La Serbia verso l’Unione europea:nuovi passi dopo il voto

Nel nuovo parlamento unicamerale serbo, uscito dalle elezioni di domenica 22 giugno, il Partito del progresso serbo (Sns, conservatore) del presidente Aleksandar Vučić, trionfatore del voto con oltre il 63,4 per cento dei consensi, avrà la maggioranza assoluta. Si parla del leader più a favore dell’avvicinamento all’Ue. Con noi lo storico Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Subito dopo l’annuncio dei risultati entusiasmanti per il suo partito, il presidente Vučić ha detto che per la formazione del nuovo governo si consulterà e parlerà con un ampio spettro di forze politiche, senza alcuna arroganza o volontà discriminatoria e nell’intento di arrivare a un largo consenso, scegliendo le personalità migliori e più valide. Il ministro degli Esteri e leader del Partito socialista Ivica Dačić dal canto suo, dicendosi soddisfatto del risultato, ha annunciato la volontà di proseguire nella collaborazione con l’Sns di Vučić.

L’equilibrio politico in Parlamento

All’indomani del voto, stando alle elaborazioni effettuate dagli istituti Ipsos e Cesid, l’Sns disporrà verosimilmente di 189 seggi sul totale di 250; al Partito socialista (Sps) di Dačić , che ha ottenuto poco più del 10 per cento, andranno 32 seggi; mentre ne otterrà 12 il movimento Spas dell’ex pallanuotista Aleksandar Šapić , al quale è andato circa il 4 per cento, poco al di sopra della soglia di sbarramento del 3 per cento. Entrano in parlamento anche quattro liste in rappresentanza delle minoranze, l’Alleanza degli ungheresi di Vojvodina con nove seggi, la lista di Muamer Zukorlić con 3, l’Alternativa democratica albanese con 3 e l’Sda del Sangiaccato di Sulejman Ugljanin con 2.

Le tappe dell’avvicinamento all’Ue

La Serbia ha firmato l’accordo di stabilizzazione e associazione (Asa) con l’Unione europea a Lussemburgo il 29 aprile 2008; i negoziati per l’Asa erano iniziati il 10 ottobre 2005, quando era ancora confederata con il Montenegro, e l’accordo è entrato in vigore il primo settembre 2013. Belgrado ha presentato domanda di adesione all’Ue il 22 dicembre 2009. I negoziati per l’adesione vera e propria sono iniziati il 21 gennaio 2014. I vari dossier procedono. Tra gli ambiti in cui Belgrado è chiamata da Bruxelles a significative riforme c’è quello dei diritti fondamentali, quello della giustizia, libertà, sicurezza, e la distanza è notevole in tema di ambiente. E c’è la questione dei rapporti tra Serbia e Kosovo che l’Ue chiede sia risolta prima di qualunque passo di adesione.

Nuove prospettive nei rapporti tra Belgrado e Pristina

In Kosovo, dove il nuovo governo guidato da Avdullah Hoti, nato a inizio giugno tra varie polemiche, ha annunciato di voler eliminare i dazi che il Kosovo aveva imposto alla Serbia del 100 per cento in seguito ad alcune decisioni di Belgrado come quella di ostacolare l’ingresso di Pristina nell’Interpol. Si potrebbe dunque riaprire la via alla ripresa delle relazioni diplomatiche.

Del risultato elettorale in Serbia, del cammino verso l’Ue, ma anche del contesto regionale e dei rapporti con la Russia, e del’imminente anniversario di 25 anni dagli Accordi di Dayton, Fausta Speranza ha parlato con Daniele de Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

De Luca ricorda che prima del voto di domenica in Serbia è stata dibattuta la legge elettorale in particolare a proposito del punto sullo sbarramento e spiega che la vittoria di Vučić ha confermato un grande consenso a suo favore proprio dopo tale dibattito sollevato dall’opposizione. Lo storico sottolinea il grande distacco di punti tra il partito del presidente, ben oltre il 60 per cento, e il secondo partito, quello socialista che ha ottenuto poco più del 10 per cento di voti. Questo significa che la stabilità di governo – tra i punti chiave richiesti dall’Ue per soddisfare i requisiti di ingresso nell’Ue – viene assicurata. De Luca, dunque, cita la questione del Kosovo, spiegando che in questo momento ci sono buone prospettive di progresso nella normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina, ribadendo che è questo un altro dei punti fondamentali per Bruxelles.

Lo storico poi parla del contesto politico regionale e dei rapporti, da sempre molto stretti, tra la Serbia e la Russia, citando l’imminente visita di Vučić a Bruxelles e a Mosca. E c’è anche un contesto storico: De Luca ricorda che a novembre saranno passati 25 anni dagli Accordi di Dayton, seguiti poi a dicembre dal piano di pace. A fine 1995 si mise fine così alla guerra in Bosnia, dopo che a luglio era avvenuto il terribile massacro di Srebrenica, per il quale si è parlato dapprima di 6000 vittime mentre più di recente si è accertata la morte di almeno 8000 persone.

da Vatican NEWS del 22 giugno 2020

Coscienza e libertà: 80 anni fa la testimonianza di de Sousa Mendes

 

 

 

 

di Fausta Speranza
La libertà di coscienza sia rispettata sempre e dovunque. Con queste parole Papa Francesco ha ricordato il diplomatico portoghese Aristides de Sousa Mendes che tra il 16 e il 18 giugno del 1940, disobbedendo alle leggi del suo dittatore, salvò la vita a migliaia di ebrei e altri perseguitati. A ottant’anni di distanza, restano preziose la sua lezione di umanità e la sua testimonianza di libertà interiore.

