Mani tese tra le macerie

 

Insieme ai volontari preti e parroci per prestare soccorso

di Fausta Speranza

Ragazzi, tanti ragazzi che continuano a scavare. Sono arrivati dai paesi vicini ad Amatrice subito dopo la terribile scossa, in piena notte. Tanti li ha chiamati a raccolta don Fabio Cammarata, parroco di Cittareale, a pochi chilometri da Amatrice. Ci racconta subito del dramma e di questa immagine di speranza: giovani saltati giù dal loro letto, in altre aree appena interessate dal sisma, per arrivare a dare una mano. È solo uno dei sacerdoti che troviamo impegnato in prima linea a scavare.

All’Osservatore Romano don Fabio parla rubando minuti al suo impegno a rimuovere pietre e calcinacci e ad ascoltare persone che gli vanno incontro. È gentile e disponibile a raccontare, ma con l’essenzialità di chi ha a che fare con persone tra la vita e la morte. È stato sacerdote ad Amatrice e si sente, mentre parla al telefono, che qualcuno lo riconosce. Chiedono notizie di parenti, di amici e chiedono che cosa si può fare. Don Fabio cerca di indirizzare tutti nei centri di raccolta disposti dalle autorità. È l’unica cosa da fare, ci conferma, oltre a offrire le proprie braccia per strappare vite umane alle macerie. Don Fabio descrive quello che torna in tutte le cronache: «Intere zone della cittadina completamente crollate». Anche proprio là dove si doveva svolgere la sagra della pasta cucinata secondo la tradizione locale, sabato prossimo. Per questo, la città era al suo pieno stagionale, tra parenti che risiedono altrove ma tornano d’estate come affezionati villeggianti, e veri e propri turisti appassionati di arte culinaria. Il sacerdote ci dice che in faccia ai suoi giovani si legge la voglia di piangere di fronte allo scempio, ma prevale in tutti, ragazzi e ragazze, la forza di lottare contro il tempo. Le prime ore sono determinanti per salvare più vite umane possibile. Don Fabio dice che «non c’è bisogno di ricordarlo a nessuno». È il pensiero non espresso di tutti.

Sono passate già molte ore dall’arrivo in piena notte e la polvere taglia la voce. Si sente nelle parole di don Savino D’Amelio, parroco di Sant’Agostino, ad Amatrice. Anche lui corre tra un punto e l’altro della cittadina. Con affanno riferisce della preoccupazione di tutti: «Ognuna delle persone che si muove tra gli spazi ingombri delle vie, ha almeno una persona cara da piangere, perché ritrovata morta, o da piangere perché ferita o perché ancora sepolta da pietre e architravi». E don Savino riferisce che «tre delle sei suore dell’ordine delle Sorelle Ancelle, che si trovavano nella struttura dell’Opera Don Minozzi ben conosciuta in paese, sono irraggiungibili sotto le macerie». Si tratta di suore anziane ospiti per questo periodo estivo.

Ma tutti esprimono grande preoccupazione per quanto può essere successo ad Accumoli, il paese che risulta isolato ma che dall’alto si presenta devastato. Dopo ore di apprensione, dalla diocesi di Rieti si è riusciti a contattare don Cristoforo, parroco dei Santi Pietro e Paolo. Sta bene anche se provato dal disastro generale e impossibilitato a muoversi tra i vicoli intasati di detriti. Anche lui non riesce ad avere una visione d’insieme di quello che davvero è accaduto nella località dove neanche gli elicotteri riescono ad atterrare.

Le diocesi coinvolte sono due: quella di Rieti, nel Lazio, colpita al cuore ad Amatrice e ad Accumoli; e la diocesi di Ascoli Piceno, nelle Marche, terribilmente ferita nel paese di Arquata e in particolare nella frazione di Pescara del Tronto, quasi rasa al suolo. La testimonianza di don Francesco Armandi, parroco di Santa Croce a Pescara del Tronto, che si è svegliato coperto di polvere e pezzi di intonaco, si riassume nell’espressione «desolante». Gli fa eco don Alessio Cavezzi, direttore della Caritas locale, il quale assicura che quanti sono rimasti vivi stanno preparando il terreno ai soccorsi. Non è facile. Tra l’altro, tutte le utenze sono state interrotte.

Anche dalla diocesi di Ascoli Piceno sono partiti gruppi di aiuto. Uno si distingue. Si tratta di venti richiedenti asilo, quasi tutti nordafricani, che sono ospiti di una struttura nel paese di Monteprandone. Appena si sono resi conto che nella vicina cittadina di Amandola c’era bisogno di soccorsi, hanno chiesto e ottenuto di recarsi a prestare aiuto. Sono seguiti dalla protezione civile comunale. Amandola è un altro dei centri che non si citano perché i danni non sono paragonabili alle quattro comunità colpite al cuore, ma che presenta, come altri, ferite, tra gli edifici e tra la popolazione.

In generale, il direttore delle comunicazioni sociali della diocesi di Rieti, David Fabrizi, che raggiungiamo al telefono mentre cerca disperatamente di arrivare ad Accumoli, afferma che «ancora non è stata scattata la vera fotografia di quanto accaduto». Ancora «non ci può essere piena consapevolezza. Ci potrà essere solo nelle prossime ore». Fabrizi riferisce dell’apprensione di monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti che, appena arrivato a Lourdes martedì, dopo pochissime ore, ha ripreso il primo volo a disposizione per essere già nel primo pomeriggio tra la gente della sua diocesi. Trovandosi in vescovado, arrivare nei centri più colpiti di Pescara del Tronto e di Arquata è quello che ha fatto monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno.

Intanto, i vescovi italiani hanno stanziato un milione di euro dei fondi dell’otto per mille. È la prima immediata risposta della Conferenza episcopale. Inoltre la Cei ha promosso una colletta nazionale per il 18 settembre. La raccolta avverrà in concomitanza del ventiseiesimo Congresso eucaristico nazionale. Coinvolgendo parrocchie, istituti religiosi e aggregazioni laicali, si vuole assicurare un contributo nell’immediato, e poi si vuole raccogliere offerte da inviare alla Caritas italiana.

Osservatore Romano 24 Agosto

Dove inizia il traffico di esseri umani

 

Un fenomeno dalle radici profonde

di Fausta Speranza

«Siamo solo all’inizio e devono aprirsi tanti occhi che ancora non vogliono vedere». Con queste parole suor Eugenia Bonetti, responsabile del settore “Tratta donne e minori” dell’Unione superiore maggiori d’Italia e fondatrice dell’associazione Slaves No More, spiega che c’è tanto e tanto lavoro da fare contro lo sfruttamento a fini sessuali o di lavoro forzato, perché i trafficanti sono «abilissimi ed espertissimi nel cambiare le strategie» ma soprattutto perché «ci sono falle nella cultura dominante che aiutano proprio chi fa affari con la tratta». Ma poi suor Bonetti annuncia all’Osservatore Romano un’iniziativa che lascia intravedere che qualcosa può cambiare e che ha per protagonista l’Africa, una terra che ha deciso di alzare la testa.

