Mons. Gallagher: ai radicalismi opporre una fede

Mons. Paul Gallagher – EPA

Un pensiero alla fruttuosa e intensa visita di Papa Francesco a Sarajevo ha aperto l’incontro dedicato a Religioni e dialogo a Strasburgo, presso il Consiglio d’Europa, di cui è presidente di turno la Bosnia Erzegovina. A promuovere l’iniziativa è stata la missione permanente della Santa Sede presso il Consiglio stesso, quale tappa di riflessione in vista del seminario che si terrà proprio a Sarajevo l’8 e il 9 settembre prossimi. Da Strasburgo, la nostra inviataFausta Speranza:

Obiettivo comune la costruzione di società inclusive. A parlarne, per la Santa Sede, il segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Paul Gallagher:

R. – Io credo sulla base della libertà religiosa come diritto fondamentale. Noi possiamo creare uno spazio di dialogo, che ci può permettere di creare le condizioni necessarie per società inclusive.

D. – E come combattere i radicalismi e i fondamentalismi?

R. – Credo con un’attenzione alle origini, diciamo, delle inquietudini della nostra società. E poi, a livello di dimensione religiosa, combattendo l’ignoranza, riaffermando anche una interpretazione delle religioni – che sia cristianesimo, islam o ebraismo – con una interpretazione autentica di questa nostra fede.

D. – E’ emerso il rischio di una laicità che fa fuori le religioni: è ancora così o si è riscoperto il valoro delle dimensione religiosa nel dialogo interculturale?

R. – C’è sempre il rischio. Però, anche in base a quando detto qui, mi sembra che anche il rappresentante del governo francese abbia detto che è possibile avere una visione positiva della laicità dello Stato, della Costituzione, che permetta questa libertà religiosa. Non deve essere una cosa negativa, ma una cosa positiva, in cui possono fiorire le comunità religiose, le fedi religiose e un dialogo tra di loro. In quel senso, lo Stato laico può avere un valore e un ruolo molto importante.

D. – Il contributo della visita di Papa Francesco a Sarajevo a tutto ciò?

R. – La visita del Santo Padre a Sarajevo, sabato scorso, è stata veramente un viaggio molto positivo: si vedeva dai volti della gente che era lì. Si vede che lui è voluto andare per incoraggiare queste comunità diverse di culture diverse, di religioni diverse, a collaborare insieme per creare un Paese e una società unita. Soprattutto, ha incoraggiato i giovani ad andare avanti, a cercare una riconciliazione, a confermare la fraternità e l’amore per il loro Paese e per tutti i componenti della loro società.

D. – Vent’anni dopo, la guerra Sarajevo può essere da esempio?

R. – Credo che Sarajevo, sì, lo possa essere. Il Papa ha sottolineato che c’è un enorme potenziale: Sarajevo e la Bosnia ed Erzegovina possono essere un grande esempio! Però, dobbiamo anche dire che c’è ancora molto lavoro da fare, come purtroppo in molti altri posti del mondo. Quello di cui dobbiamo renderci conto è che viviamo un momento storico molto delicato. E’ doveroso, quindi, che tutti noi, rappresentanti religiosi, fedeli e cittadini, lavoriamo insieme per i nostri Paesi e per le nostre città per costruire la pace, per far comprendere sempre di più la ricchezza della diversità, per combattere il fondamentalismo e l’estremismo e per essere veramente agenti di pace nelle nostre società. Perché viviamo un momento molto, molto difficile, senz’altro.

A ricordare l’attenzione che la comunità internazionale deve prestare ai valori religiosi è stato il relatore speciale delle Nazioni Unite, Heiner Bielefeldt, che raccomanda: “Attenzione a una mal pensata laicità, che fa fuori le religioni dal dialogo”.

Consiglio d’Europa: libertà religiosa crea società inclusive

Papa Francesco al Consiglio d’Europa (25 novembre 2014) – EPA

La dimensione religiosa del dialogo interculturale: al centro del dibattito organizzato oggi pomeriggio a Strasburgo dalla Missione permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Partecipano l’arcivescovo Paul R. Gallagher, segretario per le Relazioni con gli Stati della Santa Sede, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione e di credo. Guida il dibattito il vicesegretario generale del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini-Dragoni, che ascoltiamo nell’intervista di Fausta Speranza:

R. – E’ una dimensione fondamentale, perché è una dimensione che fa parte della nostra cultura più generale. Osserviamo sempre al Consiglio d’Europa la questione religiosa come una parte intrinseca dell’identità e della cultura di ciascun individuo. Quindi, è portatrice di valori e quindi ispira il nostro modo di comportarci con noi stessi e con gli altri e anche le responsabilità che possono derivarne per quanto si vive nella società. Allora, non può restare al di fuori delle nostre considerazioni e del ruolo che proprio la religione svolge in seno alle società, in altre parole.

D. – Le sembra che ultimamente ci sia stata in qualche modo una riscoperta nelle istituzioni e anche nella sensibilità dei cittadini dell’importanza della dimensione religiosa?

