Se la pandemia contagia le relazioni internazionali

Intervista di Fausta Speranza a Giuseppe Morabito

Mentre il Covid-19 mette in crisi almeno 210 Paesi e lascia intravedere una prospettiva di perdita del 3 per cento del Pil mondiale, l’Italia, primo tra gli Stati europei a vivere l’emergenza, cerca faticosamente di traghettarsi nella fase 2. Si devono ancora gestire le urgenze sanitarie, ma si deve anche pensare alle imminenti necessità dell’economia, dei lavoratori, delle imprese, cercando di evitare instabilità sociale. E sulla scena mondiale bisogna tenere la rotta. Il coronavirus, infatti, può avere ripercussioni non solo sulle economie, ma anche sulle relazioni internazionali. C’è la questione degli aiuti assicurati dagli Stati Uniti o da altri Paesi all’Italia e ad altri territori, ma ci sono anche gli equilibri geopolitici legati al prezzo del greggio. Per ragionare su questi aspetti, Fausta Speranza ha intervistato il generale Giuseppe Morabito, membro del Consiglio direttivo della Nato Defense College Foundation.


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A mio parere la pandemia da Covid-19 non deve essere utile solo alla propaganda dei regimi autoritari ma deve rivelarsi un asso nella manica dei Paesi democratici. Innanzitutto, una premessa è d’obbligo: gli Stati Uniti sono un alleato storico dell’Italia. Sono stati i principali artefici della “Guerra di Liberazione” e basta andare non lontano da Roma, al Cimitero Americano di Anzio, per ricordarlo. Il piano Marshall per salvare il Paese dalla deriva comunista è opera di Washington. Siamo entrati nella Nato dalla porta principale grazie al loro appoggio e quindi viviamo in pace da più di 70 anni anche e soprattutto grazie agli Usa. Oggi nei giorni di comune crisi per la pandemia, gli Stati Uniti hanno confermato il supporto per l’Italia colpita dal Covid-19 e la Casa Bianca ha annunciato l’avvio dell’operazione di solidarietà. “La Repubblica Italiana – ha dichiarato Trump – uno degli alleati più stretti e di vecchia data, è stata devastata dalla pandemia del virus di Wuhan, che ha già reclamato più di 18.000 vite, portato la maggior parte del sistema sanitario a un passo dal collasso, e minaccia di spingere l’economia italiana verso una profonda recessione”. “Sebbene la prima e più importante responsabilità del governo degli Stati Uniti sia nei riguardi del popolo americano – continua il documento – andremo in aiuto dell’Italia per sconfiggere l’epidemia di Covid-19 e mitigare l’impatto della crisi, mostrando allo stesso tempo la leadership degli Usa davanti alle campagne di disinformazione cinese e russe, riducendo il rischio di una nuova infezione dall’Europa verso gli Stati Uniti”. Le campagne solidali di Pechino e Mosca in Italia culla della democrazia sono state accompagnate da una non indifferente ventata di propaganda. Nelle ultime due settimane si erano moltiplicate le manifestazioni di vicinanza di Washington all’Italia soprattutto indirizzate al Nord del Paese. La fase operativa ha determinato una mobilitazione della macchina di aiuti che è semplicemente impareggiabile. Da quando il 13 marzo scorso un aereo cinese carico di forniture mediche ed esperti è arrivato in Italia seguito dal team di esperti militari russi, il numero dei morti in Italia e in Spagna ha superato ormai abbondantemente quelli dichiarati dalla Cina. La campagna propagandistica ha previsto anche uno spot in cui l’uomo più ricco della Cina, Jack Ma, distribuisce due milioni di maschere in diversi Paesi europei, tra i quali Spagna, Italia, Belgio e Francia. Pechino, inoltre, ha anche contrastato Taiwan che sta rafforzando la propria immagine a livello internazionale mostrandosi quale esempio virtuoso nella gestione dell’emergenza sanitaria, nonostante la narrazione cinese volta a screditare il governo di Taipei e il suo successo riscontrato nel contenere la diffusione del virus. In particolare una campagna ostruzionistica sta contrastando anche l’arrivo degli aiuti di Taipei a Roma.
Il Cremlino sta gestendo l’aiuto umanitario all’Italia attraverso la sua struttura militare. Sono stati mandati degli aerei cargo, diversi medici dei reparti specializzati dell’esercito, unità mobili per il contenimento delle minacce batteriologiche, mezzi per la sanificazione del suolo e poi un numero imprecisato di militari specializzati. Un’ottima attività di propaganda.
E’ logico aspettarsi aiuti e sarebbe sciocco non accettarli da chi ti ha danneggiato ritardando le campagne d’informazione dell’organizzazione Mondiale della Sanità (la Cina Popolare), comprensibile accettare supporto da chi ci sta danneggiando in Libia sostenendo il ribelle Al Serraj e mettendo a rischio, ad esempio, il futuro energetico nazionale (la Russia). Sarebbe comunque criminale e stupido non mettere in prima linea e in luce la grande dimostrazione di amicizia dell’alleato democratico di sempre.
La pandemia da Covid 19 rappresenta un terremoto per i sistemi sanitari dei vari Paesi coinvolti e uno tsunami per l’economia. Ovviamente tutto questo ha un peso sugli equilibri geopolitici. Nelle scorse settimane, l’attenzione a livello di relazioni internazionali è stata catturata dalla questione petrolio. Il prezzo del greggio ha avuto significative oscillazioni, dopo anni in cui ci ha abituato a ridimensionarne il valore sul mercato. Abbiamo assistito al braccio di ferro tra Arabia Saudita e Russia, ma la partita non si limita a questi giocatori: tra i protagonisti ci sono gli Stati Uniti e poi ci sono tanti altri Paesi coinvolti…

La scorsa settimana l’Arabia Saudita e la Russia hanno concordato un taglio alla produzione di petrolio, l’Ue ha annunciato misure economiche di emergenza per combattere l’impatto del coronavirus ed è iniziato il cessate-il-fuoco per i combattimenti che il governo saudita conduce nello Yemen. L’Arabia Saudita e la Russia hanno concordato di ridurre la produzione di petrolio di 10 milioni di barili al giorno a seguito di una riunione dei Paesi produttori di petrolio dell’Opec Plus e l’accordo prevede una riduzione di 5 milioni di barili al giorno tra l’Arabia Saudita e la Russia, mentre gli altri 5 milioni di tagli vengono effettuati dagli altri paesi dell’Opec. I tagli verranno gradualmente eliminati a scalare con termine nell’aprile 2022. Gli occhi si sono poi rivolti alla riunione dei ministri dell’energia del G-20, in cui, tra gli altri, gli Stati Uniti e il Canada sono stati chiamati a partecipare alla riduzione della produzione di ulteriori 5 milioni di barili al giorno. In particolare, l’intervento degli Stati Uniti, nel ruolo di mediatore nel mercato petrolifero, ha consentito di portare a casa un accordo difficilissimo fra i produttori dell’Opec ed i membri “esterni”. Il Messico ha cercato di far saltare l’accordo Opec Plus, non accettando di tagliare la quota di pertinenza di 300-400.000 barili. Ma un colloquio fra il presidente statunitense, Donald Trump, ed il presidente messicano, Andres Manuel Lopez Obrador, alla fine, ha consentito di portare a casa un compromesso: il Messico taglierà la propria produzione di 100.000 barili ed un taglio di ulteriori 250.000 barili sarà a carico degli Usa, che pure si sono impegnati a ridurre l’output per la porzione di loro competenza, in aggiunta alla riduzione accettata dall’Arabia Saudita e dalla Russia.