Non si può dimenticare che l’ondata di flussi migratori aiuta l’ignobile fenomeno della tratta, ma, secondo suor Eugenia, resta il dramma di «una società in cui tutto si può comprare». Una società che «per esempio, regolarmente insegna ai suoi giovani che il corpo della donna è in vendita». La convinzione della suora, che in questi anni si è distinta per l’impegno a strappare dalla prostituzione centinaia di ragazze, è che di leggi contro lo sfruttamento degli esseri umani ce ne siano tantissime, ma che «non si può aspettare che i Governi incrementino la lotta se non cambia qualcosa nella profondità della mentalità dominante».

La religiosa non ha dubbi: «Si chiudono tanti occhi sulla pelle dei poveri, perché in fondo, a eccezione dei poveri, tutti ci guadagnano». E povertà, sottolinea, è carenza di mezzi e di risorse ma soprattutto è l’essere esposti a diventare «carne in vendita per prostituzione o organi da espiantare». Ma tutto questo esiste — sottolinea la suora che non ha paura di denunciare sfruttatori mafiosi in cui si imbatte avvicinando donne mercificate sulle strade — perché «la domanda è tanta. Serve una società diversa in grado di recuperare il valore della persona».

Ma suor Bonetti cambia tono di voce quando anticipa all’Osservatore Romano che a settembre ci sarà in Nigeria un convegno dedicato alla tratta che ha la caratteristica di essere «tutto africano». L’accento di soddisfazione tradisce chiaramente la speranza che il continente diventi protagonista nella lotta a un fenomeno che finora l’ha visto come terra di materiale umano da sfruttare. La religiosa annuncia che il convegno si terrà ai primi di settembre ad Abuja tra esponenti delle diverse zone dell’Africa, su iniziativa di Caritas internationalis. Chiede che trovino spazio sui media iniziative importanti come questa, oltre a tanti allarmismi xenofobi.

Esattamente di valori e giustizia sociale parla all’Osservatore Romano Alfonso Giordano, anche se la sua competenza specifica attiene alla geopolitica e ai flussi migratori, quale docente presso l’Università Luiss. Alla domanda su quanto le recenti ondate di flussi alimentino il drammatico fenomeno della tratta di esseri umani, Giordano assicura che si deve parlare di un raddoppio, ma immediatamente ci tiene a sottolineare che «i media amplificano, parlando di invasione, un fenomeno che in Europa non è affatto allarmante e che, con una gestione più opportuna, potrebbe seguire un corso positivo». Secondo Giordano, non è questione di numeri ma di «crescenti diseguaglianze sociali all’interno dei Paesi e tra Paesi», che rappresentano «il vero punto da affrontare» perché sono il motore dei flussi. Così come bisogna capire che quanti affrontano i viaggi della speranza «lo fanno anelando al benessere economico ma anche allo stato di diritto dei Paesi europei». Dunque, anche nelle parole di Giordano, la tratta è questione di giustizia penale ma soprattutto di giustizia sociale.

Sul piano sociale si svolge da sempre il lavoro delle Caritas. L’organizzazione umanitaria cattolica è impegnata sul campo a livello di strutture locali, europee e internazionali. Alain Rodríguez è il responsabile della comunicazione di Caritas Europa. Interpellato dal nostro giornale risponde che il «primo antidoto allo sfruttamento» è «dare l’opportunità alle persone di essere indipendenti economicamente e, dunque, non soggette a nessuna delle forme di ricatto che aprono la porta alla tratta».

Rodríguez conferma l’impegno degli operatori della Caritas tra i tendoni allestiti per accogliere migranti o nelle strutture dove transitano i richiedenti asilo. Ma vuole spostare l’attenzione su altri fronti meno noti, che rappresentano «le frontiere che la società civile non deve dimenticare». Fa l’esempio di un’iniziativa in Austria, terra non di disperato primo approdo dei migranti ma di secondo accesso. Racconta dell’hotel Magdas, una struttura nata a Vienna, per iniziativa della Caritas locale, impiegando tutto personale reclutato tra rifugiati. L’obiettivo è «assicurare un lavoro che mette al riparo da qualunque reclutamento in uno dei meandri della criminalità organizzata che gestisce la tratta».

Tutto questo può aiutare a evitare che ogni anno si consumi un’altra Giornata mondiale contro la tratta solo tra cifre e dichiarazioni di sdegno.

Osservatore Romano 30 Luglio 2016

La parte sommersa del web

 

Propaganda e armi dell’Is viaggiano sulla rete parallela a quella che conosciamo

di Fausta Speranza

Gli esperti la chiamano capacità di resilienza. È la reazione che permette al mondo di internet di rispondere alla chiusura di una pagina con l’apertura di altre cento. È la caratteristica che rende difficile combattere il deep web, quella rete profonda, parallela al web che tutti conoscono, nella quale però domina l’illegalità. Quella stessa rete dove ragazzi, come il diciannovenne che ha trucidato il sacerdote a Rouen, intessono contatti con il mondo del terrorismo o, come nel caso del diciottenne autore della strage di Monaco, si possono procurare armi.

Questa dark net — come viene chiamata — non si raggiunge con i comuni motori di ricerca e i suoi contenuti non sono indicizzati da Google. Secondo alcuni esperti, si tratta di oltre il 95 per cento del materiale che circola nel cyberspazio, la parte sommersa dell’iceberg internet, dove trovano spazio traffici di ogni genere, da quello delle armi alla pedopornografia, dalle droghe al commercio degli organi, per finire con quella che sembra essere, al momento, l’ultima frontiera: la compravendita di materiale radioattivo. Per non parlare poi della propaganda a favore di organizzazioni terroristiche.

Alessandro Burato, esperto di politiche della sicurezza, docente presso l’Università cattolica del Sacro Cuore, spiega all’Osservatore Romano che proprio il commercio illegale di materiale radioattivo è il campo «sul quale stanno più lavorando esperti britannici, dopo la scoperta dell’offerta di pezzi di uranio impoverito».

