di corruzione … Proprio in queste ultime ore  sono state pronunciate  sentenze di condanna nei confronti di due ex primi ministri, di imprenditori privati e di altri ex ministri, nel tentativo di presentare elezioni presidenziali sotto una nuova veste come una possibilità di rinnovamento del Paese. Questi processi sono sembrati a molti organizzati in tempo opportuno proprio per mascherare invece la repressione sotterranea nei confronti del movimento, che l’esercito continua soprattutto in questi ultimi mesi ad attaccare e a presentare come un nemico del popolo.

In tutto questo le manifestazioni si sono distinte assolutamente per l’impronta pacifica …

R. – È una cosa straordinaria, quella del movimento non violento in Algeria, se pensiamo che si tratta di un Paese che si è liberato dal colonialismo attraverso una lunga lotta armata e che ha subito in un decennio di terrorismo diffuso nel Paese. Forse proprio queste esperienze hanno proprio convinto il movimento ad adottare una non violenza assoluta. Certo c’è preoccupazione nel movimento, il timore che delle provocazioni possano deviare il loro impegno verso strade invece violente.

Sempre più allarmante la situazione nel Sahel

Raddoppia il numero di persone che in 16 Paesi dell’area del Sahel necessitano di assistenza alimentare e aumentano drammaticamente i conflitti e gli sfollati. La conferma dell’escalation di destabilizzazione nel cuore dell’Africa è arrivata dalla Conferenza della Rete di prevenzione delle crisi alimentari (Rpca). Intervista con l’africanista Pier Luigi Serra

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I diversi organismi regionali e multilaterali, fra cui l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocde), che si sono ritrovati ieri per   l’incontro annuale a Parigi, concordano su due dati: il primo è che alla fine di quest’anno il numero di persone bisognose di cibo è arrivato a 9,4 milioni di persone. Il secondo è che, se non interviene nessun cambiamento, da giugno ad agosto 2020, il numero di persone bisognose di aiuti alimentari sarà   superiore a 14,4 milioni.

Il legame tra violenza e fame

Mahalmoudou Hamadoun, che coordina il programma regionale per la sicurezza alimentare nel Comitato interstatale per il controllo della siccità nel Sahel (Cilss), ha sottolineato come i conflitti in aumento nella regione costituiscano “un fattore aggravante dell’insicurezza alimentare” nell’area. I tre paesi più colpiti sono la Nigeria (il fenomeno riguarda 4 milioni di persone), il Niger (1,5 milioni) e il Burkina Faso (1,2 milioni). Si moltiplica di conseguenza anche il numero di sfollati interni, e questo contribuisce a sua volta a rendere precari i mezzi di sussistenza locali quali i mercati. Inoltre, gli operatori locali delle organizzazioni umanitarie denunciano anche casi di disordini tra disperati per l’accaparramento di alcuni aiuti internazionali.

Il ruolo della comunità internazionale

La crisi nel Sahel si protrae da anni tra fattori interni e ingerenze esterne. Per capire alcune dinamiche e responsabilità, abbiamo intervistato Pier Luigi Serra, docente all’Università orientale di Napoli:

R. – Pericoli indotti dall’esterno hanno alimentato tensioni e provocato danni gravissimi per l’intera regione, dal terrorismo che non ha smesso mai di agire, fino alle disgregazioni di forze sensibili ad una modernizzazione del rapporto politico fra interno ed esterno del Sahel.

Parliamo di ostilità intercomunitarie, ruolo dei governi e quindi dei cosiddetti signori della guerra, in alcuni casi, e il ruolo del terrorismo…

R. – Ho la sensazione che ci sia un filo così stretto che si gioca l’uno a sostegno dell’altro.

E che cosa dire degli organismi regionali multilaterali nonché della comunità internazionale?

R. – Non sono coesi su programmi unitari, univoci, assolutamente ineludibili. C’è una inconsistenza che è strutturale dal punto di vista della logica programmata, degli interventi da operare in una forma di consenso non vincolata agli egoismi dei maggiorenti, interni o esterni, ex-coloniali o di nuovo neocolonialismo, sull’area tutta intera considerata.

Nigeria, Niger, Burkina Faso sono tra i Paesi più colpiti dall’emergenza. Però le situazioni sono anche molto differenti: non si può affermare per esempio che la Nigeria sia un Paese povero…

R. – Assolutamente no. E qui scatta un’altra valutazione che è indipendente dalla situazione locale. In ognuno dei Paesi si evidenzia il grande malessere alimentare e scatta il fenomeno cui alludevo: la maldistribuzione del bene. Il bene disponibile in Nigeria è maggiore ma viene finalizzato a rafforzare il potere delle forze dominanti. E’ proprio l’uso improprio delle ricchezze a livello di distribuzione alla gente che diventa strumento di rafforzamento del potere.

Perché in un’Africa che anche se con grandi difficoltà fa passi avanti in tema di economia, il Sahel rimane un deserto?