 “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. E’ quanto si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E, sul piano giuridico, la libertà di coscienza viene definita come la libertà di coltivare convinzioni interiori e di comportarsi di conseguenza.Coscienza, dunque, fa rima con coerenza, e non è solo questione di sonorità. Se non c’è adesione tra i valori riconosciuti in coscienza e i propri comportamenti non può esserci nessuna vera forma di libertà, piuttosto si è schiavi di qualcuno o qualcosa ai quali si obbedisce più di quanto si risponda a se stessi.
Le scelte di Aristides de Sousa Mendes appaiono, dunque, non solo una grandissima testimonianza di umanità, ma anche una lezione di vera libertà. Il diplomatico portoghese, nato nel 1855 a Cabanas de Viriato in una famiglia aristocratica, dopo una brillante carriera segnata da una significativa esperienza in Belgio, nel 1940, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, viene nominato console di Bordeaux, in Francia. Si trova presto di fronte alla miriade di profughi, tra cui molti ebrei, in cerca di scampo dalla furia omicida nazista. Il governo di Lisbona è guidato in quel momento da António de Oliveira Salazar, amico di Mussolini che nel 1932 aveva instaurato il cosiddetto “Estado Novo”, un regime di stampo fascista. L’ordine è di negare il visto a “stranieri di nazionalità indefinita, contestata o disputata”, o ad apolidi e “ad ebrei, che sono stati espulsi dal Paese di origine o dallo stato di cui hanno la cittadinanza”. In ballo c’è la possibilità di entrare in un Paese neutrale come il Portogallo, che significava la salvezza dalla follia nazifascista.

de Sousa Mendes Aristides de Sousa Mendes

Il 16 giugno del 1940 il console prende la sua decisione: dare un visto a tutti i rifugiati che lo richiedano senza riguardo a nazionalità, razza o religione. Aiutato dai più stretti collaboratori e dai suoi figli e nipoti, timbra passaporti, assegna visti, usando tutti i fogli di carta disponibili. Organizza una vera e propria catena di montaggio: alcuni addetti sono incaricati di riempire i moduli, altri di apporre la foto per poi passare il documento al dilomatico per la firma e infine al segretario Jose Seabra per il timbro. In tre giorni rilascia 30.000 visti. Tra quanti vengono aiutati dal diplomatico portoghese c’è anche il rabbino di Anversa, Jacob Kruger che a sua volta darà il suo contributo per aiutare gli altri.
Yehuda Bauer, storico contemporaneo, scrive che quel giorno è cominciata “la più grande operazione di salvataggio effettuata da una persona durante la Shoah”. Numericamente non raggiunge quella compiuta dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg che strappò alla morte 100.000 ebrei. Ma in questo caso, c’era il pieno sostegno del governo di Stoccolma.
Nel caso di de Sousa Mendes, arrivano presto i primi richiami da Lisbona. Il diplomatico portoghese dichiara a familiari e conoscenti: “Se devo disobbedire, preferisco che sia agli ordini degli uomini piuttosto che agli ordini di Dio e della mia coscienza”. L’8 luglio del 1940 torna in Portogallo e viene punito dal governo di Salazar: viene rimosso dal suo incarico, sospeso per un anno e poi riprende un lavoro di ufficio con uno stipendio dimezzato. La sua patente di guida, rilasciata all’estero, viene ritirata. Aristides e la sua famiglia sopravvivono grazie alla solidarietà della comunità ebraica di Lisbona. Pianificano di raggiungere gli Stati Uniti ma la moglie si ammala e il diplomatico resta a Lisbona. Solo alcuni dei suoi numerosi figli si recano a studiare oltre Oceano e due di loro parteciperanno allo sbarco di Normandia. Aristides muore in povertà il 3 aprile del 1954 nell’ospedale dei Francescani di Lisbona. Nel 1966 gli viene riconosciuto dall’istituto Yad Vahem il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Perché sia riabilitato in Portogallo ci vorrà tempo e una sorta di revisione del processo che si concluderà con una assoluzione per aver “disobbedito per fini umanitari”. Il 13 marzo 1988, quarantotto anni dopo gli avvenimenti di Bordeaux e quattordici anni dopo la fine della dittatura, il Parlamento all’unanimità approva la riabilitazione del console, promuovendolo ambasciatore.
Nel 1990 la città di Montreal, in Canada, gli intitola un parco, seguita l’anno successivo da Bordeaux. Nel 1998 in Francia viene pubblicato il libro “Le Juste de Bordeaux”, e in quello stesso Bordeauxanno il Parlamento europeo onora de Sousa Mendes, conferendogli un’importante onorificenza.

parcoSousa Mendes

Statue d’Aristides de Sousa Mendes – Bordeaux

Seguono altri riconoscimenti e il 23 febbraio 2000 a Lisbona viene istituita la Fondazione Aristides de Sousa Mendes, alla quale il governo dona un contributo di 50.000 euro. Va ricordato un altro atto significativo: nel 1987, all’ambasciata portoghese a Washington, il presidente della Repubblica portoghese, Mario Soares, consegna ai figli di de Sousa Mendes la decorazione dell’Ordine della libertà. Le imputazioni di allora, “abuso di potere, emissione di visti falsi, non rispetto delle direttive ministeriali” sono cadute. La testimonianza di umanità e di libertà di coscienza di Aristides de Sousa Mendes resta. Ad interpellare altre coscienze.

da Meridianoitalia.TV del 16 giugno 2020

 

Le rimesse dei migranti nella pandemia, Ifad: una risorsa importante

Sono diminuite del 20 per cento le risorse che i migranti assicurano alle loro famiglie di origine: nell’odierna Giornata mondiale delle Rimesse familiari, che coincide con la crisi sanitaria globale, la Banca mondiale calcola le conseguenze negative della crisi economica e l’Onu lancia un appello ai governi per sostenere i migranti, che sono uno dei motori dell’economia globale e contribuiscono in maniera decisiva alla creazione di benessere. Con noi Mauro Martini dell’Ifad

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Le proiezioni della Banca Mondiale prevedono un calo delle rimesse di circa il 20 per cento, ossia 110 miliardi di dollari. E questo si traduce in aumento della fame, diminuzione dell’accesso scolastico e deterioramento della salute per decine di milioni di famiglie, con un impatto particolarmente dannoso su donne e ragazze.