Quello che maggiormente colpisce della realtà del web criminale è la sua relativa facilità di accesso e di utilizzo. Non serve un computer con prestazioni particolari e non è richiesta neanche una specifica preparazione da parte di chi vi accede. È una rete nascosta, ma neanche tanto. Basta un browser ad hoc, in grado di leggere protocolli di rete diversi dal tradizionale http, e saper utilizzare l’interfaccia. Ma, spiega Burato, «si trovano linee guida per imparare». All’inizio dell’anno sono comparsi su alcuni siti liberamente accessibili suggerimenti su come accedere alla dark net, come pure trucchi per camuffare e nascondere eventuali tracce della propria navigazione online.

Al mercato della dark net, insieme con aberranti offerte di video con piccoli vittime di abusi o di fucili d’assalto, ci sono anche prodotti più comuni. Per esempio, tante produzioni cinematografiche e televisive, distribuite in violazione di ogni norma antipirateria. Con il rischio crescente di una banalizzazione dell’illegalità. È il terreno in cui il confine tra lecito e illecito svanisce, aprendo la strada a legittimazioni pericolose.

Burato ricorda che «la pirateria cinematografica si trova usando il programma Tor, che presenta caratteristiche da dark net ma che risulta ormai conosciuto a molti». Il software, il cui acronimo significa The Onion Router, garantisce l’anonimato all’utente che commette il reato di scaricare film senza autorizzazione e impedisce la tracciabilità della connessione o del tentativo di connessione. Queste caratteristiche fanno sì che lo stesso programma venga però utilizzato anche per aggirare censure e blocchi in quei Paesi dove Internet non è accessibile a tutti. Ma questo non fa altro che dimostrare la complessità del fenomeno.

Tutto questo non fa che complicare l’azione di indagine e repressione da parte delle forze dell’ordine, sia a livello nazionale che internazionale. Tuttavia anche questo sofisticato e occulto mondo della dark net potrebbe avere il suo anello debole. È quello delle transazioni economiche. Per forza di cose, trattandosi di un mercato, ci saranno dei pagamenti che da virtuali alla fine divengono reali, rimpinguando le tasche dei trafficanti. Anche immaginando percorsi che rimbalzano su piattaforme fittizie e codici criptati, ci devono essere alla fine interconnessioni con delle transazioni reali. Ed è qui la cerniera tra cybercriminalità e criminalità “ordinaria” che utilizza paradisi fiscali, corrompe, ricatta.

Il lavoro di chi indaga sul deep web si muove, dunque, su diversi terreni non facili, con la caratteristica alla quale ci ha costretto internet: l’extraterritorialità. Emerge quindi la necessità di una più efficace collaborazione tra sistemi investigativi, a livello internazionale e innanzitutto a livello europeo. Burato ricorda che «lo scambio tra servizi di polizia postale tra Paesi dell’Ue esiste, ma che si sente sempre più l’esigenza di un sistema di intelligence europea».

Quando si indaga su realtà come queste, infatti, ci si mette su binari che finiscono facilmente nel cono d’osservazione dei servizi segreti. È per questo che Burato sottolinea «l’urgenza di un sistema di intelligence europea» altrimenti, dice, «la cooperazione si arena». È un’urgenza viva più che mai di fronte all’escalation di episodi di terrorismo o di follia collettiva sul territorio del vecchio continente.

Ma un’intelligence europea è pensabile solo in presenza di una governance centrale comune, diversa da un insieme di Governi che in qualche modo cercano di coordinarsi. La prospettiva è praticamente la stessa che è stata più volte evocata in campo economico, quando di fronte alla crisi dei mercati finanziari e alle critiche alla moneta unica si è evidenziata la mancanza di un polo centrale in grado di assicurare vere e proprie politiche monetarie comuni che accompagnassero la nascita dell’eurozona. Ed è anche la stessa prospettiva che emerge in tema di migrazioni, quando torna l’appello a una politica unitaria che vada oltre le possibili scelte nazionali di apertura o chiusura delle frontiere.

Ma non è poca la strada da fare in questo senso sul terreno della storia dell’integrazione europea. E non è decisamente detto che si voglia andare in questa direzione, visto le spinte di movimenti antieuropeisti.

Certamente, fenomeni come la dark net vanno ben oltre l’ambito europeo, per sconfinare nel mare della globalizzazione digitale. Ma, in questo mare, muoversi come realtà europea sarebbe meglio che farlo come singolo Stato. Il mare presenta le stesse insidie ma è come navigarci su una barca più forte e solida rispetto a farlo su un piccolo scafo.

Osservatore Romano 28 Luglio 2016

La Liberia vuole farcela da sola

 

La difficile ma tenace scommessa del piccolo Paese africano

di Fausta Speranza

Povertà, postumi della guerra civile, missione Onu. Sono tutti termini che servono, per una volta, non a denunciare uno dei tanti scenari di instabilità e sofferenza al mondo ma, piuttosto, a raccontare la scommessa di rinascita che sta vivendo la Liberia. Questo Paese dell’Africa occidentale, che è stato tra i più colpiti dalla ferocia delle armi, dalla cecità dalla dittatura e poi dalla forza distruttiva di ebola, oggi saluta i soldati della forza di peacekeeping internazionale perché il loro lavoro è finito. Non tutte le ferite sono state risanate, ma il Paese si sente in grado di voltare pagina.

D’ora in poi, saranno le forze dell’ordine liberiane a garantire la sicurezza. Dopo 13 anni di missione, gli uomini del contingente di pace delle Nazioni Unite il 30 giugno hanno passato le consegne alle forze armate locali e stanno lasciando il piccolo Paese africano. Si è trattato di una delle missioni più strutturate in Africa, con 42 nazioni che hanno contribuito con propri militari e 35 con personale di polizia.

Il tessuto sociale della Liberia — di poco più di 111.000 chilometri quadrati e una popolazione di poco più di un milione di abitanti — è stato lacerato da due guerre civili (dal 1989 al 1996 e dal 1999 al 2003) e da una dittatura, quella di Charles Taylor, che dal 1997 ha consentito uccisioni e torture, suscitando ribellioni e repressioni che sono costate la vita a 200.000 persone. L’uscita di scena di Taylor — che è stato condannato dalla Corte dell’Aja per i crimini di guerra e contro l’umanità avvenuti nella vicina Sierra Leone — è stata negoziata: l’esilio in Nigeria a patto di non essere perseguito in patria.

Al momento a Monrovia, la capitale, c’è un Governo di unità nazionale che riunisce vari esponenti delle diverse fazioni che si erano combattute. Una scelta difficile, così come è stato per la riammissione alla vita politica, decisa cinque anni fa dalla Corte Suprema liberiana, di Prince Yormie Johnson, uno dei militari che aveva fatto sequestrare, torturare e poi uccidere l’allora presidente Jamuel K. Doe. Ma tutto questo fa parte della scommessa di riconciliazione che si gioca questo Paese, che già nel nome proclama di credere nella libertà, e che ha avuto nel 2011 la soddisfazione di veder assegnato il Premio Nobel per la pace al suo presidente Ellen Johnson Sirleaf.