R. – E’ un’area di compromesso, è stretto tra il vecchio terrorismo, la nuova disgregazione militare che incentiva la situazione disgraziata della Libia, i rigurgiti di difesa dei sistemi politici autoritari a partire dall’Algeria… E’ il grande sommovimento di coscienza che tutta la questione relativa alle prossime elezioni in Algeria alimenta… Il Sahel si trova isolato, si trova come cassa di risonanza degli scontri e degli insuccessi che a fronte di una sperata linea di ammodernamento della condotta politica da parte di chi ne ha responsabilità istituzionale e non in quei Paesi non si verifica.

A fare grandi affari ci sono poi i trafficanti di esseri umani…

R. – Ha toccato un problema gravissimo, pesantissimo, iniquo. Un’area di comodo, il Sahel, che investe un’area vastissima che parte dalle coste mediterranee libiche, da Zuara dalle isole Kerkenna e si spinge fin giù alla cosiddetta “linea del sale” per commerciare esseri umani ancora vivi e farli schiavi, o, morti, per commerciare organi umani.

Crisi venezuelana e organismi internazionali

Si intensifica il dialogo tra diversi Paesi delle Americhe sulla crisi in Venezuela. Tra i diversi ambiti di discussione, c’è il Trattato interamericano di assistenza reciproca (Tiar) che ospita tra gli altri anche il rappresentante degli Stati Uniti. Una presenza e un dibattito fortemente contestati da Maduro. Intervista con Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Condanna e pressioni sul presidente del Venezuela, Nicolàs Maduro: i Paesi membri del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar), riuniti ieri a Bogotà, a livello dei ministri degli esteri,  hanno stabilito sanzioni finanziarie e restrizioni di viaggio per una serie iniziale di “persone associate” al governo di Caracas. I delegati  hanno anche rinnovato l’appello  ai “rappresentanti permanenti” presso l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) affinché continuino a seguire la situazione di crisi sociale, politica ed economica  del Venezuela assicurando “raccomandazioni”.

Diversi i tavoli di confronto regionali

Il Presidente eletto dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha reso noto  che il suo governo, che si insedierà in marzo 2020, abbandonerà il Meccanismo di Montevideo, messo a punto a febbraio con il Messico per contribuire alla soluzione della crisi in Venezuela.  Come tavolo di discussione della crisi venezuelana c’è anche il Gruppo di Lima, che riunisce periodicamente diversi Paesi dell’area più il Canada.  A Lima non partecipano gli Stati Uniti che invece fanno parte in queste ore del dibattito nella capitale della Colombia, tra rappresentanti di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago, e un delegato dell’opposizione venezuelana.

Il ruolo dell’Osa

Al di là dei diversi organismi, potrebbe giocare un ruolo importante l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Per capire il margine possibile di interventi, abbiamo intervistato Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Ascolta l’intervista con Francesco Cherubini

R. – Probabilmente serviranno degli interventi un po’ più incisivi rispetto a quelli iniziali con i quali si approccia normalmente un’organizzazione internazionale come l’Osa.

Può fare alcuni esempi, professore?

R. – Già che si muovano i meccanismi più soft che sono legati al rispetto sia della Convenzione americana di diritti dell’uomo sia alla Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo – sono due strumenti diversi che ruotano attorno alla commissione dell’Osa – già sarebbe un passo più importante, più rumoroso, per così dire nei confronti di questi Stati. Arrivo a dire anche l’espulsione che è prevista nello Statuto ma che – questa è la preoccupazione delle organizzazioni in questo caso – potrebbe  addirittura contribuire a estremizzare di più la situazione. Lo Stato messo all’angolo, o addirittura espulso, a questo punto si sente di avere le mani più libere di quanto non le aveva in precedenza. Quindi le organizzazioni si muovono sempre su un territorio delicatissimo, perché un’azione blanda probabilmente sarebbe percepita dallo Stato, o dagli Stati in questione, come qualcosa alla quale si può tranquillamente non dare seguito. Però un’azione più incisiva potrebbe avere un effetto peggiorativo della situazione. Quindi è sempre molto difficile; è un equilibrio sempre molto delicato. Escludo possano essere messi in moto meccanismi proprio ad hoc, quelli pensati a questo scopo che sono appunto la Commissione e la Corte dell’Osa. In genere, in questi casi c’è un’opera diplomatica che viene svolta dall’organizzazione internazionale per riportare gli Stati in questione a più miti consigli ed è auspicabile che questo avvenga nell’organizzazione regionale che è più vicina agli Stati problematici. Non è detto, non è escluso, che si possano mettere in moto anche i meccanismi generali che sono quelli che trovano posto nelle Nazioni Unite. Lì la massima autorità – quella che detiene anche i poteri più penetranti anche in relazione ormai da tempo alla difesa dei diritti umani – è il Consiglio di sicurezza, però è sempre vero che di fronte a questi eventi, le dinamiche politiche, diplomatiche all’interno delle organizzazioni sono sempre molto delicate. Quindi non è detto che di fronte a tutto ciò la risposta delle organizzazioni sia quella che ci si attenderebbe. Potrebbe essere magari una risposta più flessibile all’inizio che poi diventa più rigida, senza utilizzare strumenti che pure avrebbe a disposizione e che comportano, come dicevo, fino all’espulsione dello Stato in questione. Nell’Osa questo vale anche per altro. Più facilmente si possono immaginare trattative di carattere negoziale, diplomatico volte a riportare a più miti consigli gli Stati in questione.

