Su L’Osservatore romano la recensione di Gabriele Nicolò

In un libro di Fausta Speranza l’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità

Il Gange e l’ultimo soldo

13/4/2021 – «Nulla è più duro di una pietra e nulla è più molle dell’acqua, eppure la molle acqua scava la dura pietra», sentenziava Ovidio. Nel pensiero del poeta romano si specchia, in modo esemplare, la forza — paziente e sorprendente — di un bene e di una risorsa dalle cui potenzialità derivano dinamiche ed implicazioni che risultano decisive al fine di salvaguardare l’equilibrio e la salute della Terra. Sarebbe di conseguenza gravissimo, nonché imperdonabile, non valorizzare adeguatamente tali potenzialità. Alla luce di questa consapevolezza acquista un rilievo pregnante il libro della giornalista Fausta Speranza Il senso della sete. L’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità (Formigine, Infinito Edizioni, 2021, pagine 255, euro 17), perché richiama, con rigore critico, l’impellente esigenza di tutelare il legame fondamentale tra l’acqua e il diritto alla salute, ovvero una tra le questioni sociali e geopolitiche di maggiore urgenza inerenti alla più essenziale delle risorse.

Il libro si fregia della lettera di Papa Francesco all’autrice, in cui si elogia il suo lavoro, «frutto della sua operosità quotidiana e di una diligente raccolta di tematiche quanto mai attuali». In tale senso il Santo Padre auspica che tale lavoro «possa favorire il rispetto e la custodia del Creato». Perché coltivare e custodire il Creato, sottolinea Papa Francesco, è «un’indicazione di Dio, data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi, per far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un luogo abitabile per tutti».

Diversi punti di vista, contenuti nelle prefazioni, introduzioni e postfazione (l’ecologista Vandana Shiva, l’ambasciatore Pasquale Ferrara, l’accademico Francesco Profumo, i professori Leonardo Becchetti e Stefano Ceccanti) arricchiscono il volume: valutazioni che fanno da prezioso contorno all’illuminante studio di Fausta Speranza, uno studio che spicca quale prezioso punto di riferimento in merito ad una tematica così articolata e sfaccettata.

In un’epoca segnata dai disastri ambientali e dal consumo eccessivo e scriteriato delle risorse del pianeta, l’acqua assurge ad emblema di quell’equilibrio naturale che gli esseri umani non possono continuare ad alterare senza annientare, così facendo, sé stessi. Indicativo è il richiamo all’Himalaya il quale è il Terzo Polo che fornisce acqua a metà dell’umanità. In virtù di ciò, assumono una dimensione cupa e allarmante “i disastri himalayani”. Spinti dall’avidità e dalla corruzione siamo diventati ignoranti della cultura del sacro e della fragilità ecologica dell’Himalaya. Ecco allora che i disastri himalayani rappresentano una conseguenza dell’ignoranza e dell’avidità, l’avidità di estrarre l’ultima goccia di petrolio e di gas dal sottosuolo, l’ultimo chilowatt di energia dall’ultimo fiume, compreso il Gange e i suoi affluenti, l’ultimo soldo, l’ultima rupia della natura e dei lavoratori.

L’acqua riveste un nevralgico ruolo strategico nello scacchiere internazionale. Si pensi alla crisi del lago Ciad, ovvero uno dei “serbatoi” d’acqua più importanti dell’Africa, da cui attingono tutti i territori circostanti appartenenti a quattro diversi Stati: Ciad, Camerun, Nigeria e Niger. L’area di questo bacino si è ridotta di circa il novanta per cento rispetto agli anni Settanta del secolo scorso. L’emergenza del lago Ciad è un intreccio di crisi diverse. Il cambiamento climatico ha aumentato la vulnerabilità ambientale di una regione già fragile, portando ad una forte siccità e a conseguenze negative sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare. Al contempo si registrano un sensibile aumento demografico e la caduta del petrolio al barile, che ha fatto aumentare l’inflazione e il costo dei beni di prima necessità. A ciò si aggiungano fenomeni di estesa corruzione, che prospera quando si riducono le opportunità economiche “legali”, e quando si allargano le fasce di miseria. La popolazione è allora esposta alle “scorciatoie” della criminalità transnazionale e si creano nuove tensioni migratorie.