R. – Per quanto riguarda i cittadini, in senso più ampio, senz’altro. Per quanto riguarda il Consiglio d’Europa, sono già sette anni che noi riflettiamo regolarmente sull’impatto e sul ruolo che la religione può svolgere in senso alle società europee in ogni caso e quindi anche alle società in senso più ampio. Dal 2008, abbiamo iniziato ad avere riunioni regolari con rappresentanti sia religiosi che non religiosi, con rappresentanti di società e di organizzazioni agnostiche o atee per discutere su temi che per noi – come Consiglio d’Europa – sono fondamentali e che mi permetto di indicarle attraverso gli articoli pertinenti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’art. 9 che indica molto chiaramente il principio della libertà di religione, il che significa anche il volere avere eventualmente una religione. Il secondo articolo è quello sulla libertà di espressione, che è un tipo di diritto che va comunque esercitato con un senso profondo di responsabilità, dal momento che non si tratta di un diritto assoluto, ma di un diritto relativo. E poi il diritto di associazione, come ad esempio la realtà di una comunità religiosa: anche in questo caso, c’è un diritto fondamentale che è quello della possibilità nelle nostre società democratiche di poterci associare e condividere dei valori comuni. E’ molto interessante ora il modo in cui la Santa Sede cerca di affrontare il tema della radicalizzazione e del come si possa lottare contro la radicalizzazione – che può condurre anche a fenomeni molto più gravi, come quello della violenza estrema o del terrorismo – e del ruolo dei leader religiosi come mediatori sociali – mi permetterei di utilizzare questa espressione – quindi come responsabili in seno alla società e alle diverse comunità religiose, affinché possano contribuire a de-radicalizzare la società e i gruppi che rischiano, appunto, di diventare pericolosi.

D. – L’obiettivo finale di tutto, si può dire, è costruire società inclusive…

R. – Assolutamente. Società, quindi, nelle quali tutte le diverse comunità possano ritrovarsi e rispettosamente coesistere nonostante le loro differenze e, con questa volontà, costruire un progetto, che è un progetto comune. E come ci si arriva se non si condividono gli stessi valori? Ecco che allora la libertà di religione, di coscienza, di opinione, accompagnata alla libertà di espressione e alla libertà di associazione diventano fondamentali per capire che tutti possono partecipare a condizione che tutti rispettino – al di là della loro differenza – tutti i principi fondamentali. Ecco perché mi sono permessa di accennarli, perché una coesistenza pacifica può farsi solo se le regole del gioco, se – come si dice spesso tra virgolette – il contratto sociale, in qualche modo, è chiaramente definito.

La fede che aiuta

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Le associazioni a carattere religioso garantiscono oggi aiuti a 80 milioni di persone coinvolte da guerre e catastrofi. L’incontro, organizzato da Onu e Ordine di Malta, per riflettere sul ruolo delle religioni nelle emergenze.
di Fausta Speranza

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La platea dell’incontro di Ginevra.
“Siamo tutti in un grande reality di guerra, con 180 milioni di persone vittime di sofferenze in scenari senza precedenti di violenze, di cui 9 su 10 sono civili”. Sono parole della persona che il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, ha scelto per guidare il team internazionale che prepara il primo summit umanitario mondiale, che si terra’ a maggio 2016  a Istanbul.

Parliamo di Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti, sfuggita alla morte in un agguato in Afghanistan. Incontriamo la signora Mahmoud a Ginevra, al Simposio che vuole preparare quello che lei definisce uno dei dossier piu’ importanti del World Humanitarian Summit: il dossier sul ruolo delle religioni. L’84% della popolazione mondiale segue un credo religioso, ricorda Mahmoud, sottolineando che organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui dipendono attualmente nel mondo 80 milioni di persone. Lo dice raccomandando di non parlare solo delle distorsioni politiche degli estremismi. Bisogna ricordare il lavoro silenzioso e essenziale che fanno, in contesti di guerra, persone ispirate a quei principi di solidarieta’, bene comune, pace che le religioni custodiscono.

Il Simposio del 27 maggio 2015 a Ginevra, che riunisce leader di quattro confessioni, cristiana, ebrea, musulmana e buddista, e’ frutto della collaborazione tra le Nazioni Unite, padrone di casa, e il sovrano Ordine di Malta, tra i protagonisti sulla scena mondiale e in particolare in Medio Oriente dei piu’ importanti progetti di assistenza umanitaria, come sottolineato dal direttore della sede a Ginevra dell’Onu, Michael Moller.

E’ molto concreto il Gran Cancelliere e ministro degli Esteri dell’Ordine, H. E. Albrecht Freiherr von Boeselager, a chiarire che le organizzazioni religiose sono le prime a portare aiuto anche perche’ hanno istituzionalmente  infrastrutture di assistenza nei vari paesi e perche’  hanno esperienza di cooperazione tra varie confessioni. Questo dunque il segreto, oltre allo spessore etico e allo spirito di sacrificio, del ruolo delle religioni. Un ruolo pero’ che va studiato, ripensato e accompagnato, come va ripensato tutto l’impegno umanitario su terreni dove i conflitti sono cosi’ diversi dal passato. Le guerre sono asimmetriche, ci ricorda von Boeselager, sottolineando che troppo spesso non c’e’ rispetto dei piu’ basilari principi dei regolamenti internazionali. E questo perche’ – avverte – ci sono forze terroristiche che travalicano qualunque principio ma anche perche’ la tecnologia stessa contribuisce a cambiare i termini della questione. Ci fa un esempio pesante: i droni, aerei senza piloti che  allontanano per vari motivi dalla dimensione umana. Tutto contribuisce a rendere piu’ difficile lo sforzo di salvare vite umane e diminuire le sofferenze. Un paradosso nel mondo sempre piu’ globalizzato.