In America Latina si protesta contro il carovita, ma soprattutto contro la corruzione e le diseguaglianze. Ci si può aspettare un’azione più strutturale da parte dell’Osa su questi temi?
R. – Non credo. Secondo me, è ancora predominante, almeno in determinate aree, l’efficacia dell’azione di alcuni Stati verso altri Stati. Certo qui l’estensione è notevole, quindi non è escluso che possano esserci interventi diversi dell’Osa, per esempio, o come dicevo in precedenza, delle Nazioni Unite. Non è episodico e non riguarda soltanto uno Stato. Quindi è certamente possibile, però anche l’Osa si deve muovere su un terreno non strettamente legato ai meccanismi di controllo perché questi sono una cosa diversa; tra l’altro sono stati pensati più probabilmente per le violazioni individuali che non per quelle sistemiche, anche se non è escluso possano riguardare anche queste.

Nuove sanzioni al Venezuela mentre la popolazione è allo stremo

I Paesi del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar) impongono nuove sanzioni a Nicolás Maduro in Venezuela, mentre respingono le recenti accuse rivolte contro il presidente del Parlamento venezuelano, Juan Guaidó, accusato di malversazione dei fondi ricevuti per gli aiuti umanitari. Intanto la popolazione è allo stremo. Intervista con Luciano Bozzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nuova stretta dei Paesi latinoamericani contro il regime di Nicolás Maduro in Venezuela. I membri del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar), cioè Panama, Colombia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile e Perù, hanno deciso  nuove sanzioni finanziarie e nuove restrizioni di viaggio contro “persone associate” al governo di Maduro, seguendo l’iniziativa intrapresa tempo fa dall’amministrazione di Donald Trump. La misura ha trovato la resistenza del governo di Panama, che si è astenuto durante il voto. Non sono stati ancora forniti i nomi dei 29 funzionari e famigliari del regime che saranno colpiti da queste sanzioni.

Cadute le accuse a Guaidó

Il Tiar ha anche respinto le recenti accuse rivolte contro il presidente del Parlamento venezuelano, Juan Guaidó, accusato di malversazione dei fondi ricevuti per gli aiuti umanitari. Queste denunce hanno fatto crollare la popolarità di Guaidó, dal 63 per cento al 42 per cento, secondo il sondaggio di Datanalisis, a poco meno di un anno dalla ribellione del 23 gennaio contro il potere di Maduro. Durante la riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi del Tiar, si è disposto che nei riguardi di queste persone (legate a Maduro) “l’attivazione dei meccanismi di cooperazione e delle procedure necessarie, in sintonia con le legislazioni nazionali e i meccanismi esistenti di cooperazione in materia d’intelligence finanziaria”. Intanto la popolazione è allo stremo mentre è stallo sul piano politico, come conferma  Luciano Bozzo, docente di Studi strategici all’Università di Firenze:

Ascolta l’intervista con Luciano Bozzo

R. – Il Venezuela ha cercato di bypassare, anche recentemente, quelle sanzioni e questi limiti, in particolare utilizzando dei conti che ha aperto nella Repubblica popolare cinese con la quale più di 10 anni fa è stato stabilito un accordo per cui il petrolio veniva venduto ai cinesi e quindi acquistato in valuta cinese rimasta poi in questi conti nella Repubblica popolare. Ma la Cina sembra molto prudente sul punto e soprattutto non sembrano entusiaste quelle aziende, quelle ditte che dovrebbero essere pagate in valuta cinese. Se questa situazione economica dovesse peggiorare, diventerebbe preoccupante anche per gli Stati latinoamericani, in particolare quelli vicini.

Che dire del braccio di ferro politico in atto tra Maduro e Guaidó?

R. – Ci si trova adesso in una situazione veramente di stallo, in cui lo stesso Juan Guaidó non ha la forza per provocare un collasso del regime di Maduro con una sollevazione popolare generalizzata. Non credo che questa situazione sia destinata a mutare nel brevissimo termine, anche se sia da parte degli Stati Uniti sia da parte di alcuni portavoce dell’opposizione venezuelana si è dichiarato a più riprese che il Paese è veramente sull’orlo di un profondo cambiamento, di un collasso, di un sollevamento di natura rivoluzionaria – evidentemente – e questo potrebbe avvenire in qualsiasi momento: e questa, tra l’altro, è la speranza dell’attuale amministrazione americana, che tutto vuole meno che impegnarsi militarmente in Venezuela.