Non c’è dubbio che l’acqua sia al cuore della questione ambientale la quale, a sua volta, è inserita in un’era dominata dalla tecnologia. In questa temperie si affermano meccanismi e dinamiche dell’intelligenza artificiale, i processi lavorativi sono sempre più automatizzati, le persone sono sempre più in simbiosi con gli strumenti digitali. Tutto questo avviene mentre si consuma il pianeta fino a minacciare la sicurezza idrica. A questo punto scatta un amaro paradosso. Si raggiungono impensate conquiste, ma non sappiamo come risolvere questioni fondamentali in cui sono messe in gioco l’esistenza e la dignità dell’essere umano. È dunque necessario che venga ripensato l’intero sistema di relazioni tra esseri umani, tecnologia e ambiente. E puntualmente, in merito, Fausta Speranza accosta il messaggio dell’Enciclica Laudato sì alla disamina dei disastri ambientali, alla prospettiva di una tecnologia green, come pure al patrimonio umanistico, religioso e artistico.

Non è certo un caso che tra le sei dimensioni principali della sfida ambientale identificate a livello globale si trovi quella dell’impronta d’acqua e che il goal 6 degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sia relativo alla disponibilità d’acqua pulita e di servizi sanitari. Tra i traguardi che, da questo punto di vista, ci si propone figurano l’implementazione di una gestione delle risorse idriche integrata, la tutela ed il risanamento degli ecosistemi legati all’acqua, l’espansione del supporto per le attività legate all’acqua e agli impianti igienici nei Paesi in via di sviluppo. Alcune buone pratiche, intanto, stanno indicando la vita. In Nuova Zelanda, per esempio, il Parlamento ha approvato una legge che rende il fiume Whanganui (il terzo fiume del Paese) un soggetto giuridico.

Questa iniziativa pone bene in rilievo che l’acqua, a conferma delle sue molteplici potenzialità, assume anche una dimensione costituzionalistica. Essa, cioè, diventa una res funzionale al godimento dei diritti fondamentali, primo fra tutti quello della vita e della salute. L’indissolubile legame con i diritti fondamentali rende l’acqua un bene comune, cioè un bene la cui utilizzazione economica non può andare ad incidere il nucleo essenziale dei diritti umani.

La riflessione di Fausta Speranza sull’acqua ha un potente respiro sinottico, perché traccia un interessantissimo itinerario di tale bene attraverso le diverse religioni, dal cristianesimo e all’ebraismo, dall’islam e al buddismo. Un itinerario che, nel suo agile dispiegarsi, non può non caricarsi di un solido spessore culturale, in cui trova espressione un denso nucleo di usi e tradizioni. L’autrice puntualmente ricorda come l’acqua sia una “protagonista” nelle opere di Shakespeare. Basti pensare a La tempesta, o all’Ofelia dell’Amleto, che sparisce inghiottita dalle acque. C’è poi un’altra celebre storia d’acqua, il mito di Narciso, un personaggio implicitamente presente nei primi Sonetti. Nel sonetto di Shakespeare, allo specchio d’acqua, che nel mito ovidiano resta complice muto di un amore fallace, si sostituisce l’io del poeta in diretta allocuzione con il giovane innamorato. L’interlocutore dell’io poetico tende a non uscire dalla sterile corrispondenza di sé stesso, ma l’invito a guardarsi nello specchio — sottolinea Fausta Speranza — va nella direzione esattamente opposta a quella dell’auto-contemplazione distruttiva di Narciso. Serve piuttosto da incentivo a salvare «quella che viene pensata come l’Immagine perfetta».

di Gabriele Nicolò

da L’Osservatore Romano del 13 aprile 2021