Da sempre le organizzazioni ispirate a valori religiosi, se non sono gia’ presenti,  sono le prime ad arrivare e le ultime a partire in caso di grandi emergenze umanitarie.  Un’altra caratteristica fondamentale e’ che il loro arrivo non e’ legato a interessi politici.
Ma c’e’ altro su cui lavorare. Ed e’ il ruolo che i leader religiosi possono giocare nella battaglia contro i fondamentalismi. Al Simposio a Ginevra si dicono tutti d’accordo su questo, a partire dal Gran Rabbino Marc Raphael Guedj, presidente della Fondazione Radici e fonti. E’ d’accordo anche il dottor Hani El-Banna, co-fondatore di Islamic Relief e fondatore del Muslim Charities Forum. El-Banna pero’ sottolinea anche insistentemente il rischio di islamofobia.

In ogni caso, il ruolo delle religioni non finisce qui. C’e’ il rapporto con il mondo della politica, dai governi alle istituzioni internazionali. E’ l’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Onu a Ginevra, l’arcivescovo Silvano Tomasi, ad affermare che i leader religiosi devono interpellare i politici a vari livelli. Mons.Tomasi dice: “Dobbiamo fare una domanda importante sul ruolo delle organizzazioni internazionali, che in questo momento sembrano paralizzate e non in grado di dare una risposta alle crisi gia’ avvenute e incapaci, o non all’altezza, di prevenire le esplosioni di violenza”.

E monsignor Tomasi ci porta al cuore del problema affermando: “Gli Stati che compongono queste organizzazioni hanno interessi piu’ forti della solidarieta’ e degli impegni che hanno preso quando si sono associati in queste organizzazioni”. L’ambasciatore di Papa Francesco chiede  “coraggio di dialogare nonostante le crisi sempre piu’ complesse e la violenza sempre piu’ efferata dei terroristi”.

Dunque, le religioni protagoniste  di assistenza umanitaria, cooperazione e riconciliazione, ma anche doverose spine nel fianco del mondo della politica.

da Famiglia Cristiana del 1° giugno 2015

Ambiente, la Cina s’ispira a Venezia

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Un museo internazionale dell’acqua a Venezia, diretto dal cinese Zheng Xiao Yun. Che dice: “La Cina deve ispirarsi a voi per una politica dell’ambiente”. di Fausta Speranza
zheng    Zheng Xiao Yun

Entro un anno Venezia ospiterà il primo museo internazionale dell’acqua grazie a un cinese. Ma non si tratta di un finanziamento economico.  Parliamo del prezioso contributo del presidente della International Water History Association,  Zheng Xiao Yun, che,  in Cina, è a capo della nazionale Accademia delle Scienze Sociali. A chiamarlo a Venezia è il Centro internazionale della civiltà dell’acqua, guidato dall’italiano Eriberto Eulisse. Il Centro promuove, da oltre dieci anni,  una concezione alta dell’acqua non solo in quanto essenziale risorsa naturale ma come elemento costitutivo di culture e civiltà.

In particolare,  con l’incontro voluto in questi giorni dal 13 al 15 maggio a Venezia, il direttore Eulisse ha aperto il dibattito sulla valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle antiche vie dell’acqua europee. Ha richiamato studiosi non solo d’Europa ma di Egitto,  Australia, Canada, Cina perchè il dibattito fosse arricchito dal punto di vista esterno al Vecchio Continente. Ma la Carta che viene sottoscritta a conclusione è una Carta della Storia dei canali europei.  Vuole essere un punto di riferimento per il mondo politico per la promozione dell’identità europea legata al patrimonio della rete idrica creata dall’uomo a partire dal Medio Evo. Una rete che ha favorito relazioni commerciali e espansione di centri urbani.

In sostanza si tratta di attivare una collaborazione internazionale su temi di civiltà, senza trascurare le specificità europee. E il Centro Internazionale dell’acqua,  promuovendo questo forum 2015,  ha creato il bacino giusto perchè prendesse il largo l’iniziativa del Museo dell’acqua. Nell’intervista a Famiglia Cristiana, il prof. Zheng Xiao Yun, che è un nome a livello internazionale per la promozione del valore di eredità culturale rappresentato dall’acqua, tiene a sottolineare che la sua organizzazione ha pagato le spese della sua partecipazione al convegno sui fiumi e canali europei, perchè – dice – “la Cina ha molto da imparare dallo spessore culturale europeo e dalle politiche di tutela dell’ambiente dell’Unione Europea”.

Zheng Xiao ci dichiara senza mezzi termini, in perfetto inglese, che “la Cina deve mettere in moto una politica ambientale seria”. Ci spiega con un sorriso cordialissimo: “Nel mio Paese mi batto perchè si capisca che l’acqua non ha bisogno solo di ingegneri ma di intellettuali e poeti che ne capiscano il respiro culturale. E’ il respiro che trovo in Europa”.

Dunque, constatiamo che l’Europa stanca e depressa, che chiama un cinese a guidare il Museo dell’acqua,  resta leader culturale. Con la responsabilità grande di non dimenticarlo, presa da vicende finanziario-economiche, e  in preda a paure identitarie. Intanto, il Museo dell’acqua si farà entro un anno, massimo due, ci assicura Zheng.