In sostanza, qual è stato il pronunciamento del G20 al quale si è arrivati con l’accordo tra Mosca e Riad?

Al G20 dei ministri dell’Energia, dunque, è stato sancito l’accordo che sembra aver soddisfatto tutti “per sostenere la ripresa economica globale e salvaguardare i mercati dell’energia”. Tutti i componenti si impegnano a “lavorare insieme per sviluppare risposte collaborative, che garantiranno la stabilità del mercato in tutte le fonti energetiche, tenendo conto della situazione di ciascun Paese”. “Ci impegniamo a prendere tutte le misure necessarie – assicura lo statement – per garantire l’equilibrio degli interessi tra produttori e consumatori, la sicurezza dei sistemi energetici ed il flusso ininterrotto di energia. Nel fare ciò, siamo particolarmente consapevoli della necessità di garantire che la salute e altri settori che guidano la lotta contro il Covid-19 dispongano delle forniture energetiche di cui hanno bisogno”.

In che modo la Russia ha gestito il suo confronto sui prezzi con l’Arabia Saudita? Quali sono le prospettive dei due grandi Paesi produttori?

La Russia non bene, a mio parere. La contrapposizione di circa un mese con l’Arabia Saudita mostra quanto la Russia abbia esagerato nel forzare la mano in Medio Oriente e un possibile esito di questo contrasto potrebbe configurarsi con la fine dell’ipotesi che Mosca svolga un ruolo significativo nello stabilire un nuovo ordine regionale in un prossimo futuro. La premessa è che, in questo periodo, la Russia ha una situazione finanziaria migliore dell’Arabia Saudita, in particolare con un tasso di cambio flessibile – poiché il rublo si deprezza, il valore delle sue esportazioni aumenta. Senza l’accordo raggiunto avrebbe perso anche miliardi di dollari di entrate con il calo dei prezzi del petrolio, il governo ha un deficit fiscale molto più basso dell’Arabia Saudita e ha più di 500 miliardi di dollari di riserve estere. La monarchia saudita è la guida dell’area spirituale ed economica del mondo arabo e del Medio Oriente e, anche se ha raggiunto un accordo in extremis, non dimenticherà facilmente lo “sgarbo” subito.

Che dire della questione petrolio vista dall’interno dell’Arabia Saudita?

L’Arabia Saudita ha ancora riserve di valuta estera di 500 miliardi di dollari, ma tale “tesoretto” si è ridotto dai 740 miliardi nel 2013. Molti anni di prezzi bassi del petrolio hanno costretto il regno a prendere in prestito denaro e ridurre i sussidi energetici per i suoi cittadini. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ora conta sulle sue riserve per aiutare a diversificare l’economia saudita per il futuro e pare sia stato costretto dagli eventi a rivedere la posizione nella guerra in Yemen. Ricordo che in Yemen si combatte una guerra tra il governo del presidente Hadi sostenuto dall’Arabia Saudita, e riconosciuto dalla comunità internazionale, e i ribelli houthi, finanziati e armati dall’Iran. Faticosamente ora è in atto un cessate-il-fuoco ma, non è ancora chiaro se gli houthi accetteranno l’arresto delle ostilità. L’Arabia Saudita, ad oggi, ha ragione a dare la priorità a una soluzione politica che includa una soluzione bilaterale di termini con gli Houthi. L’alternativa potrebbe essere un “fatto compiuto” attraverso una serie di vittorie militari degli houthi che avanzano sempre di più, a sfavore delle già deboli forze governative di Hadi.

E la prospettiva dall’interno per la Russia?

La Russia ha una capacità di lavorazione limitata e le sue raffinerie hanno strutture di stoccaggio insufficienti. Si affida a lunghi oleodotti per portare il suo petrolio agli acquirenti europei e asiatici. La domanda europea è crollata e i serbatoi di stoccaggio della Russia si stanno rapidamente riempiendo e la Cina sta ancora acquistando petrolio, a prezzi stracciati, ma la sua capacita di stoccaggio sarà completa tra un mese circa, lasciando il greggio russo bloccato. Con migliaia di pozzi di petrolio e gas dell’era sovietica nella Siberia occidentale, la Russia si troverebbe di fronte alla prospettiva di chiudere e poi far ripartire i pozzi, una soluzione costosa e tale processo potrebbe limitare permanentemente la quantità di petrolio da distribuire sulla rete internazionale in futuro. Tutto è in divenire e i prossimi giorni saranno importanti.

In definitiva quale prospettiva intravedere su scala mondiale?

Con così tanti consumatori mondiali di petrolio chiusi in casa a causa delle rigide misure del coronavirus, anche un taglio di 15 milioni di barili nella produzione giornaliera sarebbe probabilmente insufficiente a compensare il calo della domanda. I consumi sono diminuiti così rapidamente che potrebbero passare mesi prima che tornino al livello di 100 milioni di barili al giorno raggiunto nel 2019.

Ricordiamo cosa ha significato nel recente passato il crollo del prezzo del petrolio per un Paese come il Venezuela e dunque per gli equilibri in America Latina?