Le richieste delle Nazioni Unite

Il Segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, nel suo messaggio, chiede espressamente di rendere merito alla determinazione di 200 milioni di migranti che inviano regolarmente denaro a casa, e agli 800 milioni di membri familiari che vivono in comunita’ nei Paesi in via di sviluppo e che da tali risorse dipendono, adottando misure concrete. Ricorda anche che il Patto globale per un’emigrazione sicura, ordinata e regolare offre per tutto questo una piattaforma d’azione cruciale. Dell’ammontare e dell’importanza delle risorse delle rimesse e delle misure da adottare abbiamo parlato con Mauro Martini, del Dipartimento Finanziamenti per le rimesse dell’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo:

Mantenere i flussi delle rimesse

Martini ricorda che lo scorso anno le risorse inviate verso i Paesi a basso e medio reddito hanno raggiunto il livello record di 554 miliardi di dollari, cioè più di tre volte l’ammontare dell’assistenza pubblica allo sviluppo e più del livello di investimento diretto estero. E’ per questo che diversi Stati e organizzazioni internazionali invocano il mantenimento del flusso delle rimesse, sollecitando i responsabili politici a dichiarare proprio le rimesse come un servizio essenziale e a facilitare il perfezionamento di piattaforme digitali. Questo serve – spiega – ad assicurare che i soldi arrivino direttamente alle famiglie, escludendo più possibile eventuali intermediari, e nel caso dell’emergenza  della pandemia di quest’anno, significherebbe concretamente assicurare che gli aiuti arrivino perché, in particolare con il lockdown, è stato difficile appoggiarsi a uffici di qualunque tipo.

Ma la raccomandazione – sottolinea Martini – vale anche per le infrastrutture: in alcuni casi, nei Paesi è difficile accedere a internet direttamente da casa. Bisognerebbe adottare misure per ridurre i costi di transazione delle rimesse, fornire servizi finanziari ai migranti e alle loro famiglie anche nelle aree rurali e promuovere l’inclusione finanziaria per un futuro piu’ sicuro e stabile. Si tratta di cercare di non interrompere il processo che deve portare al raggiungimento dei cosiddetti obiettivi del millennio di sviluppo sostenibile.

da Vatican NEWS del 16 giugno 2020

Emergenza Libia. Padre Baggio: c’è bisogno di attenzione e di garanzie

Interpella le coscienze l’esortazione del Papa, ieri all’Angelus, perchè si mettano a punto strategie di dialogo per la pace in Libia e percorsi di assistenza per le vittime di violenze e sfruttamento. Un richiamo politico e umanitario proprio mentre scontri si concentrano intorno alla città di Sirte e l’Onu torna a raccomandare rispetto e indagini per le fosse comuni ritrovate a Tarhuna. La riflessione di padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per lo sviluppo umano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nelle parole di Papa Francesco, rivolte domenica scorsa dopo la preghiera dell’Angelus, a chi muove i fili della politica e a tutti – introdotte e scandite dall’espressione semplice ma accorata “Per favore” – ci sono attenzione e umanità ma anche grande concretezza. Dell’appello e del richiamo possibile all’ultimo rapporto dell’Onu sulla Libia di maggio, abbiamo parlato con padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale:

Padre Baggio ricorda il rapporto che l’Onu ha pubblicato a maggio, in cui – spiega – ci sono punti che convergono con l’attenzione richiesta dal Papa. Si tratta di mettere in atto propositi di dialogo tra le parti per arrivare a una riconciliazione, mentre però si agisca a favore delle persone che, anche a causa della pandemia, sono sempre più esposte a violenze e sfruttamento o bisogni essenziali estremi. Padre Baggio sottolinea che bisogna ricordare – come ha fatto il Papa e come fa il rapporto Onu – che ci sono le situazioni e le condizioni difficili e drammatiche dei migranti, ma ci sono anche le emergenze di libici che sono sfollati interni al Paese, a causa dell’avanzare o dello spostarsi dei combattimenti. Per quanto riguarda la responsabilità alla quale Papa Francesco ha richiamato tutti, padre Baggio mette in luce la differenza di ruoli. Ovviamente chi ha ruoli politici o militari è chiamato ad un tipo di intervento che non può essere lo stesso per tutti. Nel caso dei credenti, tutti possiamo pregare. Ma anche nel caso dei non credenti c’è un richiamo possibile: alla responsabilità, ad esempio, di non assuefarsi a contesti di violenza e a scene di “crudeltà”. Anche questo può dare un contributo prezioso: spronare le nostre società a cercare qualcosa di diverso, a procedere sulla via del progresso dell’umanità che significhi superare tali situazioni di mancanza di dignità e di futuro per le persone. E tenere alta l’attenzione mediatica aiuta a tenere deste le coscienze. Padre Baggio ricorda come alcune immagini, ad esempio, di bimbi migranti affogati, abbiano suscitato grande sdegno, maanche  che dopo qualche giorno sembrava già che nessuno se ne ricordasse più.