E sarà un prodotto culturale della buona globalizzazione. Quella che ha portato, in questi giorni a Venezia gioiello artistico unico al mondo, esponenti di diverse nazioni e continenti ma di affine sensibilità sull’urgenza di un approccio nuovo  all’ambiente. Non come territorio da depredare ma come humus per un nuovo umanesimo. L’acqua, dunque, come paradigma di risorse e bisogni  primordiali dell’uomo.

Resta da dire che, ascoltando interventi di francesi, britannici, spagnoli e italiani colpisce come gli interventi appassionati di questi ultimi fossero per la realizzazione di progetti pensati e faticosamente abbozzati,  mentre le altre testimonianze portavano la documentazione di progetti realizzati. Un solo esempio: dalla Spagna la valorizzazione delle rive urbane del fiume  Manzaranes che taglia Madrid. Fino a pochi anni fa correva una strada a doppia corsia laddove fino al 1955 si poteva fare il bagno, e oggi si è recuperato un lungo spazio di verde e pista ciclabile.

Esempio italiano: il veneto Francesco Calzolaio, presidente dell’associazione Venti di cultura, ha difeso con convinzione il bel progetto di Lagunalonga che faticosamente cerca di valorizzare tutta la ricca laguna veneta. Un progetto che trova per la prima volta la complicità del Comune di Venezia che dal 21 maggio inaugura il suo spazio con marchio Expo ospitato però a Venezia. Uno spazio che intende proprio presentare al mondo l’intero spaccato lagunare per una valorizzazione più ampia e – si spera – più consapevole dei bisogni. Una valorizzazione tutta da fare. Anche in base ai bisogni di Venezia, al di la’ delle polemiche politiche sul Mose e dell’attesa del nuovo sindaco che uscirà dal voto del 31 maggio, dopo un anno di commissariamento.

In definitiva,  si spera di veder fiorire il nuovo umanesimo di cui abbiamo sentito parlare e di veder presentare al prossimo Forum del Centro internazionale dell’acqua, che sceglie ogni anno una citta’ diversa, sempre più progetti italiani realizzati e non solo ideati. Insieme al Museo dell’acqua pensato con pensiero internazionale su territorio italiano.

da Famiglia Cristiana del 16 maggio 2015

Summit Asia-Africa: i due continenti sempre più vicini

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partecipanti a vertice Asia Africa  (foto REUTERS)

Sono 77 i Paesi rappresentati al vertice Asia-Africa, in corso da lunedì a Giakarta in Indonesia. Di questi almeno 34 partecipano al massimo livello, attraverso capi di Stato o di governo. Tema dell’incontro: “Realizzare una partnership asiatico–africana per il progresso e la prosperità”. Il presidente indonesiano, Joko Widodo, che ha aperto i lavori, ha esortato gli Stati a varare legislazioni più favorevoli alle imprese. Il vertice si svolge a 60 anni dalla prima conferenza dei Paesi d’Africa e d’Asia che si svolse nel 1955 nella città indonesiana di Bandung. Per capire novità e prospettive di oggi, Fausta Speranza ha intervistato Antonello Biagini, docente di Internazionalizzazione all’Università La Sapienza di Roma:

R. – Il fatto che si tenti una sorta di visione univoca dei problemi potrebbe rappresentare una grande innovazione, soprattutto nella politica internazionale di questa nostra fase, che per molti aspetti è estremamente confusa e manca quasi di una leadership mondialD. – Quando diciamo “partnership” diciamo innanzitutto il piano economico o il piano politico?

R. – In questo caso all’ordine del giorno mi sembra che ci siano temi che riguardano l’aspetto dello sviluppo, che è il tema principale per questi due Continenti. E su questo non c’è alcun dubbio. La grande presenza della potenza economica della Cina, che cammina ormai a livelli di sviluppo a doppia cifra, anche se c’è una parte di rallentamento; l’India, che è un’altra grande realtà; ma poi tutto il resto dell’Asia: la Corea; lo sviluppo che c’è nel Vietnam in questa fase. Quindi, sono Paesi in forte crescita. Dall’altro, nella stessa Africa si registrano, al di là delle complessità, dei problemi che abbiamo sull’Africa a nord del Sahara, anche nel resto dell’Africa negli ultimi anni si sono registrate delle forme di ripresa, di riorganizzazione. E riorganizzare l’economia in qualche modo significa anche riorganizzare la politica. Poi, il problema dei due processi è quale deve avvenire prima. Per certi aspetti, gli accordi politici potrebbero mettere in moto poi le sinergie positive per l’economia. Però, mi sembra che in questo caso il primo elemento sia un’idea di relazioni internazionali che coinvolgano due grandi soggetti che,  storicamente, o appartenevano ai Paesi non allineati oppure erano Paesi a sviluppo bloccato per certi aspetti, perché ancora subivano le conseguenze o della decolonizzazione o del post-colonialismo, cioè la prima fase dell’indipendenza che molto spesso è stata turbolenta. In alcuni casi ci sono stati conflitti veri e propri come nel caso del Vietnam, tanto per ricordare quello che più o meno tutti ricordano. Ma anche in Corea, la stessa Corea che ancora oggi è divisa: è il prodotto di un grande conflitto che era anche ideologico, che era anche di sistema politico e in parte lo è ancora.