La nascita della nazione liberiana risale intorno al 1822, quando aziende private statunitensi finanziarono il rientro nel continente nero di schiavi di origine africana. E la capitale Monrovia prese il nome del capo della Casa Bianca dell’epoca, James Monroe. Non è solo una curiosità storica, è il segno di un rapporto privilegiato con Washington.

A caratterizzare l’azione delle autorità al potere, c’è la lotta senza frontiera alla corruzione. Il presidente, che è anche capo dell’Esecutivo, ha assunto iniziative clamorose, come il licenziamento del personale di interi settori impiegatizi e la riassunzione solo di quanti potevano dimostrare di non avere avuto implicazioni in affari illeciti.

La lotta all’illegalità è il primo passo affinché le considerevoli materie prime che il Paese possiede, a partire dai diamanti, divengano effettivamente un bene comune. La Liberia gode della crescita di circa il 4 per cento del Prodotto interno lordo, come altri Paesi dell’area del Golfo di Guinea. Non è povera di acqua e non manca neanche di potenzialità agricole. Ma la questione aperta è l’equa distribuzione di queste ricchezze e di queste potenzialità tra tutta la popolazione.

Fa impressione ricordare che in due anni l’epidemia di ebola ha falcidiato 4.800 persone. Passata l’emergenza, anche con il contributo internazionale, ora il settore sanitario sta tornando alla normalità. Ma in Liberia questo significa avere, per ogni 100.000 abitanti, un solo medico e appena 80 posti letto.

Mentre nella stessa area geopolitica dell’Africa subsahariana Paesi come il Mali e la Nigeria stanno lottando duramente contro l’insidia fondamentalista, la Liberia lancia così la sua scommessa. Dicendo al mondo di potercela fare, cominciando dal riassumere il controllo del suo territorio.

Osservatore romano 18 Luglio 2016

A Bruxelles il Consiglio Nato-Russia

 

La politica prima dei sistemi antimissile

di Fausta Speranza

Questione ucraina, sicurezza in Afghanistan ma anche strategie per l’est europeo. Sono questi i temi al centro della riunione del Consiglio Nato-Russia che si apre mercoledì 13 a Bruxelles, a pochi giorni dal vertice con cui l’Alleanza atlantica ha ridisegnato il suo impegno nell’Europa orientale e, soprattutto, a 25 anni dalle prime relazioni formali tra Nato e Russia. Un anniversario che cade proprio mentre si registra una certa tensione, ma nello stesso tempo si spera che le opzioni politiche siano in grado di ridare fiducia.

Il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, alla vigilia del summit, ha spiegato che si deve discutere della «necessità di attuare pienamente gli accordi di Minsk» sulla crisi nell’est Ucraina e si deve «parlare della situazione della sicurezza in Afghanistan». Gli accordi firmati nella capitale bielorussa, a settembre 2014, hanno determinato il cessate il fuoco, anche se a intervalli regolari si sono registrati disordini e vittime. Non è risolta neanche la situazione in Afghanistan. Stoltenberg commenta la scelta della Nato di proseguire la sua missione sul campo fino a tutto il 2017, ammettendo che nel Paese esiste «una presenza dello Stato islamico insieme con quella dei talebani».

Dall’altra parte, il rappresentante della Russia presso la Nato, Alexander Grushko, ha sottolineato che l’incontro si concentrerà «sullo stato della sicurezza militare alla luce delle decisioni del vertice della Nato a Varsavia». Su tutto bisognerà capire quale sia lo spazio del dialogo.

Se si guarda all’arco di questi 25 anni, dall’avvio nel 1991 delle relazioni formali tra l’Alleanza atlantica e la Russia, non è questa certo la fase più difficile. Da quel momento, si è vissuta un’escalation di cooperazione. Nel 1994, c’è stata la firma del Partenariato per la pace; nel 1997 l’approvazione dell’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza; fino al 2002, alla Costituzione del Consiglio Nato-Russia, principale organo di coordinamento. E il Consiglio è proprio il format nel quale si svolge l’incontro di Bruxelles. Ma non è tutta storia di avvicinamenti. Nell’agosto 2008, al momento del secondo conflitto in Ossezia del sud, gli analisti hanno parlato di congiuntura più critica dalla fine della guerra fredda. Poi, c’è stata un’altra parabola di rilancio dei rapporti, che ha avuto per protagonista il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, alla Casa Bianca proprio da novembre 2008. Con l’intervento russo in Crimea, accompagnato dal referendum che nel 2014 ha annesso la penisola alla Russia, e il conflitto nell’est dell’Ucraina, è arrivato un nuovo raffreddamento dei rapporti. Ma è al momento dell’intervento russo in Siria, nei mesi scorsi, che i media sono tornati a parlare di clima da guerra fredda e di rischio di confronto militare. Ha prevalso la prudenza in tutte le parti coinvolte. Ma il punto è che nessuna delle linee di contrasto si sta attenuando.

Ora ci sono due elementi in più rispetto al citato rafforzamento della Nato sul versante orientale dell’Ue e alla scelta di Mosca di potenziare il sistema militare e missilistico a Kaliningrad, enclave russa tra Polonia e Lituania. Si sente il bisogno di decisioni ad hoc sul piano politico in grado di spostare qualcosa rispetto a queste dinamiche.

Ci sono nodi da affrontare, a diversi livelli. Nel dialogo tra Nato e Russia pesa l’unità, o meno, all’interno dei Paesi membri dell’Alleanza, tra chi è più critico nei confronti di Mosca e più fermo sulle sanzioni e chi spinge per una ritrovata dialettica. Lo spazio di azione di Mosca potrebbe dipendere più dalla coesione in campo occidentale che non dalle risorse della Russia stessa.

Ci sono variabili ancora da verificare. Innanzitutto, il cambio di presidenza negli Stati Uniti, a novembre, e poi il processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e il suo riposizionamento all’interno della Nato. C’è anche la variabile dello sviluppo della crisi in Siria.

In ogni caso, è rilevante questo Consiglio Nato-Russia per capire quale margine ci sia per un rilancio vero della parola politica. Perché non sia solo questione di scelte di battaglioni da schierare.