Intanto la popolazione è allo stremo …

R. – E’ davvero una popolazione allo stremo: penso che molti venezuelani abbiano davvero perso la speranza. D’altra parte, è anche vero – e non possiamo dimenticarlo – che comunque il regime gode ancora di sostegno – non so quanto diffuso a livello popolare – ma certamente branche importanti dello Stato, a comunicare dalle forze armate, di sicurezza, i servizi eccetera, sostengono Maduro, anche per timore di quelle che potrebbero essere le conseguenze a loro carico di un improvviso crollo del regime. E affianco di queste istituzioni e strutture pubbliche, evidentemente c’è anche una parte della società venezuelana che ha creduto in Maduro, che ha creduto nel sogno neo-bolivariano, che non si identifica con le altre classi sociali, in particolare media, alta borghesia, borghesia cittadina eccetera, che invece chiaramente sono schierate a favore di Juan Guaidó, quindi del cartello delle opposizioni.

 E’ una storia che poteva essere in qualche modo prevista?

R. – Indubbiamente, la crisi venezuelana si trascina da diversi anni, ormai – ormai è un decennio che il Paese in una maniera o nell’altra si trova in una situazione difficile: difficile da un punto di vista politico ma anche, appunto, con quei risvolti sociali ed economici di cui abbiamo parlato. Sicuramente era prevedibile uno o due anni fa, perché non c’erano i segnali per una rapida e pacifica risoluzione del conflitto politico interno. Che cosa poi però si dovesse fare per cercare di evitare quello che sta accadendo è difficile a dirsi perché, ripeto, soprattutto fino a non molto tempo fa il regime comunque godeva di un sostegno popolare.

Diversi i tavoli di confronto regionali

Il Presidente eletto dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha reso noto  che il suo governo, che si insedierà in marzo 2020, abbandonerà il Meccanismo di Montevideo, messo a punto a febbraio con il Messico per contribuire alla soluzione della crisi in Venezuela.  Come tavolo di discussione della crisi venezuelana c’è anche il Gruppo di Lima, che riunisce periodicamente diversi Paesi dell’area più il Canada.  A Lima non partecipano gli Stati Uniti che invece fanno parte in queste ore del dibattito nella capitale della Colombia, tra rappresentanti di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago, e un delegato dell’opposizione venezuelana.

Il ruolo dell’Osa

Con il documento del Tiar si chiede ai rappresentanti permanenti dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) di continuare a seguire la crisi venezuelana per formulare nuove raccomandazioni. Perché la situazione in cui si trova il Venezuela – si legge nel testo – non è indifferente ai Paesi della regione perché “rappresenta una minaccia per il mantenimento della pace e della sicurezza nel continente”.  Per capire il margine possibile di interventi, abbiamo intervistato Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Ascolta l’intervista con Francesco Cherubini

R. – Probabilmente serviranno degli interventi un po’ più incisivi rispetto a quelli iniziali con i quali si approccia normalmente un’organizzazione internazionale come l’Osa.

Può fare alcuni esempi, professore?

R. – Già che si muovano i meccanismi più soft che sono legati al rispetto sia della Convenzione americana di diritti dell’uomo sia alla Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo – sono due strumenti diversi che ruotano attorno alla commissione dell’Osa – già sarebbe un passo più importante, più rumoroso, per così dire nei confronti di questi Stati. Arrivo a dire anche l’espulsione che è prevista nello Statuto ma che – questa è la preoccupazione delle organizzazioni in questo caso – potrebbe  addirittura contribuire a estremizzare di più la situazione. Lo Stato messo all’angolo, o addirittura espulso, a questo punto si sente di avere le mani più libere di quanto non le aveva in precedenza. Quindi le organizzazioni si muovono sempre su un territorio delicatissimo, perché un’azione blanda probabilmente sarebbe percepita dallo Stato, o dagli Stati in questione, come qualcosa alla quale si può tranquillamente non dare seguito. Però un’azione più incisiva potrebbe avere un effetto peggiorativo della situazione. Quindi è sempre molto difficile; è un equilibrio sempre molto delicato. Escludo possano essere messi in moto meccanismi proprio ad hoc, quelli pensati a questo scopo che sono appunto la Commissione e la Corte dell’Osa. In genere, in questi casi c’è un’opera diplomatica che viene svolta dall’organizzazione internazionale per riportare gli Stati in questione a più miti consigli ed è auspicabile che questo avvenga nell’organizzazione regionale che è più vicina agli Stati problematici. Non è detto, non è escluso, che si possano mettere in moto anche i meccanismi generali che sono quelli che trovano posto nelle Nazioni Unite. Lì la massima autorità – quella che detiene anche i poteri più penetranti anche in relazione ormai da tempo alla difesa dei diritti umani – è il Consiglio di sicurezza, però è sempre vero che di fronte a questi eventi, le dinamiche politiche, diplomatiche all’interno delle organizzazioni sono sempre molto delicate. Quindi non è detto che di fronte a tutto ciò la risposta delle organizzazioni sia quella che ci si attenderebbe. Potrebbe essere magari una risposta più flessibile all’inizio che poi diventa più rigida, senza utilizzare strumenti che pure avrebbe a disposizione e che comportano, come dicevo, fino all’espulsione dello Stato in questione. Nell’Osa questo vale anche per altro. Più facilmente si possono immaginare trattative di carattere negoziale, diplomatico volte a riportare a più miti consigli gli Stati in questione.