Il contenuto dell’intervento del Papa

Il Papa ha esortato “gli Organismi internazionali e quanti hanno responsabilità politiche e militari” a rilanciare “con convinzione e risolutezza la ricerca di un cammino verso la cessazione delle violenze, che porti alla pace, alla stabilità e all’unità” in Libia.” E poi è tornato ad assicurare la sua preghiera per tutti i civili coinvolti, in particolare ricordando “le migliaia di migranti, rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni”. Anche su questo piano si è espresso con grande concretezza: anche in questo caso ha detto “per favore” dopo aver messo il mondo davanti a una verità innegabile: “C’è crudeltà”. Il Papa ha ricordato quello che sappiamo tutti: “La situazione sanitaria ha aggravato le loro già precarie condizioni, rendendoli più vulnerabili da forme di sfruttamento e violenza”. Da qui l’invito alla comunità internazionale “a prendere a cuore la loro condizione, individuando percorsi e fornendo mezzi per assicurare ad essi la protezione di cui hanno bisogno, una condizione dignitosa e un futuro di speranza”. E poi il richiamo: “tutti abbiamo responsabilità, nessuno si può sentire dispensato. Preghiamo per la Libia in silenzio, tutti.”

Gli ultimi sviluppi della conflittualità in Libia

Il Governo di accordo nazionale libico (Gna) ha annunciato che dal Consiglio militare di Zuwara sono arrivati nuovi rinforzi militari per partecipare ai combattimenti nella città di Sirte controllata dal generale Khalifa Haftar. Si combatte ad ovest della città di Sirte “per partecipare alla liberazione dell’intera area dalle forze di Haftar”. Intanto, dalle file di Haftar, che ha il suo centro di potere a Bengasi, il portavoce dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), Ahmed al Mismari ha accusato la Turchia – principale alleato del Gna – di aver “schierato sette navi da guerra al largo delle coste libiche, oltre a inviare nuovi gruppi di mercenari, soldati turchi e ufficiali con l’obiettivo di controllare l’area della mezzaluna petrolifera dove si trovano gli investimenti della maggior parte delle compagnie straniere in Libia”.  L’ufficiale di Bengasi ha aggiunto: “Abbiamo registrato crimini commessi dalle milizie che violano le alleanze internazionali a Tarhuna, Al Asabia e in diverse città libiche”.

La drammatica questione delle fosse comuni

Accuse sono state rivolte alle milizie di Bengasi per il ritrovamento di “fosse comuni” nella località di Tarhuna, che nelle settimane scorse è stata riconquistata dalle forze di Al Serraj.  Da parte sua, l’Lna ha invitato la missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ad accelerare le proprie indagini in merito, oltre a indagare sulle mine collocate intorno a Tripoli dopo che le forze di Haftar si sono ritirate. In una dichiarazione ufficiale, l’Lna ha negato qualsiasi responsabilità per questi crimini, chiedendo un’indagine imparziale e indipendente da parte delle organizzazioni internazionali sulle fosse comuni, rilevando che “le Nazioni Unite hanno chiesto indagini che l’esercito accoglie con favore”. Da parte sua, la Commissione per i diritti umani del parlamento libico di Tripoli, dissidente rispetto a quello riconosciuto di Tobruk, ha precisato che sono undici le fosse comuni trovate dalle forze del Gna nelle aree della Tripolitania dalle quali si sono ritirati di recente gli uomini di Khalifa Haftar. La Commissione ha concordato con un gruppo di donne della società civile un “piano d’azione comune” per documentare tutti i “crimini di guerra” commessi dalle forze di Haftar. La denuncia è avvenuta durante un incontro tenuto dalla commissione presieduta dal deputato Luay Najib Al-Ghawi con un gruppo di donne della società civile interessate ai diritti umani, secondo una dichiarazione pubblicata dal Parlamento sulla sua pagina Facebook.

da Vatican NEWS del 15 giugno 2020

Il Papa: non si può partecipare all’Eucaristia senza impegnarsi nella fraternità

Gesù è “forza rinnovatrice” e comunione, ma dobbiamo lasciarci trasformare e dobbiamo superare le tentazioni di rivalità. E’ questo il messaggio centrale della riflessione del Papa all’Angelus, dedicata alla Solennità del Corpus Domini celebrata oggi in Italia e in altre nazioni. Francesco mette in guardia dal rischio di vivere le celebrazioni eucaristiche come riti vuoti e formali e sottolinea che se è vero che la Chiesa fa l’Eucaristia, è fondamentale che “l’Eucaristia fa la Chiesa”.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ vero che la Chiesa fa l’Eucaristia, ma è più fondamentale che l’Eucaristia fa la Chiesa, e le permette di essere la sua missione, prima ancora che di compierla.

Papa Francesco all’Angelus esprime questa convinzione richiamando ad una partecipazione al Sacramento in cui “Gesù è presente per essere il nostro nutrimento – sottolinea  – per essere assimilato e diventare in noi quella forza rinnovatrice che ridona energia e voglia di rimettersi in cammino, dopo ogni sosta o caduta”. (Il servizio con la voce del Papa)

L’importanza della disponibilità a lasciarsi trasformare

Il Mistero del calice condiviso e del pane spezzato presuppone però il nostro sì:

Ma questo richiede il nostro assenso, la nostra disponibilità a lasciar trasformare noi stessi, il nostro modo di pensare e di agire; altrimenti le celebrazioni eucaristiche a cui partecipiamo si riducono a dei riti vuoti e formali.

“Tante volte – aggiunge il Papa – qualcuno va a Messa perché si deve andare come atto sociale, rispettoso ma sociale. Ma il Mistero è un’altra Cosa – ribadisce – è Gesù presente che viene per nutrirci.”  Francesco si richiama alla Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, in cui l’Apostolo si chiede: “E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo?”. “Queste parole – afferma Papa Francesco – esprimono l’effetto mistico o spirituale dell’Eucaristia”: esso riguarda l’unione con Cristo, che nel pane e nel vino si offre per la salvezza di tutti. E poi spiega che quello mistico è solo il primo dei due effetti del calice condiviso e del pane spezzato: il secondo è quello  “comunitario”.  Ancora il richiamo a San Paolo: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo”.