La guerra dei prezzi tra i produttori mondiali di petrolio ha ridotto le entrate del Venezuela per le sue maggiori esportazioni e ha esacerbato la crisi finanziaria del Paese. La guerra dei prezzi acuisce la crisi economica della nazione sudamericana mentre affronta la pandemia da coronavirus. Più del 90 per cento delle entrate delle esportazioni venezuelane proviene dal petrolio. Il Paese rischia, quest’anno, di avere un budget petrolifero di 8 miliardi di dollari, che è solo un terzo dei 25 miliardi realizzati nel 2019. Tre settimane fa, il presidente Nicolàs Maduro ha definito il crollo del mercato petrolifero un “colpo brutale” che ha fatto scendere il prezzo al di sotto del costo di produzione. La scorsa settimana la produzione del Venezuela è scesa sotto i 700.000 barili al giorno. Il settore petrolifero ha affrontato anni di investimenti insufficienti e le sanzioni degli Stati Uniti hanno limitato l’accesso della compagnia petrolifera statale ai finanziamenti internazionali e gli hanno impedito di commercializzare il greggio negli Stati Uniti. La compagnia petrolifera russa Rosneft, che aveva commercializzato la maggior parte del petrolio venezuelano nel mercato asiatico, la scorsa settimana ha annunciato che le sue attività nel Paese sarebbero state rilevate da un’altra compagnia russa. Questi cambiamenti e un calo della domanda mondiale di petrolio a causa della pandemia hanno messo in crisi il Venezuela in un momento in cui avrebbe bisogno di vendere ancora un maggior numero di barili di greggio. L’anno scorso Maduro ha ridotto i controlli sull’economia che hanno permesso alle aziende e ai privati di operare con maggiore libertà. Il Fondo monetario internazionale, a marzo, ha respinto una richiesta di 5 miliardi di dollari e funzionari del governo hanno contattato le banche cinesi in cerca di sostegno. Nel 2019, il Venezuela ha importato circa 550 milioni di dollari in cibo e ora deve rinegoziare il debito con Cina e Russia. Maduro dovrà anche ridurre le importazioni di beni essenziali dopo che, a differenza di altri governi della regione, ha evitato di esentare dal pagamento delle tasse le società e le imprese chiuse durante la quarantena da Covid 19 e ha anche razionato la benzina, provvedimento che ostacola la distribuzione del cibo al suo stesso popolo. E’ probabile che il “virus di Wuhan” sarà letale per tutto il Venezuela e soprattutto per il suo governo comunista.
Anche in Africa le ripercussioni su Paesi come Nigeria e Senegal si sono fatte sentire pesantemente…
La Nigeria è pronta ad affrontare una grave perdita di entrate. Gli analisti prevedono che il Ghana avrà metà delle entrate previste. In Camerun si prevede un calo del tre percento nella crescita economica. Questi sono solo esempi di come i Paesi africani produttori petroliferi sono stati e saranno tra i più duramente colpiti dalla pandemia di COVID-19 e dal calo del prezzo del petrolio. In particolare, Senegal, Nigeria e Angola continuano ad affrontare ogni giorno nuove sfide a seguito della crisi economica. In un’intervista a inizio marzo a VaticanNews avevo “predetto” una gravissima crisi sanitaria in Africa e ora a questa si aggiunge quella economica.
Il Senegal, da quando è stato scoperto petrolio e gas nel 2014, è emerso come uno dei principali attori dell’industria petrolifera e del gas. Di conseguenza, il Paese ha goduto di grandi investimenti stranieri e l’ingresso d’importanti partner internazionali. Tuttavia, la turbolenza del mercato globale ha avuto un duro effetto a catena sul promettente futuro petrolifero del Senegal. In particolare, il primo sviluppo petrolifero del Paese, il progetto offshore Sangomar da 4,2 miliardi di dollari ha subito un’enorme flessione poiché non si riesce a vedere finalizzati gli accordi sul debito. Comunque sia, il Senegal è senza dubbio uno dei produttori di petrolio e gas più promettenti dell’Africa. Guidato dal Presidente Macky Sall, il Paese è pronto per una nuova crescita e per investimenti nonostante ciò che sta accadendo nel mercato globale. Vi sono concrete speranze di vedere buoni risultati dallo sfruttamento del giacimento petrolifero Sangomar e del primo gas dal progetto GNL Greater Tortue.
Per la Nigeria ci sono altri rischi?

La riduzione del prezzo del petrolio creerà enormi problemi per la Nigeria che è il più grande produttore di petrolio dell’Africa. Mele Kyari, amministratore delegato della Nigerian National Petroleum Corporation, ha dichiarato che a un prezzo del greggio di 22 dollari al barile, i produttori di petrolio ad alto costo come la Nigeria dovrebbero considerarsi fuori dal mercato. Gli esperti hanno previsto che il coronavirus avrebbe causato al Paese le maggiori perdite nel continente con 15,4 miliardi di dollari, pari a circa il 4 per cento del PIL nazionale, una valutazione equa considerando che il Paese ha oltre 58 miliardi di dollari in progetti petroliferi e rischia di subire ritardi o cancellazioni. La sua produzione petrolifera contribuisce generosamente alla sua economia. In particolare, l’agenzia del petrolio del Paese ha ordinato alle compagnie petrolifere e a quelle del gas di ridurre la propria forza lavoro offshore e passare alle rotazioni del personale di 28 giorni al fine di evitare la diffusione del coronavirus. Il governo del Paese è convinto che, anche se è difficile vedere la luce in fondo al tunnel, con l’impegno di aziende e resilienza del governo, la Nigeria possa certamente resistere nel medio tempo alla tempesta causata dal Covid-19. Se non ci saranno opportune misure di tutela dei confini, la crisi in Nigeria porterà a maggiore immigrazione clandestina di nigeriani verso l’Italia e, conseguentemente, un “rinforzo” delle compagini di mafiosi nigeriani che già numerosi creano problemi nelle nostre città concorrendo al mercato della droga e alla criminalità in genere. La mafia nigeriana con la sua violenza e crudeltà è un grave pericolo.

on line il 16 Aprile 2020  su MeridianoItalia.tv

Se politica e economia accolgono l’appello del Papa

La “strada giusta” è quella “a favore della gente”. Con queste parole Papa Francesco richiama il mondo alle priorità nell’attuale gestione della crisi da pandemia e indica la via del futuro, per quando il contagio sarà passato ma resterà la crisi economica. Nel Lunedì dell’Angelo, Francesco ha anche rivolto un pensiero forte alle donne ricordando “quanto fanno in questo tempo di emergenza”. Con noi l’economista Luigino Bruni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Papa Francesco, all’omelia della Messa mattutina del Lunedì dell’Angelo, ha lanciato un forte appello a “governanti, scienziati, politici” ricordando il dramma della corruzione.

Al momento della recita del Regina Coeli, Papa Francesco ha ricordato il ruolo delle donne in prima fila nella cura – a diverso titolo – che l’emergenza Covid 19 ha richiesto: dalle donne del settore medico-sanitario o delle forze dell’ordine alle impiegate in negozi di beni primari, o a quante gestiscono le situazioni nell’isolamento delle case dove troppe volte subiscono violenze.

Approfondendo i tanti spunti offerti dal Papa, si deve parlare delle possibili strategie di gestione della crisi, dei mali profondi delle diseguaglianze e della corruzione, ma anche del ruolo che potrebbero avere donne che portassero una logica diversa da quella del potere del più forte in politica.