In America Latina si protesta contro il carovita, ma soprattutto contro la corruzione e le diseguaglianze. Ci si può aspettare un’azione più strutturale da parte dell’Osa su questi temi?
R. – Non credo. Secondo me, è ancora predominante, almeno in determinate aree, l’efficacia dell’azione di alcuni Stati verso altri Stati. Certo qui l’estensione è notevole, quindi non è escluso che possano esserci interventi diversi dell’Osa, per esempio, o come dicevo in precedenza, delle Nazioni Unite. Non è episodico e non riguarda soltanto uno Stato. Quindi è certamente possibile, però anche l’Osa si deve muovere su un terreno non strettamente legato ai meccanismi di controllo perché questi sono una cosa diversa; tra l’altro sono stati pensati più probabilmente per le violazioni individuali che non per quelle sistemiche, anche se non è escluso possano riguardare anche queste.

Fino ad ora ci sono state raccomandazioni dell’Osa al Cile e alla Bolivia, oltre che al Venezuela, per il rispetto dei diritti umani dei manifestanti. Hanno trovato terreno fertile?

R. – Non mi pare. I fatti smentiscono un po’ quello che era l’indirizzo dato per l’appunto a questi Stati. Mi pare che sia abbastanza quotidiana la violazione dei diritti – dei vari diritti – dei manifestanti, dei cittadini che scendono in piazza.

Questione migrazioni in America Latina alla luce delle proteste

Dal Venezuela al Perù, dalla Colombia al Cile: sono diversi i percorsi dei flussi migratori in America Latina e cresce la preoccupazione per le condizioni di rifugiati e sfollati nella fase attuale di continua esplosione di manifestazioni e disordini in vari paesi di questa area del mondo. Intervista con Alfonso Giordano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Viene definita la Ruta andina: è la rotta migratoria che venezuelani e colombiani seguono fino ad arrivare in Perù, Cile e Argentina. Insieme con le carovane di migliaia di persone che da ottobre 2018 abbiamo visto partire dal Centro America verso il Messico, per raggiungere gli Stati Uniti – salvo impattare con l’irrigidimento della frontiera – fotografano il fenomeno delle migrazioni in America Latina. In questa fase caratterizzata dall’esplodere di proteste e rivendicazioni in un paese dopo l’altro in questa area del mondo, c’è da chiedersi quali conseguenze ci siano o si possano immaginare. Abbiamo intervistato Alfonso Giordano, docente di geopolitica e flussi migratori all’Università Luiss:

R. – Bisogna dire che l’America Latina è sempre stata un luogo di immigrazione.  Diciamo che questo è accaduto più che altro alla fine del Novecento, inizio anni Duemila.  Da qualche anno però è diventata un posto di emigrazione. Solo che fino a qualche anno fa c’erano alcune mete che garantivano una certa circolarità di queste migrazioni in altri Paesi Latinoamericani e negli Stati Uniti e per quanto riguarda l’ex madre patria, in Spagna in particolare. Ora l’Europa per i latinoamericani non è più tra le mete preferite; gli Stati Uniti hanno un po’ serrato i cancelli e naturalmente i flussi migratori si sono rivolti verso altri Paesi Latinoamericani, in particolare il Brasile, l’Argentina e il Cile che però, a loro volta, hanno anche altre problematiche interne dovute anche a politiche degli ultimi anni che non hanno portato ottimi risultati. Circa il cinque percento dei 650 milioni di abitanti – quindi una trentina di milioni di persone – sono emigrate in altri posti rispetto al Paese natale. È un numero grande se si tiene conto che la media al mondo è del tre percento e che soprattutto, ad esempio, dall’Africa sono partite ugualmente una trentina di milioni di persone ma in Africa vivono circa un miliardo di persone. In America Latina siamo a 650 milioni. Quindi diciamo che la migrazione è aumentata negli ultimi dieci anni di circa il 40 percento.

Ci definisce i flussi principali?

Abbiamo tre flussi principali. Il primo flusso è quello all’interno dello stesso continente, una specie di mobilità circolare. Il Cile ad esempio è una delle mete preferite, anche se il Cile stesso sta avendo problemi interni. Poi c’è un altro flusso che riguarda il Centro America, Paesi come Honduras, Salvador, Guatemala, che hanno in realtà situazioni di estrema violenza, per cui queste sono persone che più che da condizioni di povertà o di crisi economica scappano da condizioni di violenza. Il terzo tipo di flusso riguarda un solo Paese in particolare che è il Venezuela, che ultimante ha registrato veramente un’impennata di migrazioni. Si calcola che ci siano almeno quattro- cinque milioni di persone che sono uscite da Paese. D’altra parte, più o meno il 90 percento della popolazione si trova in condizioni di povertà o comunque di insicurezza alimentare. Quindi, questo significa che c’è una polveriera ancora nel Paese malgrado la fuoriuscita di oltre quattro milioni di persone che in genere hanno trovato rifugio in Colombia, in Messico o negli Stati Uniti. In realtà la questione è ancora aperta. In ogni caso, i flussi come dicevo sono tre: circolare, all’interno che rientra un po’ nella normalità di quell’area geografica, cioè attrazione verso Paesi che stanno un po’ meglio, che sono più ricchi; un altro flusso che riguarda situazioni di violenza dal Centro America e il flusso, quello venezuelano, per le note vicende, come il calo del petrolio con la crisi economica e politiche economiche sbagliate dagli ultimi governi che hanno ridotto la popolazione in condizioni di povertà e insicurezza alimentare.