D. – Chi si siede davvero al tavolo quando parliamo di vertice “Africa – Asia”? Da una parte c’è l’Unione Africana, dall’altra c’è la Cina? Chi sono gli interlocutori veri?

R. – Sicuramente la Cina ha un ruolo preponderante in questo caso. I cinesi hanno dichiarato che il XXI secolo sarebbe stato il secolo della Cina. Ora, al di là dell’affermazione che può sembrare ridondante, ci sono alcuni elementi, sia della crescita economica, ma direi anche delle posizioni che la Cina assume in politica estera, che sono veramente calibrati sul ruolo di una grande potenza. Sul versante africano, sicuramente hanno peso Paesi all’interno dell’Unione Africana: io penso ad esempio sicuramente al Sud Africa, che fino all’altro ieri rappresentava una realtà importante di come anche si potesse gestire un passaggio da una situazione coloniale o semi-coloniale o comunque di apartheid a una situazione invece completamente nuova e diversa, salvo che questi ultimi giorni abbiamo visto scontri sociali. Poi, certo, ci sono i grandi Paesi dell’Africa: possiamo pensare al Kenya, che però in questa fase ha dei problemi. Ci sono altri grandi Paesi africani come la Nigeria stessa, il Mozambico: ci sono Paesi che rappresentano delle realtà estremamente interessanti. Come dicevo prima: l’Unione Africana in qualche modo è una cornice che tiene insieme molti di questi Paesi, quindi formalmente sarà l’interlocutore. Poi, dietro questo, bisognerà aspettare e capire anche in base ai risultati di questi primi lavori, verso quale direzione potrà andare questa nuova modalità di interpretare la politica  tra due aree continentali completamente diverse. Il punto centrale è che si sta bypassando gli interlocutori storici per certi versi, che erano: da un lato, i Paesi dell’Europa e, dall’altro lato, gli Stati Uniti. Anche un po’ la Russia ma la Russia è sempre entrata poco nel gioco africano. È stata più attenta alla contiguità territoriale in Asia, piuttosto che spingersi in Africa, salvo il caso dell’Egitto tanti anni fa. Insomma non ha avuto mai questa grande presenza in Africa e nel mondo africano.
Trasmissione del Radiogiornale della Radio Vaticana del 22 aprile 2015

Mettiamo umanesimo nell’Islam

Hassem Chalghoumi, presidente degli imam di Francia, lancia un appello. Ed ebrei, musulmani e cristiani si incontrano presso il Parlamento europeo.   Fausta Speranza

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L’imam Chalghoumi (a destra) con il rabbino Di Segni (foto P. Naj-Oleari).

“Formare a un Islam dei lumi, un Islam dell’umanesimo”: non è un professore di filosofia occidentale a chiederlo ma è l’appello che l’imam Hassen Chalghoumi, presidente degli Imam di Francia, affida a Famiglia Cristiana. L’occasione è un’intervista a margine della Conferenza che ha riunito cristiani, ebrei, musulmani, al Parlamento Europeo. Sul tema: “La crescita del radicalismo religioso e del fondamentalismo e il ruolo del dialogo interreligioso nella promozione della tolleranza e del rispetto per la dignità umana”.

L’Imam Chalghoumi chiede collaborazione. Sottolinea “l’importanza della formazione dei giovani, l’urgenza di dare un futuro a quanti sono facile preda su web del messaggio delirante del sedicente Stato islamico o delle diverse forme di terrorismo”. Definisce “cruciale” il dialogo interreligioso e chiede che “si ascolti l’Islam vero che non racchiude l’invito a uccidere”. E poi pronuncia termini non consueti per la sua religione: parla di orizzonti di formazione da percorrere da parte del mondo musulmano e cita esplicitamente la ricchezza del secolo dei lumi e il patrimonio dell’umanesimo, eredità del continente europeo.

“Collaborare alla costruzione dell’Islam europeo” è la raccomandazione del rabbino Albert Guigui, rappresentante permanente della Conferenza dei rabbini europei presso l’Unione Europea. Guigui sembra alzare il livello dell’obiettivo: non si deve tendere a dialogare per vivere insieme – spiega – ma bisogna tendere a costruire insieme una società in cui le religioni sappiano ascoltarsi ma abbiano anche voce nello spazio pubblico, non siano solo fatto privato.

Un pensiero condiviso dai vari esponenti partecipanti, della Conferenza delle chiese europee CEC, della Commissione delle Conferenze dei vescovi europei COMECE, della Chiesa anglicana. Un pensiero ripreso in particolare dal rabbino Riccardo di Segni, che parla di “regole fondamentali di convivenza alle quali le religioni devono attenersi per la convivenza civile” ma anche di “veri e propri diritti religiosi che la società civile è tenuta a rispettare”.

Il primo pensiero condiviso è che, di fronte alla crescita del radicalismo e alle atrocità commesse in nome del fondamentalismo religioso fuori e dentro l’Europa, è decisivo che tutte le persone di fede, che rifiutano intolleranza e violenza, si ritrovino in una casa comune. Ma, condivisa la consapevolezza della gravità del momento, in qualche modo si avverte che condivisa deve essere anche la speranza di una risposta forte comune.