Bruni: servono alternative alle logiche del potere economico

Bisogna guardare ai problemi che dilagano con maggiore gravità nei Paesi dove non c’è sinergia tra politica e scienza e dove non si ascoltano i bisogni della gente comune, sostiene ai nostri microfoni Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Lumsa. Non si può dimenticare che qualunque priorità dell’economia o del capitale non può mai valere tanto quanto la vita di una persona. Inoltre, è doveroso mettere in luce alcune responsabilità che aggravano le conseguenze e le sofferenze legate alla pandemia: le profonde diseguaglianze sociali, la corruzione e l’evasione fiscale. Senza questi mali, ad esempio, un Paese come l’Italia potrebbe essere più attrezzato nel fronteggiare l’emergenza e soprattutto più forte nel relazionarsi con gli altri Paesi dell’Ue. E poi, afferma ancora Bruni, c’è il richiamo al bisogno assoluto di un’alternativa a logiche aride di potere che, in un mondo finora guidato da uomini, sono in qualche modo logiche maschili: in questo senso, c’è bisogno di logiche alternative, logiche femminili di dialogo, di mediazione, di ricerca del bene comune:

da Vatican NEWS del 13 aprile 2020

In Bosnia la centrale elettrica preoccupa quanto il Covid 19

Crescono i contagi da coronavirus in Bosnia e le strutture sanitarie sono già in gravi difficoltà. A preoccupare, in particolare, è la situazione della zona di Tuzla, dove la gente, nonostante la pandemia, scende in piazza contro la discussa centrale a carbone che nel silenzio generale incrementa l’attività e il livello delle pericolose scorie prodotte. Con noi lo scrittore esperto dell’area dei Balcani Luca Leone

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Bosnia Erzegovina ha decretato lo stato di emergenza, ha chiuso i propri confini e ha iniziato ad applicare misure restrittive per fare fronte alla diffusione del Covid 19 già da una settimana. Ufficialmente i contagi da Coronavirus ad oggi sono circa un migliaio con una quarantina di decessi, ma le cifre sono destinate ad aumentare.

La guerra e i suoi strascichi

Il conflitto in Bosnia ed Erzegovina è scoppiato nell’ambito delle cosiddette guerre jugoslave, tra il 1º marzo 1992 e il 14 dicembre 1995, quando la stipula dell’accordo di Dayton ha posto ufficialmente fine alle ostilità tra serbi, croati, bosgnacchi, cioè bosniaci musulmani. Da allora è storia di difficile ricostruzione mentre centinaia e centinaia di giovani lasciano ogni anno il Paese per mancanza di prospettive. Lamentano un alto tasso di disoccupazione e di corruzione nel Paese che conta circa 3 milioni di abitanti.

Al momento della guerra, l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha parlato di “una guerra mondiale nascosta”, spiegando che tutte le forze mondiali erano “implicate direttamente o indirettamente” e aggiungendo: “sulla Bosnia ed Erzegovina si sono spezzate tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio”.

Di quel conflitto la Bosnia ancora sta pagando care le conseguenze, a partire da strutture sanitarie che già normalmente sono insufficienti rispetto ai bisogni della popolazione e che di fronte alla pandemia stanno palesando tutte le carenze. E ancora sembra avvertire il coinvolgimento di tante realtà internazionali, visti gli interessi sul territorio da parte di tanti Paesi. Dell’emergenza coronavirus, delle più importanti questioni sociali aperte, degli investimenti in corso, abbiamo parlato con Luca Leone, giornalista che da anni racconta le vicende dei Balcani nei suoi reportage e che di recente ha pubblicato per Infinito Edizioni il volume “La pace fredda”, dedicato alla Bosnia ed Erzegovina:

La vicenda della centrale

Nonostante l’emergenza coronavirus, nei pressi di Tuzla, terza cittadina del Paese, decine e decine di persone sono scese in piazza per bloccare i lavori di costruzione della nuova discarica per le polveri di carbone della centrale termoelettrica programmata nella frazione di Bukinje. La zona di Tuzla ha un passato industriale e un presente di forte inquinamento e disoccupazione. La minaccia per la salute pubblica proviene dall’imponente centrale a carbone da 715 megawatt, con sei unità costruite tra gli anni Sessanta e Settanta, una miniera di carbone a cielo aperto e una discarica delle polveri e di altri residui della centrale, situata appena fuori dalla città.

“Nessuno ha informato gli abitanti di Bukinje che le scorie solide e le polveri di produzione della centrale di Tuzla sarebbero state depositate qui, dove già viviamo nella polvere e nel fango” ha denunciato Goran Stojak, presidente della circoscrizione di Bukinje. Da anni gli abitanti protestano contro l’inquinamento generato dall’impianto, che, secondo uno studio indipendente realizzato dalla coalizione Europe Beyond Coal, sarebbe stato causa di almeno 274 morti premature.

da Vatican NEWS del 14 aprile 2020

La questione petrolio tra geopolitica e risvolti sociali

Un G20 straordinario a livello di ministri dell’Energia per discutere della questione petrolio, non di poco conto negli scenari problematici per l’economia globale in seguito alla pandemia. L’accordo tra Arabia Saudita e Russia è solo uno dei fattori in gioco di una “partita” geopolitica che coinvolge anche altri attori a livello internazionale e che ha effetti sull’economia reale di molti Paesi tra cui anche quelli emergenti. Con noi l’esperto di politiche economiche Carlo Altomonte

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ultimo aggiornamento 11.04.2020

Russia e Arabia Saudita hanno concordato una riduzione della produzione del greggio che possa difendere i prezzi. Sembra si tratti di un taglio di 10 milioni barili al giorno per due mesi. E’ quanto contenuto nella bozza d’intesa emersa giovedì nel corso dell’incontro virtuale Opec +, ovvero del cartello dei Paesi esportatori allargato a una serie di membri esterni. L’accordo prevede che Riad riduca la sua produzione di quattro milioni di barili al giorno, Mosca di due milioni e che tutti i membri si impegnino per una compressione del 23 per cento. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei giorni scorsi aveva fatto pressione affinché si arrivasse al compromesso spiegando che anche la produzione record degli Stati Uniti si ridurrà “automaticamente” in base alla domanda di mercato. Mosca chiede che Washington faccia di più.