Osservatore romano 13 Luglio 2016

Europa a 27 e Alleanza atlantica

In Polonia il primo vertice Nato dopo Brexit

di Fausta Speranza

La Brexit entra nei dibattiti dell’Alleanza atlantica e dunque anche negli equilibri dell’occidente con la Russia. L’8 luglio si apre a Varsavia il primo vertice Nato dopo il referendum che chiede l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (Ue). Un vertice dal quale ci si aspetta un rilancio della cooperazione tra Nato e Ue, anche alla luce del ruolo sempre più importante di Mosca sullo scacchiere internazionale e, a questo punto,  di fronte ai possibili vantaggi che Mosca potrà trarre da un’Europa a 27.

Il Regno Unito copre, tra gli alleati europei della Nato, un quarto della spesa per la difesa. Si capisce bene, allora,  perché il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, alla vigilia dell’incontro a Varsavia, abbia rassicurato che «la Brexit cambierà il rapporto tra Regno Unito e Ue, ma non cambierà la posizione di Londra all’interno della Nato». Ma Stoltenberg ha voluto anche sottolineare che «i rapporti con Bruxelles si intensificheranno», annunciando che, proprio nella capitale polacca, i vertici della Nato e dell’Unione europea «firmeranno una dichiarazione di impegno a sviluppare e rafforzare la cooperazione».

Se si compattano le fila è perché le sfide incombono. Dal punto di vista della Nato, viene meno nel cuore dell’Unione europea  il più forte alleato degli Stati Uniti, dunque c’è bisogno di sentire Bruxelles più vicina, al riparo da posizioni distanti da Washington. Dal punto di vista dell’Ue, l’esito del referendum britannico comporterà l’uscita del Paese che ha tenuto testa alla Russia su dossier cruciali come i fatti della Crimea e la crisi ucraina, ma anche sulle questioni energetiche. Sulle sanzioni a Mosca, volute in relazione alla situazione nell’est dell’Ucraina, al momento delle decisioni è stata Londra a volere la linea più dura.

Nei giorni del dopo Brexit, un editoriale del New York Times sosteneva che la scelta dei cittadini britannici era «tutta colpa di Vladimir Putin». Il quotidiano statunitense giungeva a ipotizzare finanziamenti russi ai partiti di euroscettici in Francia e altrove, gli stessi partiti che nel Regno Unito hanno fatto campagna vincente per la Brexit. Al di là delle analisi della stampa bisogna capire quanto questa fase di riassestamento dell’Europa possa giovare al Cremlino.

È innegabile che il presidente russo da tempo lavori con impegno  per un posizionamento nuovo di Mosca nello scacchiere internazionale. Ed è innegabile che, in particolare con l’intervento militare in Siria contro il sedicente Stato islamico (Is), si sia ritagliato un ruolo di peso. La Russia sta incidendo fortemente sugli equilibri del conflitto, anche se ci si augura che sulla voce delle armi prevalga finalmente la voce della mediazione politica.

In ogni caso, la Siria non è l’unico terreno su cui Mosca sta lavorando. C’è il rapporto strategico con la Turchia, che il Cremlino sta ricucendo. Tanto che il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, di recente ha chiesto formalmente scusa a Putin per l’abbattimento, a novembre, del bombardiere Su-24  precipitato al confine tra Turchia e Siria. Ankara per mesi aveva rivendicato il diritto di intervenire in caso di violazioni del suo spazio aereo. Le scuse sono state un chiaro segnale di avvicinamento.  D’altra parte, ad Ankara conviene uno scambio diretto con Mosca anche in considerazione della lotta al terrorismo: gli attentatori suicidi di tanti attacchi sul territorio turco provengono dalle fila degli estremisti islamici delle zone della Cecenia e del Daghestan, ex repubbliche sovietiche. Inoltre, la Turchia sa che il conflitto siriano ha fatto riemergere la questione curda e su questo tema Ankara può aver bisogno dell’appoggio russo. Di fatto, Mosca sta tessendo rapporti nuovi, mentre in fondo il rapporto della Turchia con l’Ue risulta congelato.

Di grande importanza per gli equilibri geopolitici regionali è stato, inoltre, il recentissimo accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele. Un segnale importante è anche la decisione del Governo israeliano di permettere agli aerei di Mosca di sorvolare il proprio spazio aereo, nonostante la storica alleanza tra Russia e Iran.

In tutte queste dinamiche, un’Ue che si ridisegna a 27 rappresenta un elemento di novità. E questo non può non interessare la Nato.

Osservatore 6 Luglio 2016

La Brexit fa paura anche ai tories

Il passo indietro di Boris Johnson

di Fausta Speranza

La Brexit non finisce di stupire, oltre che dividere. Lo dimostra il passo indietro compiuto ieri dall’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, vincitore dal referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, per il quale sembrava scontata la candidatura alla successione di David Cameron. Al suo posto, per il ruolo di premier si fa ora il nome di una donna, Theresa May, l’attuale ministro dell’Interno che, pur non avendo mai nascosto il proprio euroscetticismo, meno si è esposta sulla Brexit.

Boris Johnson, dipinto dai media come solidale amico di Michael Gove, proprio dal Lord Cancelliere e segretario di Stato della Giustizia  britannica è stato definito non adatto a candidarsi alla leadership del partito conservatore e dunque al ruolo di premier dopo l’annuncio delle dimissioni di David Cameron. I tempi prevedono prima la votazione all’interno del partito il 2 settembre, e poi l’investitura alla conferenza di autunno, il 2 ottobre.

Per il ruolo di capo del Governo, oltre alla figura di Gove, guadagna posizioni Theresa May, che i media già definiscono la nuova Margaret Thatcher. May, che nel 2012 è diventata la seconda presidente donna dei conservatori, respinge i paragoni con la “lady di ferro” e quelli con Angela Merkel, ma ricorda che ha un nonno sergente maggiore dell’esercito, per sottolineare di avere i requisiti adatti a governare i sudditi britannici.

Il referendum ha spaccato il Regno Unito, ha contrapposto la vecchia e la nuova generazione, ha creato divisioni interne a conservatori e laburisti. Questi risvolti potevano anche essere messi in conto. Più difficile, invece, era prevedere che proprio la guida del fronte vittorioso, dopo un brevissimo festeggiamento, si ritirasse quasi sottotono. Era davvero arduo infatti immaginare che, invece di rivendicare la vittoria, fossero in tanti a prenderne le distanze. Ma questo succede, se Johnson è costretto a ritirarsi, dopo essere stato acclamato vincitore e probabile futuro premier.

A questo punto bisogna capire se il sì alla Brexit venga davvero percepito come una vittoria. È fuori discussione che l’espressione della volontà del popolo sovrano sia comunque un’affermazione della logica democratica. Ma dalle vicende di queste ultime ore appare meno scontato che l’uscita dall’Unione europea sia considerata una conquista da tutti coloro che l’hanno voluta, il 51,8 per cento dei votanti. E i sondaggisti sembrano confermare: in tanti non rivoterebbero il fronte Leave.