R. – Certo. Questo, per esempio, è ciò che sta accadendo in Venezuela, perché alcuni migranti si sono rivolti in un primo momento verso la Colombia e il Perù; altri adesso stanno transitando verso il Messico. Ma la cosa paradossale è che si scappa spesso da condizioni problematiche dove ci sono anche questioni di narcotraffico per arrivare in altri posti dove la situazione non è certo migliore. Insomma, c’è la differenza anche legata a quello che accade nel Mediterraneo dove tutto sommato chi riesce arriva in Europa. Lì invece con la chiusura anche di Trump alla migrazione – una specie di serrate le armi, i portoni – molta gente si trova a ricircolare in situazioni che non sono tra le migliori. Quindi un cambiamento di percorsi c’è e riguarda soprattutto la parte Nord del Sud America verso il Centro America, quindi Caraibi e Messico.

Ha citato il Messico, un Paese già in affanno per la questione migrazione, stretto tra il Centro America e gli Stati Uniti. Dobbiamo immaginare che si moltiplicheranno i problemi per il Paese?

R. – È probabile. Il Messico ha vissuto negli anni scorsi un momento di prosperità economica che in un certo senso ha un po’ frenato le migrazioni messicane verso gli Stati Uniti e lo stesso Messico era diventato un po’ un Paese di passaggio, un po’ quella che è la funzione dell’Italia nel Mediterraneo. In realtà, le condizioni economiche stanno nuovamente peggiorando e soprattutto l’essersi trovato tra la chiusura a Nord con gli Stati Uniti e questi flussi che gli arrivano dal Sud aggrava naturalmente la condizione messicana.

L’Ecuador tra tensione sociale latente e una legge finanziaria da votare

Dopo i difficili giorni di ottobre e la bocciatura nei giorni scorsi della finanziaria, l’Ecuador vive una fase di attesa per i prossimi sviluppi che potrebbero significare elezioni anticipate. La tensione sociale sfociata in 12 difficili giorni di sciopero generale è viva come sono vive le rivendicazioni di maggiore equità sociale. Intervista a Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il fattore scatenante delle proteste in Ecuador è stato l’annuncio da parte del presidente Lenin Moreno, il primo ottobre scorso, delle nuove misure volute per dare una spinta all’economia. In realtà hanno scatenato  12 giorni di sciopero generale e di disordini, con epicentri  a Quito e Guayaquil.  Al centro della contestazione, l’aumento del costo del carburante e in particolare del diesel e della benzina “extra”, la più utilizzata nel Paese. L’aumento era dovuto all’eliminazione dei sussidi statali al prezzo del combustibile, misura in vigore dagli anni Settanta.  Il bilancio degli avvenimenti, riasunti nell’espressione gasolinazo, è stato disastroso: otto morti, circa 1.300 feritipiù di mille arresti e milioni di dollari di perdita economica e danni. Un accordo per la fine delle manifestazioni di piazza è arrivato nella notte del 13 ottobre. Poi, domenica 17 novembre, il governo dell’Ecuador ha provato a far approvare un’altra legge economica che però non è stata approvata in Parlamento, bensí negata e archiviata. Una sconfitta importante che non può restare senza conseguenze. L’appuntamento con le elezioni è fissato al 2021, ma si profila l’ipotesi  del voto anticipato.  Ne abbiamo parlato con Paolo Valvo, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