In video conferenza i ministri del G20

Dopo settimane di tensione che hanno provocato il crollo dei listini e la possibile intesa tra Riad e Mosca, di petrolio si  è parlato al G20 straordinario dei ministri dell’Energia presieduto ieri dall’Arabia Saudita senza il raggiungimento di alcuna intesa nonstante l’intesa parziale tra Stati Uniti e Messico. Dei protagonisti degli equilibri geopolitici coinvolti, delle possibili ripercussioni anche sulle economie di tanti Paesi in Medio Oriente, in Africa, in America Latina, ma anche del piano finanziario, e dunque degli scenari di rischio per la Borsa di New York, o delle prospettive di energie rinnovabili da non perdere di vista nell’emergenza pandemia, abbiamo parlato con Carlo Altomonte, docente di Politiche economiche all’Università Bocconi:

Gli sviluppi di settimane di tensione

In questo inizio di anno segnato dall’epidemia in Cina e poi dalla pandemia, il prezzo del greggio ha avuto significative oscillazioni, dopo anni in cui ci ha abituato a ridimensionare il valore sul mercato. Il 9 marzo i sauditi, primi produttori al mondo, hanno deciso a sorpresa di aumentare la produzione deprimendo ulteriormente i prezzi già in caduta libera per il collasso della domanda (in particolare cinese) causato dall’epidemia. L’annuncio ha causato il crollo del prezzo, sia sul mercato azionario che obbligazionario, più pronunciato dal 1991, ovvero dalla prima guerra del Golfo. La settimana precedente Mosca aveva respinto la richiesta dell’Opec di tagliare la produzione per sostenere i corsi, sciogliendo di fatto un patto di mutuo soccorso siglato quattro anni fa.

Gli interessi geopolitici

Il crollo del prezzo conseguente alla decisione di Riad, secondo gli analisti, poteva avere ripercussioni anche per gli Stati Uniti: che scommettono da tempo sullo shale oil, cioè un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso. Si tratta di una tecnica sostenibile se il prezzo del greggio estratto non scende sotto i 50 dollari al barile. A Mosca potrebbe non dispiacere vedere in difficoltà su questo tema Washington che ha imposto sanzioni su Rosneft, la compagnia petrolifera di proprietà in maggioranza del governo russo, ma il danno per le casse della Russia sarebbe stato oneroso.

I rischi per i Paesi emergenti

La questione petrolio ha ripercussioni di tipo geopolitico – ne sono investiti in particolare Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti – ma non solo: ci sono profonde ripercussioni anche per l’economia di alcuni Stati meno protagonisti sullo scacchiere internazionale. Basti pensare alle difficoltà in Venezuela, dove il tracollo economico degli ultimi anni ha certamente anche altre radici tra cui un’economia troppo dominata dalla risorsa del greggio, ma sicuramente ha avuto un ruolo estremamente significativo il crollo del prezzo. A catena, ci sono state ripercussioni e ci potrebbero essere in futuro per Paesi emergenti, in Medio Oriente, in Africa, in Indonesia.

Non dimenticare l’impegno per le energie rinnovabili

La Banca europea per gli investimenti smetterà di finanziare progetti basati su petrolio, gas e carbone nel 2021. E’ solo uno degli impegni previsti a livello di Unione europea per dirottare l’economia verso il consumo di energie rinnovabili, per contrastare i disastri provocati dall’inquinamento dei combustibili fossili. Sappiamo che i Paesi emergenti non saranno pronti a una conversione verso un’economia verde per almeno i prossimi dieci anni, ma è fondamentale che l’Europa porti avanti nel mondo questa battaglia. Il rischio è che nella crisi economica in conseguenza della pandemia proprio per il vecchio continente scarseggino le risorse per puntare a un’economia verde. In realtà, l’infezione da Covid 19 mostra al mondo i rischi di alterazioni dei cicli naturali. Sembra emergere, tra l’altro, un dato: la polmonite interstiziale causata dal coronavirus è stata più letale in zone ad alto inquinamento.

da Vatican NEWS del 10 aprile

L’urgenza di nuovi modelli economici di fronte alla pandemia

La gravità e l’urgenza delle conseguenze del Covid 19 per la salute pubblica e per l’economia richiedono misure immediate e specifiche. Ma soprattutto la crisi che stiamo vivendo a livello planetario esige un significativo ripensamento dei modelli economici e delle priorità in tema di flussi finanziari. Con noi l’esperto di relazioni internazionali Matteo Luigi Napolitano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A causa del coronavirus sono in difficoltà i sistemi sanitari dei Paesi ricchi con conseguenze economiche che già si palesano serie e certamente non possiamo pensare che ce la facciano da soli i Paesi poveri. L’emergenza economica non può essere risolta fino a quando non sarà stata risolta l’emergenza sanitaria e questa non finirà solo battendo la malattia in un Paese, ma garantendo il recupero dal contagio di Covid 19 in tutti i Paesi.

Appello ai leader mondiali

In una lettera ai leader del G20, alcuni politici e intellettuali – tra questi l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, gli ex presidenti della Commissione europea José Manuel Barroso e Romano Prodi,  ex capi di governo o ex presidenti di Paesi europei e dell’America Latina – chiedono che venga messa in moto un’azione coordinata immediata a livello. Chiedono aiuti di emergenza per iniziative sanitarie globali che siano gestite dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e misure di emergenza per ripristinare l’economia in tutto il mondo. In sostanza ricordano che è necessario che i leader mondiali si impegnino a finanziare importi ben superiori all’attuale capacità delle istituzioni internazionali.

L’importanza di strategie nuove

Si parla tanto di sussidi alle imprese in difficolta’, di aiuti ai poveri, ma non puo’ essere solo questione di sovvenzioni emergenziali. Bisogna ripensare alcune priorità. L’urgenza di dare una risposta nell’immediato deve essere accompagnata da un ripensamento dei modelli economici così come li abbiamo elaborati finora. Ad esempio, bisogna capire che ci vogliono più soldi alla ricerca e meno alle armi o che i Paesi poveri si possono davvero aiutare cancellando il loro debito che non saranno mai in grado di estinguere. Inoltre, il rispetto per l’ambiente non dovrebbe essere piu’ un valore teorico ma un paradigma di sopravvivenza. Di tutte queste sfide da raccogliere abbiamo parlato con Matteo Luigi Napolitano, docente di diplomazia e relazioni internazionali all’Università degli studi del Molise:

da Vatican NEWS dell’8 aprile 2020

Anche suprematisti bianchi nella lista nera di Washington

Per la prima volta gli Stati Uniti hanno inserito un movimento di suprematisti bianchi tra le organizzazioni tacciate di terrorismo. Si tratta di un gruppo nato a Mosca che ha contatti e affiliati fuori della Russia e che promuove ideali neonazisti. Con noi l’esperto di questioni della difesa Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ormai ufficialmente il Movimento imperiale russo e tre dei suoi leader, Stanislav Vorobiev, Denis Gariev e Nikolai Trushchalov, compaiono tra i sospetti terroristi. Il vecchio sito web del gruppo è stato bandito in Russia per estremismo, ma il movimento stesso non è considerato “terrorista” da Mosca. Washington lo accusa di  fornire addestramento paramilitare ai neonazisti e ai suprematisti bianchi in due centri di San Pietroburgo, e di aver così addestrato alcuni svedesi che hanno poi effettivamente effettuato attacchi nel loro Paese tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Il coordinatore dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato, Nathan Sales, ha sottolineato che “la misura mostra quanto seriamente l’amministrazione di Donald Trump prenda seriamente la minaccia che rappresenta”. L’Amministrazione Trump ritiene che questo gruppo “svolga un ruolo importante nel tentativo di radunare europei e statunitensi in un fronte comune contro coloro che percepiscono come nemici”, ha affermato il diplomatico.