La Comunione è sincera fraternità

E Papa Francesco ribadisce: “Si tratta della comunione reciproca di quanti partecipano all’Eucaristia, al punto da diventare tra loro un corpo solo, come unico è il pane che si spezza e si distribuisce. La comunione al Corpo di Cristo è segno efficace di unità, di comunione, di condivisione”. E avverte:

Non si può partecipare all’Eucaristia senza impegnarsi in una sincera fraternità vicendevole, che sia sincera.

La tentazione della divisione

Una consapevolezza su tutte: “Ma il Signore sa bene che le nostre sole forze umane non bastano per questo”, dice Francesco, che ricorda:

Tra i suoi discepoli ci sarà sempre la tentazione della rivalità, dell’invidia, del pregiudizio, della divisione….

Dio lo sa e “anche per questo ci ha lasciato il Sacramento della sua Presenza reale, concreta e permanente, così che, rimanendo uniti a Lui, noi possiamo ricevere sempre il dono dell’amore fraterno.”

“Rimanete nel mio amore”, ha detto ai suoi amici. E Papa Francesco  ci rammenta che “è possibile grazie all’Eucaristia.” E’ quindi importante ricevere Gesù perché ci trasformi da dentro, faccia l’unità. Dunque, il riferimento forte alla comunità cristiana:

Questo duplice frutto dell’Eucaristia: l’unione con Cristo e la comunione tra quanti si nutrono di Lui, genera e rinnova continuamente la comunità cristiana.

Il riferimento al Concilio Vaticano II

Significativo il richiamo al Concilio Vaticano II, precisamente all’inizio della Costituzione sulla Chiesa, quando – ricorda Francesco – “afferma che essa “è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Infine, la preghiera di Papa Francesco: “La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere sempre con stupore e gratitudine il grande dono che Gesù ci ha fatto lasciandoci il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.”

da Vatican NEWS del 14 giugno 2020

L’impatto della pandemia sulle democrazie latinoamericane

Intervista con la studiosa di America Latina Tiziana Terracini

di Fausta Speranza

L’America Latina, epicentro dell’infezione da coronavirus dalla fine di maggio, fa i conti con la crisi sanitaria ed economica ma anche con l’urto dell’emergenza sul già fragile equilibrio delle istituzioni democratiche. In realtà, i dati registrano una retrocessione da questo punto di vista da quattro anni e non è imputabile solo alle situazioni del Salvador o del Nicaragua. In Brasile, secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti per i contagi, si sono aperti orizzonti di crisi politico-istituzionali, in Messico è braccio di ferro in tema di patto federale.

 La pandemia ha accentuato le criticità e i limiti delle democrazie latinoamericane. Si tratta di Paesi dove già nel corso del 2019 si erano registrate diffuse manifestazioni di forte scontento per le ingiustizie sociali, la corruzione, l’impunità. La diseguaglianza cronica della regione è stata aggravata dall’emergenza Covid-19 che ha toccato proprio i settori già precari: lavoro, salute, educazione. Il punto è che, oltre alla prevista perdita di Pil, come peraltro in tutti i Paesi del mondo, si è andato esasperando il nodo strutturale del continente: un rapporto tra crescita e sviluppo che riesce a penalizzare il secondo fattore anche quando non è mancato il primo.

       La permanente instabilità politica e alcuni meccanismi già imbrigliati di governance hanno aperto la strada a crisi politico–istituzionali. E’ accaduto in Brasile, tra tentazioni personaliste e l’implementazione di riforme che aprono interrogativi seri sull’aumento della discrezionalità dell’esecutivo. E’ cambiato per due volte il ministro della Sanità in piena brasilePresidente Jair Bolsonaro

esplosione dell’infezione da coronavirus, il primo è stato allontanato e il secondo si è dimesso sempre per contrasti con il presidente Bolsonaro. Ma è aspro il confronto anche in ambito di Corte Costituzionale dopo l’allontanamento, su decisione di Bolsonaro, del capo della polizia da sempre stretto collaboratore del noto giurista e politico, già ministro della giustizia Sérgio Moro, in relazione a presunte accuse di malversazione di fondi pubblici rivolte al figlio del capo di Stato Flavio Bolsonaro. Suo fratello Carlos è accusato solo di responsabilità per la diffusione di fake news. Ma tentazioni personaliste si ravvedono, anche se con grandi differenze, anche nell’atteggiamento del presidente Obrador in Messico, dove la questione della divisione dei poteri, tra patto federale e autonomie degli Stati, ha mostrato le sue fragilità. La decisione di non sospendere le tasse, ad esempio, voluta dal presidente Obrador  con il dichiarato intento di non far mancare aiuti ai più poveri, non è stata accolta a cuor leggero dagli imprenditori né dai governatori degli Stati del Nord più ricchi e produttivi, che hanno chiesto a gran voce la revisione del patto fiscale.

Nell’era più democratica del continente già da tempo si parla di una crescente rimilitarizzazione. Nel caso del Nicaragua, il ruolo delle forze armate è tra i fattori che hanno portato ad escludere il Paese dal rango delle democrazie. In generale, si riassume bene in un aumento delle spese di difesa in quasi tutti i contesti e, in particolare, con il fenomeno della militarizzazione delle frontiere a fronte dell’esodo venezuelano. Ma il fenomeno si capisce anche pensando che già nel pieno delle proteste popolari del 2019 abbiamo visto non solo il leader salvadoregno, ma anche i presidenti di Ecuador, Perù, Cile, comparire in televisione per parlare alla nazione indossando le rispettive uniformi militari. Senza dimenticare la delicata questione della violazione dei diritti umani, come in Salvador o in Nicaragua dove è stata autorizzata la “forza letale” nel caso dei manifestanti più “facinorosi” ed è stata anche assicurata assistenza legale in caso di denunce a forze di polizia. Ma anche in Colombia, nel processo che ha fatto seguito al decisivo processo di pace, ci sono stati episodi di repressione che hanno fatto molto discutere. Peraltro, va citato anche il ruolo che hanno avuto i militari in Bolivia nel passo indietro imposto a Morales.