In particolare è padre Patrick Daly, Segretario generale della Commissione delle conferenza episcopali europee, COMECE, a parlare di speranza, a raccomandare speranza. In  qualche modo, – ci conferma – l’incontro promosso dall’europarlamento rappresenta un appello alle religioni. Qualche anno fa – dice – non c’era la stessa attenzione per la voce delle chiese e poi aggiunge: in particolare posso dirlo nei confronti della Chiesa cattolica.

Il vicepresidente dell’Europarlamento Antonio Tajani, ricorda in apertura il messaggio forte lasciato da Papa Francesco alle istituzioni europee, nella visita a dicembre scorso a Strasburgo, in tema di identità europea, di difesa dei valori fondanti della costruzione europea, primo fra tutti la dignità della vita umana. Tajani sottolinea che il dialogo tra le religioni è voluto perchè l’Europa, almeno quella rappresentata dall’assemblea dei rappresentanti dei cittadini, è consapevole che “non si può rispondere solo militarmente al terrorismo”.

All’incontro, non pubblico ma aperto ad alcuni giornalisti, si parla e si discute delle sfide dell’integrazione e dell’inclusione con la raccomandazione a non ipotizzare la mera assimilazione. E qualcuno chiede di non dimenticare i disperati che sbarcano sulle coste europee del Mediterraneo: la signora Hilde Kieboom, vicepresidente della Comunità di Sant’Egidio a livello europeo, sottolinea che “mentre si uccide in nome del radicalismo, l’Europa che difende la dignità umana non può non cominciare da quella dei poveri che bussano”.

da Famiglia Cristiana del 25 marzo 2015

Il medico eroe del Congo

Denis Mukwege lavora come ginecologo in un Paese in cui “lo stupro è l’arma più economica per fare la guerra”. L’attività di difesa delle donne e e gli attentati. di Fausta Speranza

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Denis Mukwege (foto F. Speranza)

“In un mondo di inversione di valori, rifiutare la violenza significa esser dissidente”: sono le parole di Denis Mukwege, medico congolese insignito del Premio Sacharov appena scampato a un attentato nella sua Repubblica Democratica del Congo.  “Cercano di colpirmi – spiega – “perché cerco di dare lo statuto di vittime alle donne violentate: in Congo non sono tali”.

Mukwage da 15 anni opera nell’ospedale Panzi a Bukavu, in quella che definisce “una situazione formale né di guerra né di pace, ma di autentica impunità”, in cui  lo “stupro è usato come l’arma più economica di guerra”. Il ginecologo ribadisce che “l’uso di massa dello stupro viene ordinato dall’alto dai criminali di guerra”.  E ci spiega: “A violare le donne sono anche tutti gli uomini che di fronte a tutto ciò tacciono”. Il punto è che il ginecologo cura anche i diritti sistematicamente altrettanto violati di queste donne, adulte o bambine, denunciando con grandissimo coraggio nel Paese africano della Regione dei Grandi Laghi, dove i diamanti muovono interessi e armi.

Con voce ferma spiega che spesso la violenza viene in qualche modo “firmata”. Sui corpi straziati di donne, ma anche di bambine e perfino neonate, il medico ritrova, infatti, segni particolari che distinguono il clan che si è macchiato del crimine. Nell’intervista a Famiglia Cristiana, il medico mai indugia nei particolari ma sottolinea di sentire il dovere, come uomo e come credente, di denunciare tutto ciò anche raccontando frammenti dell’orrore che vede. Si trova di fronte ogni giorno decine e decine di donne violate nella maggior parte dei casi brutalmente, in alcuni casi, anche con oggetti o con acido. Fa un altro esempio. Racconta dei 6 neonati mutilati che ha visto provenienti dalla regione del Kivu: sono stati strappati dal ventre squarciato di donne agli ultimi giorni di gravidanza e mutilati negli arti e nei genitali.

Mukwage racconta che, oltre allo strazio letto nei corpi, si sente sempre più fragile di fronte alla disperazione delle donne che vengono stuprate e alle quali poi viene imposta la presenza ogni giorno degli uomini che le hanno “violate nell’intimità e nell’anima”. O donne alle quali viene imposto di obbedire agli uomini che hanno violato le loro figlie. Di fronte a tutto ciò – ci dice – “come si può avere paura per se stessi?”. “La paura c’è ma non si sente: si sente più forte l’orrore da combattere”.

Ringrazia l’Ue che, con il Premio Sacharov per quanti si distinguono nella difesa dei diritti umani che ha ricevuto a dicembre 2014, “ha acceso i riflettori sul dramma del popolo congolese”. Ringrazia anche delle continue sollecitazioni da parte delle autorità europee al governo del Congo perché sia protetto dalle forze dell’ordine. Sollecitazioni rinnovate anche in queste ore dopo l’ultimo attentato. Ma poi Mukwage chiede al mondo di “andare oltre la denuncia e l’orrore e occuparsi delle cause”.

In particolare, Mukwage chiede regole sulle risorse minerarie. Affida a Famiglia cristiana un chiaro appello: suggerisce, oltre la solidarietà e i finanziamenti, che l’Europa metta nero su bianco vincoli adeguati per il rispetto dei diritti umani nelle regolazioni, attualmente allo studio, che riguardano a diverso titolo le risorse minerarie e i prodotti che ne derivano. Ci dice: “Per tutto ciò che avviene in Africa e per i prodotti commerciati in Europa”.