Propaganda di violenza

 Il movimento che si definisce monarchico afferma di essere in grado di allenarsi nella lotta con i coltelli e nelle arti marziali e considera “una debolezza criminale per un uomo moderno in Russia non essere un guerriero”. Lo ha ricordato Nathan Sales commentando: “Vogliamo assicurarci che non sia in grado di fare lo stesso qui negli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti non sono immuni da questa minaccia” del “terrorismo legato al suprematismo bianco”, che si è diffuso in tutto il mondo dal 2015, ha ammesso il diplomatico.

Per una riflessione sui significati di questa decisione dell’Amministrazione Trump, abbiamo intervistato Pietro Batacchi, Direttore della Rivista Italiana Difesa:

Il pensiero va ai recenti attacchi contro le sinagoghe a Pittsburgh, dove 11 persone sono morte nell’ottobre 2018, e a Poway, in California, dove un suprematista bianco di 19 anni ha ucciso una donna e tre persone ferite nel mezzo della Pasqua ebraica nel 2019. Ma bisogna ricordare anche la sparatoria dell’estate scorsa a El Paso. In quel caso, il killer, prima di uccidere 22 clienti del supermercato, aveva scritto un manifesto in cui denunciava “un’invasione ispanica del Texas”.Per anni, molti analisti statunitensi hanno sottolineato che veniva  trascurato il cosiddetto terrorismo interno, che ha ucciso più negli Stati Uniti dal 2002 del jihadismo. A luglio scorso il direttore della polizia federale, Christopher Wray, ha assicurato che erano state aperte 850 inchieste per “terrorismo interno” e che i suoi agenti avevano effettuato cento arresti.

da Vatican NEWS del 7 aprile 2020

Centuplicati i casi di coronavirus negli Usa

Gli Stati Uniti hanno raggiunto in 24 ore il triste record di 1150 morti per Covid 19, mentre la Cina annuncia di aver azzerato le vittime. Sono in crescita i contagi in America Latina e in Africa. Dal Regno Unito la notizia che il premier Johnson è in terapia intensiva, mentre in Italia arrivano centinaia di milioni per le imprese in difficoltà e si intravede la fase discendente. Appello dell’Onu contro i mercati di fauna selvatica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In 20 giorni negli Stati Uniti i casi si sono centuplicati e si parla di blocco dei voli interni. A New York, preoccupante epicentro, in uno dei piani di emergenza si ipotizzano fosse comuni nei parchi di fronte all’emergenza sepolture. Da Chicago un dato: più della metà dei casi è nella comunità afroamericana, anche se rappresenta solo il 30 per cento della popolazione. In America Latina salgono i numeri, in Brasile resta uno solo dei 27 stati senza contagi. In Venezuela, l’allarme ha messo in moto migliaia di rimpatri dai paesi vicini, con conseguenti difficoltà.

Difficoltà nel Regno Unito

Nel Regno Unito i contagi sono circa 50.000, di cui un quinto solo a Londra. E le funzioni di capo del governo sono passate, come da regolamento, al ministro degli Esteri Dominic Raab, dopo che si sono aggravate le condizioni del primo ministro britannico, Boris Johnson, trasferito in un’unità di terapia intensiva all’ospedale St. Thomas di Londra.

Le misure economiche per l’Italia

In Italia il Consiglio dei ministri ha assegnato 450 milioni di euro al Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza. Nella penisola per il momento non c’è una data di riapertura delle attività anche se i dati fanno ben sperare: i ricoveri sono calati del 90 per cento e la terapia intensiva del 2 per cento. Austria e Danimarca, invece, annunciano il riavvio delle scuole dopo Pasqua.

I timori per l’Africa

In Africa sono stati colpiti 51 dei 54 Stati del continente e hanno registrato un totale di 9400 contagi e 442 decessi. Comore, Lesotho, Sao Tomé e Principe sono le uniche nazioni che non hanno annunciato alcuna infezione. Si tratta di numeri limitati, considerato che in Africa vivono 1,3 miliardi di persone e che il continente ha consistenti e regolari rapporti con la Cina. Ufficialmente, i tre paesi più colpiti del continente sono Sudafrica, Algeria ed Egitto. Tuttavia, il timore è che la fragilità dei sistemi sanitari del continente e la scarsità di medici – secondo l’Oms in Africa è presente solo il 3 per cento del personale medico mondiale, nonostante siano presenti sul suo territorio il 24 per cento delle malattie a livello globale – siano del tutto inadeguati ad affrontare una pandemia globale. In Kenya c’è un solo medico ogni 5.000 abitanti, mentre in Uganda c’è un solo letto di terapia intensiva per ogni milione di cittadini. Se finora il continente è stato relativamente risparmiato, non è detto che il coronavirus non possa diffondersi con conseguenze devastanti. A sottolinearlo è il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus.

Intanto, dall’Onu arriva un monito importante: il capo della Convenzione sulla biodiversità ha chiesto un divieto globale sui mercati della fauna selvatica – come quello di Wuhan, in Cina, che si ritiene sia stato il punto di partenza dell’epidemia   – per prevenire future pandemie.

da Vatican NEWS del 7 aprile 2020

Covid 19, allarme profughi in Grecia. Monsignor Bazouzou: non perdiamo la speranza

La Grecia, che secondo il conteggio della Johns Hopkins University ha 1.683 casi di coronavirus, ospita circa 100.000 richiedenti asilo. E’ scattato l’allarme per casi di contagio in due dei centri di immigrazione non lontano da Atene, dove già si vive in condizioni di estrema difficoltà. Con noi l’Amministratore apostolico monsignor Joseph Bazouzou

Fausta Speranza -Città del Vaticano

Il ministero per le Migrazioni greco ha reso noto che il campo di Malakasa, ad una quarantina di chilometri a nord-est di Atene, è stato posto in isolamento dopo che un residente afghano si è rivelato positivo al coronavirus. Il primo caso è stato quello nei giorni scorsi di una struttura a Ritsona, sempre vicino alla capitale, dove 23 persone sono risultate positive al Covid-19. Secondo il ministero, l’uomo afghano, di 53 anni, aveva personalmente cercato aiuto con i sintomi del virus presso la struttura medica all’interno del campo. Successivamente è stato portato in un ospedale di Atene dove è risultato positivo e la sua famiglia è stata messa in quarantena.