Chi si accinge a guidare il Governo britannico deve tener conto di tutto questo. C’è chi addirittura ritiene che si debba considerare l’ipotesi, davvero poco probabile, di un nuovo referendum. Più sicuro è il fatto che il nuovo premier dovrà fare i conti con la Scozia, decisa a rimanere nell’Unione europea.

Resta da considerare il valore di un voto popolare che va innanzitutto rispettato e che, se smuove pedine inattese, rimanda alle parole attribuite a Winston Churchill. Non si sa se le abbia davvero pronunciate ma tradizione vuole che, all’annuncio della sua sconfitta alle elezioni del 1945, lo statista, che aveva guidato la Gran Bretagna durante tutto il drammatico sviluppo del conflitto mondiale, abbia commentato: abbiamo combattuto contro il nazismo perché episodi come questi potessero verificarsi.

Osservatore romano 2 Luglio 2016

Il restauro del Santo Sepolcro

 

Alla ricerca della roccia

dalla nostra inviata a Gerusalemme Fausta Speranza

È un laico arabo il rappresentante dei francescani della Custodia di Terra Santa che partecipa come supervisore della comunità cristiana dei latini ai lavori di restauro del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Nessuno dei 90 frati, alcuni studiosi di archeologia e storia, che sono a Gerusalemme è stato coinvolto. La proprietà è delle tre confessioni che gestiscono la basilica, greco-ortodossi, latini e armeni, ma i lavori sono in mano ai religiosi greco-ortodossi, che si avvalgono degli esperti dell’università di Atene, guidati da una donna, l’ingegnere Antonia Marapoulou.

Il restauro è iniziato a fine maggio e, al momento, le paratie di copertura lasciano intravedere qualcosa della prima fase dei lavori, quella di smantellamento delle lastre di marmo che rivestono l’edicola. L’edicola ripropone nella sua composizione le tombe del tempo di Gesù, formate da un vestibolo, in cui si ungeva il corpo e lo si deponeva nel sudario, e dalla camera sepolcrale.

Il punto è che, dal momento che le lastre di marmo sono rovinate e vanno rimosse, è di grande interesse verificare che cosa possa emergere dalla roccia originaria che si immagina possa essere conservata sotto le sovrapposizioni del tempo. Tradisce emozione, pensando a questo, padre Eugenio Alliata, archeologo di grande competenza, direttore dell’Istituto Studium Biblicum Francescanum, che ha sede nel convento della flagellazione, uno dei nove conventi francescani a Gerusalemme. Lo incontriamo tra i reperti storici, capitelli e frammenti di colonne, che stanno nel giardino del convento, posizionato sulla via Dolorosa.

Padre Alliata racconta all’«Osservatore Romano» che non è stato coinvolto in nessun modo nei lavori e che non vuole essere indiscreto, anche se ci confessa di avere il cuore lì, dove si scalpella. I francescani della Custodia hanno accettato che fosse un laico a rappresentarli nella supervisione, per facilitare una procedura che stentava a partire.

Ora si lavora alla rimozione delle lastre di marmo, danneggiate in diverso modo dall’afflusso dei pellegrini negli anni, in particolare dalle candele accese senza sosta. E si procede di notte, per non impedire l’accesso ai fedeli. Poi, sarà la volta della pulitura dei materiali, che svolgendosi in altri ambienti, si potrà fare di giorno, senza disturbare le visite. Sappiamo che parte del laboratorio di restauro sarà nella galleria superiore dei latini.

Marapoulou assicura, dunque, che la basilica non sarà mai chiusa durante i lavori, che dovrebbero durare circa un anno e che al momento vedono impegnati 27 architetti ed esperti. Ma, nel complesso, coinvolgono 70 persone. Secondo l’ingegnere, sarà una fase molto delicata anche quella di consolidamento della muratura di epoca crociata, che «richiederà la riparazione con materiali coerenti con quelli antichi».

Ma bisogna capire di quale antichità parliamo. La storia del Santo Sepolcro è sui libri, ma abbiamo il privilegio di sentirla riassunta da padre Alliata che, con francescana semplicità, ci spiega termini particolari e sintetizza passaggi storici complessi. Tradisce l’attesa di sapere cosa si potrà conoscere di più di quello che le ultime generazioni hanno visto. Bisogna ricordare che nel 1009 l’autorità islamica dell’epoca fece distruggere la struttura che l’imperatore Costantino aveva fatto costruire per proteggere la pietra su cui era stato adagiato il corpo di Gesù per essere lavato e quanto rimaneva del sepolcro dove era stato deposto il corpo, prima della Risurrezione. La distruzione voluta dal califfo è stata radicale. Su quello scempio, su possibili resti della pietra originaria, sono intervenuti, con le loro costruzioni, i bizantini, i crociati. Con strutture, ornamenti e iscrizioni latine. Tutto ciò formava cupola ed edicola che sono state travolte dal disastro avvenuto in epoca napoleonica. Parliamo dell’incendio che si è sprigionato nel 1808 dalle camere dei religiosi armeni e che è divampato nella basilica, facendo crollare la cupola e danneggiando seriamente l’edicola. Il tetto della rotonda, infatti, è sprofondato sull’edicola distruggendo la sommità e il rivestimento in marmo e calcare. Fino al 1868 sono stati fatti lavori di restauro. Nel 1810 vennero affidati ai greco-ortodossi dalle autorità civili del momento, che facevano capo al Sultano prima del mandato britannico su questi territori assunto dopo la prima guerra mondiale. I greco-ortodossi, dunque, hanno gestito il restauro, che ha significato la rimozione delle scritte latine e l’inserimento degli elementi del barocco costantinopolitano che si presentano oggi.

Le domande storico-archeologiche sono presto dette. Ci si chiede quanto delle mura antiche costantiniane possa essere conservato, in termini di frammenti, dietro a quello che finora è stato visibile. E anche cosa potrebbe esserci conservato delle icone precedenti. Ma la domanda ancora più importante è quanto potrà essere ritrovato della roccia originale. Cosa di significativo per i credenti potrebbe emergere da quello che quelle mura conservavano. Padre Alliata ci spiega che nel 1009, secondo testimonianze più che attendibili, la costruzione che proteggeva i resti originali della tomba di Cristo lasciava intravedere tali resti, così come i segni dei cavatori, riportati da modelli copiati.