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Tiziana Terracini, docente di storia e politiche dell’America Latina all’Universita’ di Torino

Sullo sfondo di queste argomentazioni, in una delle regioni più violente al mondo, la pandemia avvantaggia le organizzazioni malavitose, rafforzando ulteriormente il loro controllo territoriale e la governance criminale in Stati deboli e fortemente corrotti. Là dove i governi scarseggiano di risorse, i clan malavitosi non conoscono recessione e le situazioni di emergenza sono l’occasione per metterle in campo. Tra le varie modalità illecite, ci sono gli affari dell’usura ma c’è anche un impegno “sociale” di soccorso ai più bisognosi che inesorabilmente li legherà ai “donatori”.

del 14-06-2020

Proteste in Libano al crollo della lira. Bechara Rai, la Chiesa vicina alla gente

Centinaia di persone continuano a manifestare in Libano contro la gestione della crisi economica. La lira libanese ha perso il 70 per cento del suo valore da ottobre, quando sono iniziate le proteste contro il carovita e la corruzione. A gennaio si è formato il nuovo esecutivo che ha dovuto ben presto fronteggiare la pandemia. La crisi non è stata tanto sanitaria quanto economica. La testimonianza e l’appello del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il cardinale Bechara Boutros Rai

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Siamo certi che nonostante la situazione difficile la mano di Dio ci guiderà”: così il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Bechara Rai, ai nostri microfoni nella riflessione sulle condizioni attuali del Libano che versa in una crisi sociale e economica profonda. Il primo ministro Hassan Diab ha convocato una riunione del gabinetto di emergenza per discuterne. L’esecutivo ha quindi deciso di iniettare dollari nei mercati valutari e di abbassarne il valore nel tasso di cambio. “Il dollaro scenderà al di sotto di 4.000 lire libanesi e a 3.200 a partire da lunedì: la Banca centrale inietterà dollari nel mercato”, ha assicurato il presidente del ParlamentoNelle ultime ore al mercato nero il tasso di cambio era volato a oltre 5.000 lire libanesi per un dollaro. Dall’inizio delle protesta poplare che va avanti da tempo, la valuta locale si è deprezzata del 70 per cento. Si tratta della peggiore recessione dalla guerra civile scoppiata nel 1975 e conclusasi nel 1990.

Le proteste di piazza

Oltre agli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, i dimostranti, nella città settentrionale di Tripoli, hanno cercato di occupare la sede locale della Banca centrale. Altre filiali nel Paese sono state vandalizzate. I manifestanti sono scesi in piazza e hanno dato fuoco ai copertoni e bloccato le strade, anche nella capitale Beirut. Gli slogan sono contro il governo, che è stato incapace di fermare il declino e anche contro il governatore della Banca centrale, Riad Salamé da anni in carica. Le manifestazioni sono iniziate ad ottobre scorso e hanno portato a fine mese alla caduta del governo di Saad Hariri. Solo a gennaio 2020 si è insediato il governo di Hassan Diab. Dopo settimane di tregua è scattata l’emergenza per il coronavirus che ha bloccato tante attività aggravando la situazione economica.

Sul piano finanziario

Le banche hanno cominciato a limitare il prelievo di dollari a settembre scorso. Nel Paese dal 1997 il tasso di cambio ufficiale e principale con la banconota verde è stato mantenuto in un intervallo quasi fisso tra 1.507,5 e 1.515. Il 7 marzo 2020, il Libano ha dichiarato per la prima volta nella sua storia la sospensione dei pagamenti sul debito estero, dichiarando di non essere in grado di soddisfare una scadenza in Eurobond di 1,2 miliardi di dollari.

L’impegno della Chiesa tra aiuti concreti e sostegno di fede

Da mesi il Patriarca, cardinale Bechara Rai, chiede ai politici di ascoltare i bisogni della gente.  E ai nostri microfoni rinnova l’appello nei loro confronti:

“Sul piano politico la questione non è facile – spiega il Patriarca – il problema è complesso sia internamente che esternamente. Quanto alla Chiesa  – precisa – stiamo affrontando il problema sociale costantemente, organizzandoci in tutto il territorio per non lasciare le famiglie morire di fame. Oggi la metà della popolazione è sotto il livello di povertà e di disoccupazione. Abbiamo potuto fare una catena di solidarietà in tutto il Paese”. Poi una parola sulla classe politica per rimarcare quanto le divisioni impediscano l’unità nazionale e facciano perdere alla popolazione fiducia e quanto tutto ciò influisca sulla crisi finanziaria e sulla vita economica.

Serve unità nel Paese e fiducia

“A noi importa l’unità de libanesi” ripete il cardinale, rilanciando tutta la fiducia riposta nei giovani, in cui è la speranza della ricostruzione. Sulle manifestazione ripete che c’è il diritto a chiedere lavoro e cibo,e spiega come le infiltrazioni e le strumentalizzazioni spesso rovinino la protesta pacifica delle fasce giovanili.  Per risolvere la crisi del Paese – precisa –  non serve un ulteriore capovolgimento politico, servono soluzioni giuste e spetta alla politica trovarle. Dunque fiducia in tal senso nella consapevolezza dell’estrema difficoltà del momento.