I campi sono in “completo isolamento sanitario” per 14 giorni, nessuno vi potrà entrare o uscire. Delle difficoltà, della disperazione, dei provvedimenti delle istituzioni, della vicinanza della Chiesa e della preparazione alla Pasqua, abbiamo parlato con monsignor Joseph Bazouzou,  Amministratore apostolico degli armeni cattolici in Grecia:

La concentrazione più preoccupante di persone si verifica nei campi di cinque isole del Mar Egeo vicino alla Turchia, dove ci sono oltre 36.000 persone per meno di 6.100 posti: “sono persone veramente disperate – dice monsignor Bazouzou che ha messo a disposizione la sua casa per accogliere già alcuni profughi provenienti dalla Siria – occorre incoraggiarli quanto è possibile”. Dal canto suo – aggiunge – il governo fa il possibile, ma come in tutto il mondo le difficoltà restano tante. La crisi sanitaria mondiale ha messo tutti in ginocchio e gli aiuti dall’Europa come dal governo greco sono calati, dunque queste persone – spiega – si sentono in un certo senso abbandonate. Le loro speranze dopo un viaggio pieno di pericoli erano quelle di poter finalmente “respirare”: invece ora, chiusi nei campi sovraffollati, si trovano solo nella miseria e – confida – “sperano solo in un miracolo del Signore, dati i limiti umani”.

Ripartiamo dalla speranza che viene dalla Pasqua

Infine il pensiero di monsignor Bazouzou va alla prossima Pasqua:”ci sono le privazioni, c’è il dolore, c’è l’incertezza che tanto mi rammentano i giorni di guerra vissuti in Siria”, ma c’è “l’evento centrale – dice – da non dimenticare, che è la resurrezione di Cristo. E’ Lui il centro e quanto sta accadendo – è l’auspicio finale – ci insegnerà a puntare all’essenziale, a ripartire da Lui, senso della nostra esistenza”.

da Vatican NEWS del 6 aprile 2020

L’Ue tra i moniti della Corte di giustizia e le sentenze della storia

 

Fausta Speranza

Nel pieno dell’emergenza da pandemia in Europa, arriva la sentenza della Corte Ue che inchioda tre Paesi dell’est europeo alle loro responsabilità in tema di mancati ricollocamenti di richiedenti asilo. Un pronunciamento importante a difesa delle regole condivise che non deve passare inosservato. E’ anche una “sentenza” per gli annali della storia sul ruolo svolto in prima linea dall’Italia e dalla Grecia in difesa dei valori di umanità

Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca sono a tutti gli effetti inadempienti di fronte al diritto europeo in tema di migranti. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Ue accogliendo, in questi giorni, i ricorsi presentati dalla Commissione europea contro i tre Stati membri che, prima, nel 2015, hanno votato la misura delle quote che doveva sostenere i Paesi più esposti agli straordinari flussi provenienti dalla rotta balcanica, e, poi, non hanno mai aperto le frontiere alle poche decine di migranti assegnati a ciascun Paese. L’annosa querelle è emblematica della scelta di questi Paesi di arroccarsi – in altri casi anche con la Slovacchia – su posizioni fortemente polemiche nei confronti delle scelte di unità che l’Europa è chiamata a fare. E’ il cosiddetto fronte di Visegràd, dal nome della cittadina ungherese nella provincia di Pest che ha ospitato il primo vertice di “ribellione” dell’Est europeo. Un fronte che non va dimenticato parlando sempre di braccio di ferro tra Nord e Sud d’Europa.
Già nel 2017 la Corte aveva respinto l’istanza di Budapest, Varsavia e Praga, che chiedevano di essere esentati dalla decisione delle quote, assunta il 22 settembre 2015 dal Consiglio europeo al completo, dunque, anche con i loro rispettivi capi di Stato e di governo. In quel momento era fondamentale dare respiro alla Grecia e all’Italia che, oltre all’ondata straordinaria di flussi migratori nell’autunno del 2015 continuavano ad essere terreni di approdo di migliaia e migliaia di richiedenti protezione internazionale. Un milione di siriani tra questi venne accolto in Germania. Si decise di ricollocare altri 120.000 in altri Stati membri su base obbligatoria.  Ma non tutti hanno fatto la loro parte.
Finora il mancato adempimento è stato giustificato con una propaganda vecchio stile: in Paesi che hanno avuto il comunismo, i politici usano ripetere che non è possibile imporre dall’alto le decisioni e per “alto” intendono Bruxelles, anche se a quel vertice hanno seduto e hanno votato tutti i leader Ue. Ma se l’opinione pubblica dei Paesi incriminati è più o meno soddisfatta da queste spiegazioni, non si capisce perché l’opinione pubblica degli altri Paesi membri – quelli che non sono stati alleggeriti, ma anche quelli che hanno invece ottemperato ai loro obblighi – non supportino la battaglia per il rispetto degli impegni presi. La posta in gioco non è di poco conto: c’è la giusta considerazione per le regole condivise. Il punto è che, a questo proposito, sembra che nessun Paese possa scagliare la prima pietra, che si tratti di sforamento di budget, di quote, di mancati controlli alle dogane di materiali da altri Paesi terzi, di politiche fiscali ai margini del consentito, etc etc.
Questa sentenza chiude un iter che, nel rispetto dei meccanismi democratici di 27 Paesi, non può che prendere tempo. Il punto è che arriva dopo cinque anni in un’Europa diversa e, soprattutto, in questo momento in preda al ripiegamento all’interno delle singole frontiere imposto dall’emergenza della pandemia. E a queste sfasature l’Europa non è nuova.
Così rischia di cadere nel vuoto la sentenza della Corte che – vale la pena sottolineare – da un lato, ha riscontrato l’esistenza di un inadempimento da parte dei tre Stati membri di una decisione obbligatoria, dall’altro, ha constatato che la Polonia e la Repubblica ceca erano venute meno anche agli obblighi derivanti da una decisione anteriore (14 settembre 2015) che il Consiglio Ue aveva adottato per il ricollocamento, questa volta su base volontaria, di 40.000 richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia. E va detto che la Polonia aveva promesso di accogliere 100 persone e la Repubblica Ceca 50, dunque non numeri tali da imbarazzare nessun Paese. Ma neanche questo impegno era stato portato a termine.
Per quanto riguarda l’Ungheria, dove nei giorni scorsi, appellandosi all’emergenza del coronavirus, il primo ministro Viktor Orbán ha assunto i pieni poteri esautorando il parlamento, la memoria va a quelle settimane di pressione alle frontiere sulla cosiddetta rotta balcanica. Attraversando frontiera per frontiera – tra Serbia, Ungheria, Croazia, Austria – ricordiamo le migliaia di persone ammassate, molte in fuga dalla follia della guerra e del sedicente stato islamico tra Siria e Iraq. Ricordiamo distintamente che erano in maggioranza famiglie, ma dalla televisione ungherese in tutti i servizi sull’argomento si vedevano tutti uomini, solo uomini soli. Quel messaggio studiato per creare diffidenza resta una costante di tutta questa vicenda in evoluzione.
Ma va detto anche che, sempre in questi giorni, si registrano decisioni di segno diverso: otto Stati membri hanno dato il via alle procedure per accogliere entro la settimana di Pasqua 1600 minori non accompagnati dalle isole greche. Anche questa è Europa, anche se non fa notizia.
Andando oltre la cronaca, c’è la consapevolezza che negli annali di storia, quando si parlerà dei tragici viaggi della disperazione che hanno attraversato il Mediterraneo, le pagine più belle per l’Unione europea le avranno scritte proprio l’Italia e la Grecia, quando tra enormi difficoltà hanno difeso senza se e senza ma vite umane. Per il vecchio continente, paladino dei diritti umani, sarà la sentenza più importante.

