Amnistia in Myanmar, su migliaia solo pochi prigionieri politici

In occasione della festa nazionale – che ricorda il giorno in cui nel 1920 gli studenti avviarono la campagna contro i colonizzatori britannici – la giunta al potere in Myanmar ha scarcerato oltre 5.700 detenuti. Si tratta di un gesto positivo che però riguarda in realtà solo 53 prigionieri politici tra altri condannati per reati comuni, come sottolinea Cecilia Brighi, segretario generale di Italia-Birmania Insieme

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La giunta militare al potere in Myanmar, ex Birmania, ha annunciato oggi il rilascio di 5700 prigionieri, dopo i primi 700 di ieri, tra cui un’ex ambasciatrice britannica, un videoreporter giapponese e un economista australiano, consigliere di Aung San Suu Kyi. Gli arresti di questi stranieri avevano scatenato veementi proteste diplomatiche contro i generali che hanno preso il potere nel febbraio 2021. Della decisione abbiamo parlato con Cecilia Brighi, Segretario generale di Italia-Birmania Insieme:

Cecilia Brighi spiega innanzitutto che tra le migliaia di persone rilasciate, soltanto 53 sono prigionieri politici – dalle carceri di Yangon, Bago e Mandalay – e che inoltre non si tratta di personaggi con un ruolo nelle formazioni dell’opposizione. Sottolinea che usciranno dal carcere, ma che resteranno in quello che definisce un carcere a cielo aperto, cioè una condizione di vigilanza assoluta, nell’impossibilità di contatti o azioni politiche. Brighi ritiene che l’amnistia sia stata concessa in occasione della giornata di festa nazionale in un contesto che però rimane di dura repressione delle aspirazioni democratiche della popolazione. Se è tradizione che in occasione di ricorrenze significative si attuino provvedimenti di amnistia, quello di ieri – afferma – è giunto in un tempo in cui la giunta al potere dal primo febbraio 2021 si trova sottoposta a forti pressioni. A confermarlo è anche il segretario aggiunto dell’Associazione per l’assistenza dei prigionieri politici in Birmania (Aapp), che ha parlato di “un vecchio espediente”. Secondo i dati citati da Brighi, si registrano finora 16.232 arrestati dal golpe di 21 mesi fa guidato dal generale Min Aung Hlain, di cui almeno 12.000 resterebbero in cella.

I rilasciati

Tra i prigionieri politici, va citato il portavoce Myo Nyunt e un ministro della Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, messo al bando. Molti dei suoi esponenti sono agli arresti o  hanno aderito in clandestinità al Governo di unità nazionale che si oppone al regime militare. Scarcerati anche Ko Mya Aye, tra i leader del movimento studentesco del 1988, la cui repressione convinse Aung San Suu Kyi a prendere la guida del movimento democratico non violento, lo scrittore satirico e accademico Maung Tha Cho e il monaco buddhista Shwe Nyawa Sayadaw, oppositore dichiarato del regime.

Gli stranieri

Rimessi in libertà ed espulsi anche autorevoli “ospiti” stranieri delle celle del carcere di Insein, noto per la detenzione dei prigionieri politici: l’economista australiano Sean Turnell, consigliere di Aung San Suu Kyi; l’ex ambasciatrice britannica Vicky Bowman, con il marito, l’artista birmano Ko Htein Lin; il regista giapponese Toru Kubota, che aveva filmato le proteste di piazza contro il regime. Scarcerato anche il cittadino statunitense di origine birmana Kyaw Htay Oo. I tre stranieri liberati saranno espulsi dal Paese, spiega Brighi.  L’ex ambasciatrice britannica (tra il 2002 e il 2006) Vicky Bowman, era stata arrestata lo scorso agosto assieme al marito birmano con l’accusa di non aver dichiarato l’indirizzo di residenza, e condannata per violazione delle leggi sull’immigrazione. Turnell, sposato con una birmana, era il consigliere economico di Suu Kyi, ed era in cella – come la stessa leader – fin dal giorno del golpe. Kubota invece era in carcere da quattro mesi assieme a due collaboratori birmani che l’aiutavano nelle riprese di una manifestazione anti-regime a Yangon. La giunta ha spiegato che l’amnistia è stata concessa “per motivi umanitari”, aggiungendo che la liberazione di Bownan, Turnell e Kubota costituisce “un’espressione di buona volontà tra Paesi”. Amici australiani di Turnell avevano già rivelato che l’economista è malato di cancro.

Pressione non solo dall’Occidente

Il recente vertice Asean (Paesi del Sud-est asiatico) in Cambogia – mette in luce Brighi – ha probabilmente contribuito a creare un clima adatto per il gesto di distensione. Da qualche tempo non sono più soltanto le democrazie occidentali o le organizzazioni internazionali per i diritti umani a tenere sotto osservazione il Myanmar, il Paese  è sottoposto in modo crescente alle critiche  dei partner regionali che chiedono che si metta fine alle violenze e si ripristini un percorso democratico. Tra l’altro – ricorda Brighi – ci sono tanti profughi fuggiti in Paesi come India, Malesia, Thailandia e che rappresentano una sfida per questi Paesi.

Un fatto positivo in un contesto di buio

Il segretario di Stato americano Antony Blinken, ieri da Bangkok a margine del vertice dell’Apec, aveva accolto con favore il rilascio dei prigionieri, avvertendo però che il periodo rimane “particolarmente buio” per il Paese. Brighi cita le sue parole per ribadire che, per quanto sia una buona notizia, l’amnistia non cambia di molto la reale situazione in Birmania. Brighi sottolinea che la giunta del generale Min Aun Hlaing fa vaghe promesse di elezioni, ma nel frattempo ha eliminato dalla scena politica la 77enne Suu Kyi, condannandola ad almeno 26 anni di carcere per presunti reati con altri processi ancora non conclusi.

Ancora vittime

L’esercito usa il pugno di ferro, anche con bombardamenti aerei che fanno strage di civili. I morti nella repressione sarebbero 2.400, inclusi i 16 civili uccisi mercoledì da colpi di artiglieria sparati contro villaggi negli Stati Rakhine e Kayah. Colpito anche un asilo, dove sono morti tre bambini.

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