Ci sono, poi, le domande che potrebbero essere definite a carattere logistico. Padre Alliata ci dice quelle che ha nel cuore. Ci confida di chiedersi «come tutto ciò che potrà emergere sarà davvero ben studiato e documentato, come potrà essere conservato e se saranno pensate e allestite delle specie di finestrelle per rendere visibili parti di pietra che emergeranno dietro le lastre di marmo». Le lastre, è stato spiegato, saranno ripulite e riposizionate.

Padre Alliata ci ricorda che l’anno scorso la basilica del Santo Sepolcro è stata chiusa un giorno, in seguito alla caduta di un pezzo di cornicione dell’edicola. Da allora, secondo le norme vigenti, le tre comunità, greco-ortodossi, latini e armeni, hanno avuto un tempo per accordarsi sulle modalità di gestione dei restauri, prima che, in assenza di un’intesa, la gestione stessa passasse alle autorità civili, come previsto per motivi di emergenza. Padre Alliata sottolinea l’importanza di aver trovato in qualche modo l’accordo, anche a costo di qualche rinuncia, perché solo l’accordo poteva lasciare all’interno delle comunità proprietarie del Santo Sepolcro la gestione della cura, anche in termini di restauro, di qualcosa di così tanto caro alla cristianità.

Osservatore Romano 24 Giugno 2016

Nuovi fedeli in Terra santa

Cambia la tipologia dei pellegrini

dalla nostra inviata Fausta Speranza

Parlano cinese e indonesiano. Sono i nuovi pellegrini che arrivano in Terra santa, in questi tempi generalmente segnati dal calo di visite. È quanto ci racconta il francescano che guida la comunità di Ein Kerem, il villaggio ai piedi di Gerusalemme dove si recò Maria per incontrare Elisabetta, madre di Giovanni Battista. Padre Severino è in questa terra da ventotto anni, ma per venticinque è stato a Betlemme. Arrivato ai tempi della prima Intifada — racconta al nostro giornale — ha poi conosciuto, subito dopo il 1993, la tensione per la delusione degli accordi di Oslo che non portavano risvolti decisivi di vera pace e ha vissuto, nel 2000, lo scoppio della seconda Intifada. Afferma che «oggi in Israele e nei territori palestinesi la situazione è calma, in confronto agli anni passati, ma arrivano sempre meno pellegrini da Europa e America latina». Certamente il vicino conflitto in Siria e tutto il terrore che il sedicente Stato islamico ha portato in Medio oriente non aiutano. Ma padre Severino giustifica il calo con la crisi economica, piuttosto che con il timore di disordini e violenze. Ci spiega anche che, chi arriva, lo fa in gran parte senza ricorrere ad agenzie ma organizzando, con la famiglia o pochi amici, trasferimenti e alloggio. Sottolinea con un sorriso che davvero tanti arrivano negli ultimi tempi da Pechino.

Un tempo le case dei francescani per pellegrini, definite Casanova, erano una quindicina. Oggi ce ne sono una a Gerusalemme, una a Betlemme, una a Nazareth. Da poco si è aggiunta proprio quella a Ein Kerem, dove padre Severino, che l’ha fortemente voluta, ci racconta con orgoglio che offre anche un servizio di ristorazione la sera, per la popolazione locale. Il villaggio di En Kerem era popolato da arabi, ma al momento della nascita dello Stato di Israele, nel 1948, se ne sono tutti andati via, a eccezione di una sola famiglia di arabi cristiani. Negli anni si è ripopolato di ebrei. Oggi, la comunità cristiana, che gravita intorno alla basilica di San Giovanni Battista, è formata di solo quattro fedeli, in comunione con i dieci frati che abitano il convento e gestiscono la casa di accoglienza.

Padre Severino, che è polacco e al secolo si chiama Leszek Lubecki, ci racconta di curare personalmente la cucina del convento e del servizio di ristorazione e ci confida la soddisfazione di avere molti clienti ebrei che prenotano per la cena. Afferma che «si tratta di un segno dei tempi». Spiega all’Osservatore Romano che «i francescani in Terra santa si sono ritrovati più spesso facilmente a contatto con il mondo arabo, cristiano nella minoranza e musulmano nella maggioranza, ma che è stato bello e importante avviare un rapporto nuovo e più intenso con gli ebrei negli ultimi anni». Ci dice che, in particolare, si deve a padre Pierbattista Pizzaballa, che è stato custode di Terra santa dal 2004 fino all’elezione a maggio scorso di padre Francesco Patton. Padre Pizzaballa «conosceva l’ebraico molto bene e ha favorito e incoraggiato tale scambio».

Incontriamo padre Severino in un viaggio che ci porta al cuore del contributo dei francescani in Terra santa, in vista del significativo anniversario che cadrà nel 2017: ottocento anni di presenza a tutela dei luoghi santi, a cura delle pietre che hanno vissuto la storia di Cristo, ma anche delle persone, “pietre vive” della Chiesa. Con lui parliamo di sfide antiche, diverse come le diverse vicissitudini di questa terra nei secoli, e delle sfide attuali per i cristiani di oggi, che tra Israele e Palestina sono 250.000, cioè il 2 per cento della popolazione. Ma la Custodia di Terra santa, la provincia dei francescani che comprende questi territori, si estende fino a Siria, Libano, Cipro, Rodi. E padre Severino, ce lo ricorda subito, invitandoci a guardare alla Siria, Paese martoriato da cinque anni di conflitto, e ricordando i confratelli che «sono rimasti soli in territori da cui sono fuggiti tutti», come la zona che ci cita al confine con la Turchia. Ci dice: «Quei confratelli più di tutti noi, attendono l’incoraggiamento del nuovo custode, padre Patton».

Di padre Francesco Patton, tutti ci dicono in questi luoghi che sta già portando la sua personale testimonianza di dialogo, nella migliore tradizione francescana. Ha appena terminato, sabato 18 giugno, il ciclo di celebrazioni liturgiche che accompagnano l’ingresso del nuovo custode nei vari siti. Sabato scorso, è stata la volta della basilica dell’Annunciazione a Nazareth, dove, accolto da molti fedeli e rappresentanti di diverse fedi, ma anche da autorità civili, ha portato la sua benedizione alla grotta di Maria, nel piano inferiore della basilica, e ha poi guidato la consueta fiaccolata, ai primi vespri della domenica, nelle vie limitrofe, con la recita del rosario in varie lingue. Il 6 giugno c’era stato il primo ingresso solenne a Gerusalemme. Nei giorni successivi, sono seguite le celebrazioni al Santo Sepolcro e al Cenacolo, e poi l’arrivo a Betlemme e la prima messa a Giaffa, l’11 giugno, in occasione della festa di Sant’Antonio.