Ascolta l’intervista con Paolo Valvo

R. – Questo è uno degli scenari che viene ritenuto più probabile. Il governo di Lenin Moreno si trova in una situazione difficile. Ricordiamo che le proteste, soprattutto quelle particolarmente violente del mese di ottobre, che hanno messo a ferro e fuoco l’Ecuador, nascono dalla decisione del governo di togliere alcuni sussidi statali al prezzo del combustibile che erano in vigore dagli Anni 70. Quindi, da 40 anni sostanzialmente la benzina veniva acquistata a prezzo agevolato. Questi sussidi, gradualmente hanno iniziato ad essere tolti dal 2015 – quindi già con il governo di Rafael Correa – e progressivamente per alcune categorie di benzine e di utenti, per cui c’era una discriminazione tra utenti privati ed imprese. A ottobre il progetto era quello di togliere tutti i sussidi a tutti i tipi di benzina, anche alla benzina “extra”, quella più usata nel Paese, per un motivo molto semplice: l’Ecuador a fronte di un debito pubblico oramai insostenibile e a un rallentamento molto grave dell’economia, a partire dalla fine del 2017, è dovuto ricorrere al Fondo Monetario Internazionale per aver dei prestiti, che ha ottenuto per un ammontare di oltre dieci miliardi di dollari. Il prezzo da pagare però, come sempre succede in questi casi, è la politica di austerità. Ora il governo si trova in una posizione molto delicata, perché all’interno ha un’opposizione che sicuramente si alimenta anche della tradizionale dialettica politica – tra i protagonisti della protesta, non a caso, c’è proprio l’ex presidente Rafael Correa che con il suo movimento “Révolution Ciudadana” ha animato molto le proteste di questi giorni – però, abbiamo anche l’emergere di una protesta a forte connotazione indigena. E   questo è un dato fondamentale che lega l’Ecuador ad altri Paesi, come ad esempio il Perù. C’è questa organizzazione, la “Conaie”, che letteralmente è la sigla che sta per Confederazione delle Popolazioni Indigene dell’Ecuador, che è stata uno dei leader di questa protesta e protagonista del negoziato che a metà ottobre ha permesso di interrompere le proteste e di ottenere da parte di Lenin Moreno un passo indietro rispetto a questa misura prevista.

In Ecuador c’è una fortissima componente indigena, anche se il tema della povertà è trasversale…

R. – C’è una protesta trasversale. Dire che c’è uno spiccato protagonismo indigeno non significa che questi siano i soli a protestare. Chiaramente il taglio dei sussidi alla benzina ha colpito molte categorie; sicuramente gli indigeni, ma anche i lavoratori agricoli, i sindacati dei trasporti, ci sono stati anche molto studenti. Poi, chiaramente queste proteste danno anche il “la” ad una contestazione nei confronti del sistema generale. Quindi come si diceva prima, ci sono micce, ci sono singoli episodi sicuramente molto gravi in sé, che però in qualche modo danno la stura ad un malcontento diffuso, che   affonda le proprie radici in dinamiche socio-economiche di più lungo periodo, di più ampia portata.

Poi, appunto, il lato che è stato rilevato da molti, è che questa protesta in Ecuador, ha visto, in una maniera mai vista rispetto a prima, questo protagonismo da parte delle organizzazioni indigene, che hanno mostrato una capacità inaspettata anche di organizzarsi e quindi di essere in qualche modo alla guida di questo processo. Ora la posizione del governo è estremante fragile, perché chiaramente il tema delle politiche di austerità rimane; è venuta meno la questione dei sussidi, ma in qualche modo, da qualche altra parte bisognerà tagliare. L’aumento dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto al dieci percento che era stata originariamente prevista, attualmente sembra impensabile, perché farebbe ripartire automaticamente lo stesso tipo di protesta. Allo stesso tempo però qualsiasi passo, qualsiasi negoziato tra il governo e le grandi organizzazioni internazionali rischia di essere letto da parte di un’opposizione così trasversale, ma anche così radicata come una sorta di tradimento. Quindi la prospettiva di elezione anticipata a questo punto potrebbe essere uno scenario altamente probabile.

Proteste a Bogotà anche dopo l’annuncio di riforme di Duque

Il messaggio di critica al governo resta vivo in Colombia anche se il presidente ha annunciato un piano di dialogo nazionale con i governatori locali. I movimenti di piazza trasversali alla società non si sentono rappresentati dalle istituzioni politiche. E’ quello che accade anche in Honduras. Intervista con Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non si fermano le manifestazioni di protesta dopo che il Presidente colombiano Iván Duque Márquez ha promesso ieri un processo di riforme, avviando ufficialmente a Bogotà il “dialogo Sociale nazionale”. Da giovedì centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il Paese contro il governo. Duque ha spiegato che il primo turno del dialogo passerà attraverso i governatori regionali appena eletti, quindi sarà la volta degli imprenditori e dei sindacati. Per capire se le dichiarazioni del Presidente vengono incontro alle richieste dei manifestanti, abbiamo intervistato Paolo Valvo, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

R. – Sicuramente, l’annuncio del presidente colombiano Duque di avviare questo tavolo di consultazione un po’ a tutti i livelli della società e della politica, nazionale e locale, sembra un segnale incoraggiante in quella direzione. Va però tenuto conto del fatto che   già alcuni hanno fatto notare al presidente che i protagonisti delle proteste, che hanno messo a ferro e fuoco la Colombia negli ultimi cinque giorni, potrebbero sentirsi non rappresentati. E’ chiaro che la consultazione, come annunciato da Duque, dovrebbe coinvolgere soprattutto i governatori locali un po’ a tutti i livelli ma questo significa comunque che ancora una volta si parla al livello delle istituzioni politiche, legittimate dal punto di vista democratico ma pur sempre istituzioni politiche. Questi movimenti di piazza sono movimenti non totalmente riconducibili al dibattito politico, sono trasversali alla società e potrebbero non sentirsi rappresentati. Quindi, questo è un campanello d’allarme ed è sicuramente un segnale che da parte del governo si capisce la necessità di dover fare qualche passo concreto, ma potrebbe non essere considerato sufficiente.