Il ginecologo congolese ricorda che “in Congo l’economia ampiamente militarizzata trasforma il Paese da un territorio tra i più ricchi al mondo nel territorio dove avviene “la negazione della semplice umanità”. E sottolinea che il commercio di oro, diamanti, rame, coltan, cobalto è globale. Nessun paese si senta escluso.
da Famiglia Cristiana del 20 febbraio 2015

Cooperazione contro Is: a Washington vertice antiterrorismo

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Obama al vertice antiterrorismo
A Washington, il vertice internazionale contro il terrorismo. Partecipano almeno 15 governi tra cui la Giordania. Ieri, nella giornata ministeriale preparatoria, Obama ha chiesto di “amplificare le voci di pace, tolleranza e inclusione, soprattutto online”. E ha sottolineato: “Non siamo in guerra con l’Islam, ma contro gente che ha tradito l’Islam”.  Ma per saperne di più, Fausta Speranza ha raggiunto telefonicamente a Washington, Khalid Chaouki,  parlamentare italiano e musulmano che partecipa ai lavori:

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R. – Al vertice vivo un po’ direttamente quelle che sono le ansie non solo dell’amministrazione americana e del presidente Barak Obama ma di tantissimi Paesi che al di là della collocazione geografica vivono questo momento con grande paura, ma soprattutto con la voglia di trovare insieme delle parole chiave diverse: il terrorismo e l’estremismo non possono mettere in ostaggio la nostra civiltà. E lo spirito qui a Washington è proprio quello di riuscire a superare questa fase rilanciando un futuro di speranza con parole chiave positive e soprattutto verso i giovani, in modo di non lasciarli ostaggi di questa propaganda molto pericolosa. Oggi abbiamo bisogno di mostrare ottimi esempi di convivenza. Per farlo occorre rendere molto visibile la testimonianza dei leader musulmani, delle storie di coraggio che isolano ed hanno isolato l’estremismo. Quindi, serve davvero un’alleanza tra i popoli tra le comunità: in questo, il ruolo dei musulmani è sicuramente fondamentale.

D. – Si è parlato anche di contropropaganda alla propaganda del terrorismo soprattutto online …

R. – Sì, c’è stata una sessione molto interessante di confronto con i massimi soggetti che oggi gestiscono la comunicazione online, le grandi società ma anche esperti mondiali. Oggi l’idea è quella di incentivare una risposta molto più accattivante, molto forte e molto innovativa, studiare anche una rete di giovani soprattutto, che già oggi possa reagire, rispondere in modo ancora più efficace a questa propaganda che, – appunto volutamente – usa le nuove tecnologie perché il suo target è composto da giovanissimi non solo nel mondo arabo musulmano, ma purtroppo anche tra i figli delle comunità islamiche in Occidente.

D. – Il concetto che non siamo in guerra con l’islam è stato sottolineato, però dobbiamo mobilitare tutti contro il terrorismo. Come farlo? E con quale sensibilità, visto che lei è musulmano …

R. – La dichiarazione di Barak Obama non era scontata ed è importante. Non possiamo regalare ai terroristi l’etichetta di “musulmani”. Purtroppo, c’è questo gruppo terroristico che si rifà all’islam ma abbiamo bisogno di distinguerli e di dare fiducia i milioni di musulmani diversi dall’Is che vivono oggi in questo mondo nella regione mediorientale. È molto importante offrire occasioni di cooperazione e far capire ai giovani che può esserci un futuro diverso dalla scelta di rifugiarsi nell’estremismo. E’ importante far capire ai giovani che ci sono oggi occasioni per i giovani musulmani di costruire insieme all’Occidente un futuro di cooperazione e di sviluppo positivo, di individuare i valori comuni che ci sono e che vanno resi ancora più forti. In questo senso non bastano le parole come in passato. Il messaggio qui da Washington è quello di cercare di individuare i momenti concreti di cooperazione soprattutto tra i giovani coinvolgendo le università, le associazioni, le società civili. E si vuole ribadire che l’estremismo non può essere combattuto solo con le guerre: non sono sufficienti e non potranno bastare. Dobbiamo semmai eliminare qualsiasi alibi dall’interno della propaganda e soprattutto lavorare in positivo perché altrimenti faremo gli errori del passato.

D. – È forte l’orrore che vediamo. È forte anche la risposta?

R. – Deve essere forte. La verità è che siamo ancora in una fase di shock. La risposta deve essere intelligente, non solo emotiva. Quindi l’obbiettivo di questo summit è quello di capire come, insieme ai governi, elaborare una strategia a medio e lungo termine. Altrimenti il rischio è quello di alimentare quelle risposte emotive e creare nuovi terreni di radicalizzazione. E soprattutto si rischia di costruire delle fratture con le società musulmane che oggi, invece, devono essere il nostro massimo alleato in questa battaglia.
dal radiogiornale di Radio Vaticana del 19 febbraio 2015

Cipro: Nicosia, l’ultima capitale col Muro

Viaggio nell’isola divisa: da un lato, Stato, dall’altro, “entità” riconosciuta solo dalla Turchia. di Fausta Speranza

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“2030”, ma, se forse un’Odissea c’è, lo spazio non è quello dell’universo ma di un’isola. Si tratta, però, di un film, che si fa beffa della divisione politica dell’isola di Cipro e che raccoglie ogni giorno su Internet centinaia di click e consensi in più tra i giovani di tutte e due le comunità formalmente ancora in guerra: turco-ciprioti e greco-ciprioti.