Per padre Patton la prossima celebrazione solenne sarà il 24 giugno, proprio nella basilica di San Giovanni Battista a Ein Kerem. Ma sarà a luglio, precisamente dal 3 al 5, che padre Patton presiederà il suo primo capitolo custodiale a Gerusalemme. Finora ai confratelli ha ripetuto di essere arrivato in Terra santa “in punta di piedi”, in ascolto, venendo da esperienze diverse. Il capitolo sarà il momento per assumere la guida della custodia, ottocento anni dopo la nascita delle province dell’ordine francescano e nella memoria della visita di Francesco di Assisi in questi luoghi, negli anni tra il 1218 e il 1220, quando, pellegrino di pace in tempo di guerra, in piena v crociata, incontrava il sultano Malek el-Kamel. Da allora, ribadiscono i frati, il messaggio evangelico di pace è sempre lo stesso.

Osservatore Roma, 22 Giugno 2016

Otto secoli di presenza francescana in Terra santa

In autunno una mostra ad Acri

della nostra inviata Fausta Speranza

Una mostra nella città di Acri e l’arrivo di frati da tutto il mondo. Così prenderanno il via le celebrazioni per gli ottocento anni di presenza francescana in Terra santa, nel 2017. A ospitare i momenti iniziali sarà la città dell’Alta Galilea, da sempre porto strategico di una terra che è essa stessa crocevia fra tre continenti, Europa, Asia, Africa. Ad Acri arrivò Francesco d’Assisi nel suo viaggio da pellegrino di pace e quando nei luoghi santi imperversava la guerra. Luoghi santi ma, non solo allora ma troppo spesso, teatro di conflitti e contese.

Al momento non c’è ancora un titolo per l’esposizione o un programma preciso di eventi, ma padre Quirico Colella, francescano di 68 anni che ne ha trascorsi 51 in Israele e Palestina, ne parla con «L’Osservatore Romano». Incontriamo padre Colella proprio ad Acri, unica città al mondo del periodo crociato che si è conservata fino a noi. E’ patrimonio mondiale dell’Unesco il porto, appartenuto ai Templari, il bazaar e tante case e mura dei quartieri di genovesi, pisani, veneziani, che nel XII secolo hanno lasciato rispettivamente le varie repubbliche marinane per arrivare in questa città, dove nel 1104 inizia il periodo crociato, fino alla conquista islamica nel 1291. Nel 1187, quando Gerusalemme cade nelle mani dell’esercito arabo di Saladino, ad Acri vengono a stare il re e il Patriarca di Gerusalemme. Ma la storia della città è già documentata intorno al 1500 a.C., in epoca faraonica, con il nome di Akko. Poi, sotto la dinastia ellenistica dei Tolomei la città sul mare prenderà il nome di Tolemaide. Per i cristiani, è San Giovanni di Acri, in ricordo di Giovanni Battista. I cavalieri di San Giovanni, insieme con Templari, Teutonici e i cavalieri di san Lazzaro, sono stati protagonisti della storia. E Acri conserva strutture ospedaliere e strategici tunnel da loro costruiti.

Padre Colella spera di aprire quello che definisce «il giubileo della presenza francescana in Terra Santa» nel mese di ottobre o di novembre di quest’anno, per proseguire sino alla fine del 2017. «Acri è la porta francescana in Terra Santa» ci dice padre Colella, che ricorda la lunga dominazione islamica dal vii secolo al mandato britannico dopo il secondo conflitto mondiale, ma ricorda anche che i frati non hanno mai lasciato la custodia dei luoghi santi.

Oggi ai francescani è affidata la cura di 74 santuari in Terra Santa, dove si contano 250 frati. Ma bisogna ricordare che la Custodia spazia da Israele alla Palestina, dalla Siria alla Giordania, dal Libano a Cipro e Rodi, e comprende anche alcuni conventi in Italia, negli Stati Uniti e in Argentina.

“Acri è la porta francescana in Terra Santa”, ci dice padre Colella, che ricorda la lunga dominazione islamica dal VII secolo al mandato britannico dopo il secondo conflitto mondiale, ma, con un sorriso, ci ricorda anche che i frati non hanno mai lasciato davvero la custodia dei luoghi santi.

Di Custodia a tutti gli effetti giuridici si tratta. Ma bisogna ricordare le tappe. Nel prossimo anno, precisamente, saranno otto secoli da quando, nel 1217, l’Ordine di Francesco di Assisi, riconosciuto ufficialmente nel 1210, dava vita alle sue province. Nasceva la Provincia Oltremarina, con sede ad Acri. Nasceva con l’obiettivo di portare pace e parola di Cristo. Lo stesso obiettivo che guidò San Francesco, pellegrino durante la V crociata. Da uomo di pace arrivò nel 1219 ad Acri. E riuscì nell’intento di incontrare, in Egitto, il Sultano, al Malik al Kamel. Aveva il permesso del legato pontificio che recitava “a suo rischio e pericolo”. Dal Sultano sappiamo che Francesco ricevette il lasciapassare per visitare i luoghi santi di Gesù, senza incappare così nella scomunica per chi vi faceva visita pagando le richieste tasse agli islamici.

Tra alterne vicende storiche, è nel 1342, con la Bolla pontificia di Papa Clemente VI, che si sancisce la Costituzione giuridica della Custodia di Terra Santa. Poi, ci saranno diversi pronunciamenti di Papi che ribadiranno il ruolo speciale dei religiosi che, nelle cronache e nei documenti antichi, sono citati come “i frati della corda”.

Tanti gli episodi chiave di questi ottocento anni, che hanno visto i francescani farsi martiri ma anche farsi protagonisti degli acquisti determinanti dei siti cari al Cristianesimo. Siti comprati dagli esponenti dell’impero ottomano spesso dopo estenuanti trattative. Ricordiamo solo che nel 1291, quando Acri, dopo una strenua resistenza, cadde sotto il dominio islamico, i frati furono costretti a ripiegare a Cipro. Eppure mantennero il loro legame inviando ogni anno due confratelli. In questo caso, fu Papa Giovanni XXII ad autorizzarli, nonostante fossero banditi dalla Terra Santa.

Oggi ai francescani è affidata la cura di 74 Santuari in Terra Santa, dove si contano 250 frati. Ma bisogna ricordare che la Custodia spazia da Israele alla Palestina, dalla Siria alla Giordania, dal Libano a Cipro e Rodi, e comprende anche alcuni conventi in Italia, negli Stati Uniti e in Argentina. Anche questo ci aiuta a dire che il “giubileo della presenza francescana in Terra Santa”, che si festeggerà il prossimo anno, è giubileo della Chiesa tutta.

Osservatore Romano, 19 Giugno 2016