La piazza chiede misure economiche nell’immediato: è così?

R. – Certamente. Rientra nell’ambito delle agitazioni popolari che, come sappiamo, stanno interessando quasi in simultanea la maggior parte dei Paesi dell’America Latina.

L’altro aspetto è quello contro la corruzione. Il malcontento è aumentato con i leader politici accusati di esercitare la regola del partito unico dal colpo di stato del 2009 e di essere collusi con la criminalità organizzata. Il presidente apre un dialogo politico essenziale, importante, fondamentale, ma è la risposta alla domanda di giustizia contro la corruzione che è emersa dalla piazza?

R. – Non credo. Se la risposta alla corruzione politica viene dalla politica in modo ancora autoreferenziale, per quanto – ripeto – coinvolgendo diversi livelli di governo, potrebbe rappresentare agli occhi di molti una contraddizione in termini. E’ una contestazione contro il sistema, è una contestazione molto radicale …

Guardando ad altri Paesi che sono stati invece al centro della cronaca settimane fa, per esempio, parliamo di Honduras: lì lo scontro politico risale al colpo di Stato del 2009, non c’è mai stata fino ad oggi una svolta. Crimine violento, povertà sono un po’ parole d’ordine di tutta l’America Latina e in particolare dell’Honduras…

R. – Esattamente. L’Honduras è uno dei Paesi, tra l’altro, che negli ultimi anni è stato in una classifica piuttosto spiacevole: è il terzo Paese latinoamericano in termini di violenza letale, quindi come tasso di omicidi segue solo il Venezuela ed il Salvador. Anche qui ci sono delle micce che vengono accese da episodi politici delle ultime settimane. L’ultimo elemento scatenante  è stato l’annuncio che il procuratore di New York, Jason Richman, aveva sostanzialmente accusato il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, di avere ricevuto un milione di dollari in tangenti da parte di trafficanti di droga del narcotraffico internazionale, coinvolgendo tra l’altro anche il famoso capo clan Joaquín Guzmán, El Chapo. Questa è stata la contingenza politica che ha rinfocolato proteste e opposizioni. Ma l’Honduras ha un problema strutturale che è legato al tema   del narcotraffico, cioè questa violenza endemica che ormai ha penetrato la gran parte dei gangli anche dell’amministrazione, per cui quando parliamo di corruzione e di narcotraffico non parliamo di due temi distinti, ma parliamo di due facce della stessa medaglia. Il narcotraffico che si inserisce anche all’interno della politica, riesce anche a corrompere la politica e quindi sostanzialmente a costituirsi come Stato nello Stato.

Legato strettamente alla questione del narcotraffico c’è anche il traffico di esseri umani, la disperazione dei flussi migratori …

R. – Certamente. Anche qui ci sono dati spaventosi: teniamo conto che da ottobre 2018 alla fine dell’estate 2019, si calcola che le pattuglie di frontiera degli Stati Uniti abbiano arrestato oltre 240 mila honduregni che cercavano di attraversare le frontiere del Paese dal Messico. Stiamo parlando di qualcosa come il 2,5 per cento della popolazione dell’intero Honduras. Quindi, cifre che in proporzione sono spaventose. Chiaramente il problema delle migrazioni è strettamente connesso con il tema della violenza, sia perché la stessa migrazione è oggetto di continue vessazioni, di continui ricatti e soprusi da parte del narcotraffico, da parte dei cartelli, sia perché oramai la violenza è endemica nel Paese e rappresenta una delle cause principali per cui così tanta gente sceglie di emigrare, peraltro intraprendendo, appunto, cammini che sono estremamente pericolosi. Bisogna dire che, da questo punto di vista, il quadro internazionale non aiuta. Ad esempio, è evidente che la meta fondamentale di migrazione per tutti i Paesi centroamericani, e non solo, sono gli Stati Uniti d’America, i quali avrebbero la possibilità – e certamente la responsabilità – di fare degli investimenti concreti in Paesi come l’Honduras per cercare di risolvere a monte i problemi che poi generano flussi migratori così intensi. Consideriamo quello che è successo nelle ultime settimane, e quindi questo accordo tra gli Stati Uniti e l’Honduras: improvvisamente l’Honduras, pur essendo – ripeto – il terzo Paese più violento dell’America Latina, secondo i dati dell’anno scorso, è improvvisamente diventato, secondo gli Stati Uniti, secondo il Dipartimento di Stato, un Paese sicuro. E questo ci fa anche capire come queste crisi locali, queste proteste si inseriscano in uno sfondo che è uno sfondo necessariamente internazionale e transnazionale, da un punto di vista sia della grande politica, sia anche della proiezione transnazionale di questi gruppi di criminali che la fanno da padroni in Paesi come l’Honduras. Ma l’Honduras non è solo, evidentemente.