 2 Aprile 2020  su MeridianoItalia.tv

La risposta dell’Ue alla crisi economica da pandemia

In Europa si discute su come far fronte comune ai costi della pandemia. Dall’Europarlamento, la Commissione (Ce) e la Banca centrale europea (Bce) sono arrivati fondi e proposte molto concreti, ma la parola spetta ai capi di Stato e di governo per avere anche politiche comuni. Si guarda al prossimo Eurogruppo del 7 aprile. Con noi l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo l’Ocse, la riduzione del Pil mondiale potrebbe essere compresa tra lo 0.5 per cento e l’1.4 per cento che in Italia – che comincia a fare i conti essendo stato il primo Paese Ue colpito dal Covid 19 – si potrebbe trasformare nel 4-5 per cento se fallissero circa 150.000 imprese a rischio, pari al 4 per cento di quelle esistenti. Un dato statistico parziale, perché tutto dipenderà dall’effettiva durata dell’emergenza.

Provvedimenti concreti già avviati

All’interno dell’Ue è stato sospeso il cosiddetto Patto di stabilità, che dal 1992 fissa il rapporto tra deficit pubblico e Pil entro la soglia del 3 per cento e il rapporto tra debito pubblico e Pil al di sotto del 60 per cento. Il 22 marzo, ad esempio, la Commissione europea ha subito approvato le misure italiane di aiuti pari a 50 milioni di euro per sostenere la produzione e la fornitura di dispositivi medici. La stessa cosa ha fatto per la Spagna.

Già due settimane fa, 37 miliardi della politica di coesione sono stati destinati alla lotta contro il coronavirus e ai sistemi sanitari, imprese e lavoratori colpiti dall’emergenza. Di questi, circa sette miliardi vanno a beneficio dell’Italia. E sono stati sospesi i debiti ai debitori colpiti dalla crisi. Altri otto miliardi di euro di investimenti sono stati destinati ad aiutare 100.000 piccole e medie imprese (Pmi) europee e imprese a media capitalizzazione. Inoltre, 137,5 miliardi sono stati destinati a sostenere la ricerca, di cui una parte già assegnata.

Ipotesi al vaglio

La proposta dei cosiddetti coronabond è difesa da Francia, Italia e Spagna ma vede al momento il veto di Germania, Olanda e Austria, contrarie a quelle che considerano una mutualizzazione del debito. L’Aia propone ora una “donazione” – non si sa di quale entità  – a favore dei Paesi più colpiti come la Spagna e l’Italia. Il governo francese sta vagliando come soluzione di compromesso la creazione di un fondo di salvataggio speciale, della durata di cinque o al massimo dieci anni, destinato ad alleviare le conseguenze economiche del coronavirus e che non esclude il contemporaneo ricorso al Fondo di Stabilità. Ci si aspetta che emerga la decisione di ulteriori misure dopo la discussione martedì prossimo al vertice tra i ministri delle Finanze dei paesi della zona euro.

Il monito della Bce a non dirottare i soldi per i cittadini

La Banca Centrale Europea ha stanziato un pacchetto di emergenza da 750 miliardi di euro per alleviare l’impatto della pandemia. Ma ha lanciato un monito agli istituti bancari dei vari Stati membri: i prestiti straordinari alle banche non devono essere utilizzati per i dividendi e i bonus ma devono essere messi a disposizione di imprese e cittadini che hanno bisogno di liquidità per far fronte alle perdite dovte all’interruzione delle attività lavorative.

Del richiamo da parte del Servizio di vigilanza della Bce a non far prevalere gli interessi di azionisti e di manager a danno dei cittadini, delle ipotesi sul tavolo dei capi di Stato e di governo in tema di fiscalità che possono essere di grande aiuto anche al di là dei cosiddetti coronabond, abbiamo parlato con Paolo Guerrieri docente di Politica economica in vari atenei europei:

Le incertezze nel commercio aggravano la fame nel mondo

In una nota congiunta, i direttori generali della Fao, dell’Oms e dell’Omc, rispettivamente Qu Dongyu, Tedros Adhan  Ghebreyesus e Roberto Azevedo, lanciano un appello a considerare le conseguenze dello stop a tanti percorsi commerciali mondiali dovuti alla chiusura delle frontiere come misura precauzionale contro il dilagare dei contagi da Covid 19.

Secondo i rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di fame nel mondo, di sanità e di commercio, “è necessario ridurre al minimo l’impatto potenziale sull’approvvigionamento e la sicurezza alimentare da cui dipendono i mezzi di sussistenza di milioni di persone in tutto il mondo”. L’incertezza sulla disponibilità di cibo – sottolineano   – “può innescare un’ondata di restrizioni all’export, creando carenze sul mercato globale, e reazioni simili possono alterare l’equilibrio tra domanda e offerta di alimenti, con conseguenti picchi di prezzo e maggiore volatilità dei prezzi”. L’appello è chiaro: “garantire che la risposta al Covid-19 non crei carenze ingiustificate dei prodotti di prima necessità, aggravando la fame e la malnutrizione”. “E’ giunto il momento – scrivono – di dimostrare solidarietà, di agire in modo responsabile e di aderire al nostro obiettivo comune: ottimizzare la sicurezza e la salubrità alimentare, la nutrizione e migliorare il benessere generale delle persone in tutto il mondo”

da Vatican NEWS del 3 aprile 2020