Non è un film prodotto a titolo artistico-culturale ma è una sorta di documentario che, insieme con un altro film intitolato “What if”, chiarisce ai ragazzi quante opportunità si infrangono per tutti loro sull’ultimo Muro che resta in piedi in Europa. A produrli sono le Camere di Commercio della Repubblica di Cipro, che è membro dell’Ue, e della cosiddetta Repubblica del Nord di Cipro, riconosciuta formalmente solo dalla Turchia. Il primo è per il mondo uno Stato, il secondo è un’entità illegale e pertanto non vede riconosciuto nessuno dei suoi organismi istituzionali. Politici o studiosi, se vengono ricevuti o incontrati da qualche personalità internazionale, è sempre e solo a titolo personale e senza documentazione dei media. Va spiegato allora il ruolo di eccezione della Camera di Commercio di Cipro Nord, che riceve direttamente finanziamenti dall’Ue attraverso la sua Banca e trova patente di riconoscimento dall’omologa Camera nel Sud e da altre nel mondo. Può fare tutto ciò in virtù di una data: è stata istituita e registrata a livello internazionale nel 1958 prima degli scontri e della divisione. In virtù di ciò, ha potuto sottoscrivere l’Accordo formale con la Camera di Commercio greco-cipriota che – a metà tra l’ironia e la giusta provocazione – è stato registrato come ‘Green Line Agreement’.

Da sempre il Muro si chiama Green Line, in riferimento alla linea segnata con pennarello verde sulla mappa di Cipro dai vertici della missione Onu, intervenuta nel 1964 per sedare le violenze tra le due comunità scoppiate dopo la fine del dominio britannico un anno prima. Linea alla quale si è attenuta la Turchia quando ha mandato truppe nella parte nord in quella che, per i greci, è stata un’invasione, per i turchi, un intervento di protezione della comunità turca che allora rappresentava il 18% della popolazione.

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Ragazzi alla Casa della cooperazione (foto di F. Speranza)

Nel Green Line Agreement ci sono progetti che entusiasmano gli uomini di affari ma anche i giovani, di entrambe le comunità, e che aspettano – qui è il punto centrale – una risposta dalla politica. Da sette mesi, infatti, i progetti sono sul tavolo dei leader politici, controfirmati dalle due parti. Aspettano di diventare operativi. Di questi progetti si occupa il film in questione e di questi progetti discutono i giovani che si ritrovano nel caffè preferito per parlare di futuro comune: si chiama “Casa della cooperazione”. FOTO E’ un simpatico locale con zona biblioteca e zona ristorazione, con originali tavoli di legno dove sono incastonate al centro delle piccole piantine, verdi.

E’ sorto nella zona demilitarizzata tra un check point e l’altro. Offre, su qualche discreto scaffale, un DVD con immagini di campi estivi con ragazzi delle due comunità, e altri provenienti da altri paesi. Immagini e dichiarazioni di comunione di intenti che colpiscono, se si pensa che alcuni di quei ragazzi per l’atlante mondiale non esistono. Dei progetti lanciati dalle Camere di Commercio e sognati dai giovani, abbiamo parlato con il presidente della Camera di Commercio turco-cipriota, Fikri Toros.

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Fikri Toros, presidente della Camera di Commercio turco-cipriota (foto di F. Speranza)
In un inglese impeccabile e in perfetto stile british, ci ha illustrato in breve i punti salienti: creare una zona di libero scambio tra Sud e Nord; permettere il roaming alle rispettive compagnie telefoniche; autorizzare ufficialmente una piattaforma digitale per lo scambio di informazioni che avrebbe già un nome, Business Directorate; promuovere programmi educativi su materie scientifico-tecnologiche in entrambe le lingue; offrire una card turistica per la visita di Nicosia valida su entrambe le parti della città. Anticipando la domanda, a Famiglia Cristiana Toros dichiara: “Tutti i progetti sarebbero supportati e finanziati dall’Unione Europea che assicura fondi per attività di riconciliazione sociale”. I soldi, dunque, non sono un problema.

E poi aggiunge: “Dal 2003, anno in cui si sono aperti varchi nel Muro, non ci sono mai stati episodi di tensione o di scontro tra le due comunità, dunque i progetti della Camere di Commercio riflettono la società civile”. Dai tanti commenti che si ritrovano intorno al film su web, si capisce che i ragazzi si sentono uguali di fronte alla stessa incognita: trovare un lavoro. E di fronte alla stessa esigenza: usare il cellulare dall’altra parte del Muro, che, a dispetto delle partite a scacchi internazionali che si giocano su quel Muro, loro attraversano ormai facilmente.

L’assurdo attuale è che entrambi gli operatori telefonici di rete mobile, della parte Sud e della parte Nord, consentono il roaming con qualunque altra compagnia del mondo, tranne che tra loro. Si capisce l’importanza che questo ha per i giovani, oltre che per gli uomini di affari. Se il lavoro è il loro obiettivo principale sotto ogni latitudine, la comunicazione è ormai bisogno primario. C’è da pensare che la risposta che la politica dovrà dare a questi e altri progetti, in ogni caso, positiva o negativa, provocherà un certo terremoto su quella linea divisoria.

da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015