Nelle parole del Patriarca dunque gli aspetti più duri dell’emergenza economica, ma anche le potenzialità di un Paese che ha visto scendere in piazza insieme cristiani e musulmani, e poi la grande speranza che si rinnova nell’affidamento del Paese alla Vergine Maria. Una celebrazione in tal senso si svolge ogni anno ed è quanto è previsto domenica 13 giugno. Si tratta di “rinnovare la consacrazione del Libano e dei Paesi del Medio Oriente al Cuore Immacolato di Maria, secondo i suoi desideri”. Questo atto comporta il pentimento, l’impegno per fermare la guerra e consolidare la pace. A partire dal giugno 2013, il cardinale ogni anno ha consacrato il Libano e tutto il Medio Oriente alla Vergine Maria in quel di Harissa, sede di Nostra Signora del Libano, secondo la scelta maturata nel corso del Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente dell’ottobre 2012.

da Vatican NEWS del 13 giugno 2020

Strage di donne nel naufragio al largo della Tunisia

E’ salito a 34 il numero dei cadaveri recuperati ieri dalla Marina tunisina al largo delle coste del Paese, dopo il naufragio di un barcone con 53 migranti subsahariani diretti verso le coste italiane

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Una strage soprattutto al femminile. Finora ritrovati senza vita da unità della Marina militare e della Guardia costiera della Tunisia i corpi di 22 donne, tra cui una donna incinta, e di una bimba di 2 anni. Ma anche 9 uomini e altri due minori. Alcuni sono tunisini, più di venti ivoriani, gli altri di vari paesi dell’Africa sub-sahariana. Sembra sia tunisino e originario di Sfax, l’uomo al timone. Proprio da Sfax, seconda città della Tunisia, ad est del Paese, sarebbe partito nella notte tra il 4 e il 5 giugno il peschereccio che al massimo avrebbe potuto prendere a bordo 20 persone e ne aveva caricate oltre 50. E’ affondato nell’area di mare tra El Louza (Jebeniana) e Kraten al largo delle isole Kerkennah, arcipelago tra i più suggestivi al mondo. Dove si dovrebbe andare per godere della bellezza e dove invece proseguono le ricerche dei dispersi di una tragedia già vista.

Al largo della Libia

Guardando al Mediterraneo, nella cronaca di questi giorni c’è anche il rientro forzato in Libia di 185 persone – tra cui molti bambini – che la guardia costiera aveva intercettato in mare su tre diverse imbarcazioni. E l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) è tornata a sottolineare la preoccupazione per le condizioni in cui si trovano le persone all’interno dei campi nel Paese nordafricano. Ad assistere ai respingimenti dall’alto anche l’aereo Moonbird della Ong Sea Watch, arrivata due giorni fa in zona Sar dopo aver avvistato tre imbarcazioni in difficoltà poi soccorse dai libici che hanno preso a bordo i migranti riportandoli indietro. La Ong ha accertato che fossero molti i bambini.

L’appello di Save the children

La notizia dell’ennesimo naufragio e della perdita di vite umane al largo della Tunisia – sottolinea  Raffaela Milano, Direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children  – ci ricorda drammaticamente che è necessario e urgente rimettere il tema del rispetto dei diritti umani al centro delle priorità nelle politiche europee sulla migrazione. E’ necessario attivare al più presto un meccanismo coordinato di soccorso e protezione tra gli Stati membri, creando vie di accesso legali e sicure dalle areedi crisi o di transito per proteggere chi ogni giorno rischia e troppo spesso perde la vita”. Inoltre, Milano ha commentato anche i rimpatri in Libia: “Consideriamo inaccettabile che donne, uomini, bambini, continuino a essere riportati in un Paese dove permangono e si sono acutizzate, a causa del conflitto tuttora in corso, continue violazioni dei diritti umani e dei diritti dell’infanzia”. “In nessun caso – ha sottolineato la rappresentante di Save the children –  la Libia può essere considerata un luogo sicuro, verso il quale, dunque, non vanno effettuati rimpatri o trasferimenti né di adulti né di minori. Nei centri di detenzione continua a consumarsi una terribile violazione dei fondamentali diritti di persone, tra le quali molti bambini e bambine, soggetti a forme di violenza di ogni tipo, così come peraltro acclarato dai rapporti delle Nazioni Unite e dalle testimonianze di chi riesce a lasciare il Paese”.

da Vatican News dell’ 11 giugno 2020

In Iraq vecchi e nuovi incubi per gli sfollati

Dopo 20 di conflitti e instabilità, l’Iraq deve far fronte all’emergenza pandemia. Non sono solo i bisogni sanitari a preoccupare, ma anche l’isolamento che mette in difficoltà l’impegno delle organizzazioni internazionali per gli sfollati in particolare nel campo di Mosul o nella zona di Niniwa. Molti non possono rientrare nei loro villaggi perché distrutti oppure perché pesa su di loro lo stigma sociale di presunti legami con l’Is. Con noi l’operatrice umanitaria Alessandra Sacchetti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si moltiplicano i bisogni in termini di salute mentale  tra gli sfollati interni di Mosul, Sinjar e Dohuk (Zakho). Dopo la drammatica parentesi del sedicente Stato islamico, che si è ufficialmente conclusa a fine 2018, l’Iraq tenta di riprendere il completo controllo del territorio mentre resta una sorta di guerriglia da parte di alcuni gruppi sparsi di miliziani. Il governo centrale e i vari governatorati sono alle prese con una grave crisi economica dovuta a decenni di conflitti ma anche ai prezzi bassi del petrolio, risorsa principale del Paese. In questo contesto sono arrivati i contagi da coronavirus che hanno dilagato nel vicino Iran, così come in Pakistan aumentando i bisogni della gente e ostacolando l’arrivo di aiuti internazionali, come conferma Alessandra Sacchetti, coordinatrice dei programmi di salute mentale di Azione contro la fame in Iraq:

Sacchetti racconta dell’impegno della sua organizzazione umanitaria per contrastare alcuni fenomeni registrati da anni ma che si stanno accentuando in questa fase, come  i casi di depressione per i traumi subiti e per le difficoltà di vita, le vere e proprie  crisi di identità nell’impossibilità di rientrare nei luoghi di origine. A questo proposito, il pensiero va in particolare ai profughi fuggiti dai territori maggiormente colpiti dai combattimenti e dall’Is. Alcuni di loro non troverebbero case agibili, mentre altri sarebbero ormai condannati dalla gente del posto per legami veri o presunti di un componente della propria famiglia con alcuni miliziani. In alcuni casi, basta lo stupro subito da una donna a condizionare la vita di questa donna, vittima due volte, e di tutta la famiglia.  Inoltre, le misure restrittive per via del Covid-19 ostacolano anche  l’aiuto a  bambini rimasti soli o a donne in gravidanza o che allattano, perché sono i primi ad avere terrore di essere raggiunti e contagiati. Azione contro la Fame – racconta Alessandra – svolge attività promosse specialmente a Sinjar aiutando, ad esempio, gli Yazidi a tornare a provvedere ai propri mezzi di sussistenza e a sostenere le proprie famiglie.

Ultime tappe di una difficile normalizzazione politica

Sabato  6 giugno il Parlamento iracheno ha approvato le nomine di sette dei 22 ministeri del governo guidato dal primo ministro Mustafa al-Kadhimi – e in carica dal 7 maggio – ancora privi di un titolare. Alla cristiana caldea Evan Faeq Yakoub Jabro, insegnante di biologia, già distintasi in passato per l’attenzione alle emergenze sociali riguardanti i giovani, è andato il ministero per rifugiati e migranti. Sarà lei quindi a gestire le politiche del governo per l’emergenza migratoria ma anche per il ricollocamento degli sfollati interni.  Tra le competenze del nuovo ministro c’è anche il dossier riguardante le decine di migliaia di cristiani fuggiti nel 2014 da Mosul e dalla provincia di Ninive davanti all’avanzare dei jihadisti del sedicente Stato Islamico. Gran parte di loro trovarono rifugio a Erbil e nel Kurdistan iracheno e non hanno fatto più ritorno alle proprie case e ai propri villaggi.

Resta l’emergenza terrorismo

Le autorità locali hanno confermato, in questi giorni, che è in corso una campagna militare anti-Is condotta dalle forze irachene e dalle forze filo-iraniane irachene nelle limitrofe regioni dell’Iraq occidentale, mentre la Coalizione internazionale anti-Is e le forze curdo-siriane hanno lanciato, nelle ultime ore, una vasta operazione anti-terrorismo in diverse località della Siria nord-orientale e orientale. Media siriani e iracheni, citando fonti della Coalizione e dei vertici militari curdo-siriani e iracheni, riferiscono delle due operazioni in corso, coordinate dalla Coalizione internazionale creata nel 2014 e da allora guidata dagli Stati Uniti nelle regioni siriane di Hasake e Dayr az Zor e in quelle irachene di Anbar, Ninive, Kirkuk. Circa 20.000 unità partecipano tra la Siria e l’Iraq alle operazioni anti-Is.

da Vatican NEWS del 10 giugno 2020

Preghiera per la Pace nel Vicino Oriente e nel mondo

L’8 giugno 2014, papa Francesco accoglieva i leader di Israele e Palestina, Shimon Peres e Mahmud Abbas (Abu Mazen), e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I in Vaticano per uno storico incontro. A sei anni di distanza, il Forum internazionale dell’Azione cattolica rinnova lo slancio a pregare per la pace e a diffondere il Documento sulla “Fratellanza umana” firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 dal Papa e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il tempo della pandemia per il Covid-19 ha aumentato le difficoltà di sopravvivenza per molti popoli del mondo e ha acuito le tensioni sociali oltre ad aver rallentato la soluzione dei conflitti in corso. Si rafforza dunque l’intenzione della preghiera che in realtà si rinnova ogni anno dall’appuntamento in Vaticano nel 2014 tra i leader israeliano e palestinese, con il Papa e il Patriarca Bartolomeo, su iniziativa del Forum internazionale di Azione cattolica (Fiac), alla quale si uniscono ogni anno tante sigle cattoliche tra cui l’Unione delle organizzazioni femminili cattoliche (Umofc), l’Azione cattolica italiana, l’Azione cattolica argentina, la Commissione nazionale Giustizia e pace della Conferenza episcopale argentina”.  Si fa più accorato, dunque, l’appello alla preghiera, ma anche l’invito a diffondere lo storico Documento sulla “Fratellanza umana” firmato a febbraio dell’anno scorso da Papa Francesco e dal grande Imam Ahmad Al-Tayyeb.

Lo scenario nel mondo è preoccupante  per il numero dei conflitti in corso, anche perché la pandemia è purtroppo tempo di stallo di negoziati, proprio come succede nel contesto israelo-palestinese. Delle difficoltà e delle prospettive  abbiamo parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle Relazioni internazionali all’Università del Salento:

Le due parti in causa, quella israeliana e quella palestinese, vivono per diversi motivi situazioni difficili al loro interno e in sei anni è successo ben poco. E questo – spiega De Luca – non aiuta certamente a pensare di rilanciare il negoziato, oltre al fatto che l’emergenza coronavirus ha di fatto congelato ogni iniziativa. De Luca parla delle proteste, dei tentativi di annessione, della cristallizzazione della realtà dell’area e anche del ruolo che in questo ha svolto sia il conflitto siriano sia la parabola del presunto califfato.

La preghiera può farsi minuto di silenzio se non c’è credo religioso: il messaggio di fratellanza del Papa e del Grande Imam Al-Tayyeb resta potente per tutti gli uomini di buona volontà.

da Vatican NEWS dell’8 giugno 2020