Il difficile riscatto della Somalia

Tra tensioni locali e timidi segnali di ripresa

Dal Jubaland arriva un appello all’Onu: nella regione somala semi-autonoma si voterà a fine agosto per rinnovare il parlamento e scegliere il presidente, ma cresce la preoccupazione e si invoca la supervisione della comunità internazionale. In ballo non c’è solo il risultato delle consultazioni locali, ma piuttosto una sorta di test sul sistema federale della Somalia, paese che con difficoltà sta ancora cercando il proprio equilibrio istituzionale. Il tutto accade mentre oggi ricorre l’anniversario della nascita, sette anni fa, della Repubblica federale di Somalia, ma soprattutto mentre in questi giorni, a Mogadiscio, si discutono le tesi dei primi laureati dopo anni di chiusura delle Università a causa della guerra civile e del terrorismo. Sembra questa la tappa dal più grande valore simbolico per la difficile rinascita del paese del martoriato Corno d’Africa.

Consegna dei diplomi di laurea all’Università di Mogadiscio (Ansa)

Jubaland è una regione del sud con un milione di abitanti. Si capisce l’importanza se si ricorda la città più grande: Kismayo, che torna tristemente, insieme con Mogadiscio, nelle cronache degli attentati.

In una lettera all’inviato speciale delle Nazioni Unite in Somalia, il consiglio degli anziani del Jubaland esprime “preoccupazione”, accusa la commissione elettorale locale di essere di parte e chiede espressamente l’intervento della comunità internazionale. La scorsa settimana anche all’interno del Palazzo di Vetro erano emersi dubbi sul funzionamento delle elezioni. E le perplessità non finiscono qui: anche lo stesso governo federale di Mogadiscio minaccia di non riconoscere il risultato delle elezioni. Da parte sua, la commissione elettorale locale ha assicurato di essere in grado di organizzare un voto trasparente e credibile. Ha convalidato sette candidature per la presidenza regionale. Tra i candidati di spicco c’è il presidente uscente, Ahmed Mohamed Islam, meglio noto come Madobe. In realtà è conosciuto per il suo particolare percorso: è un ex membro e tra i fondatori del gruppo terroristico al Shabaab. Madobe si è pentito alla fine degli anni Duemila e da allora ha aiutato assiduamente le truppe del confinante Kenya a riconquistare Kismayo, terza città somala nelle mani degli al Shabaab. Per le autorità di Nairobi, Madobe è un forte alleato nella lotta contro i miliziani jihadisti e sarebbe la scelta giusta come prossimo presidente. Ma Madobe non sembra avere lo stesso appoggio dal governo federale somalo, che parla di volti nuovi da proporre.

Dopo anni — praticamente dal 1969 al 2012 — senza pace, tra guerra civile, conflitti tra vari cosiddetti “signori della guerra”, terrorismo e pirateria, la speranza si riaccende davvero a inizio 2012, quando viene elaborato il progetto di una nuova Costituzione, che tra gli altri, vede d’accordo il presidente Sharif Ahmed, il primo ministro Abdiweli Mohamed Ali, il presidente del parlamento Sharif Adan Sharif Hassan, ma anche le autorità del Puntland, del Galmudug e la leadership del movimento paramilitare anti-al Shabaab Ahlu Sunnah Wal Jama’a. L’Assemblea Nazionale Costituente approva il 1º agosto il progetto con il 96 per cento dei voti, il due per cento di contrari ed altrettanti astenuti. Il 20 agosto 2012, dunque, nasce ufficialmente la Repubblica Federale di Somalia. Lo stesso giorno, termina il mandato di Ahmed e si scioglie il Governo Federale di Transizione. Dopo l’avvenuta liberazione di Mogadiscio, da parte del contingente di African Union Mission in Somalia (Amisom), e di Kismayo, ad opera dell’esercito kenyota, alla fine del 2012, secondo l’Onu, il governo centrale controlla circa l’85 per cento del territorio nazionale.

Nel 2013 il presidente Mohamud riprende i colloqui di riconciliazione tra il governo centrale di Mogadiscio, da lui presieduto, e quello del Somaliland, regione settentrionale che rivendica l’indipendenza dal resto della Somalia dal 1991, peraltro senza riconoscimento internazionale. Viene siglato un accordo che prevede un’equa assegnazione al Somaliland di una parte degli aiuti umanitari stanziati per la Somalia, e cooperazione in materia di sicurezza. Torna sempre, dunque, il tema del difficile equilibrio tra istituzioni federali e realtà territoriali. E si capisce anche meglio, dunque, l’importanza e l’urgenza dell’appello da parte del Jubaland, stato esasperato peraltro dalla presenza del terrorismo.

Ma il dramma è che nonostante le gravi perdite numeriche e territoriali, al Shabaab non ha mai smesso di colpire Mogadiscio, Kismayo ed altre città sotto il controllo congiunto di Amisom e del Governo centrale con frequenti attentati suicidi, quelli che nei rapporti internazionali si chiamano Improvised Explosive Device (Ied) ed attacchi “mordi e fuggi” tipici della guerriglia. Peraltro al Shabaab risulta ancora in grado di colpire anche in Etiopia ed in Kenya. Basti dire che a febbraio 2017 le elezioni presidenziali si sono tenute per motivi di sicurezza nell’hangar dell’aeroporto internazionale Aden Adde di Mogadiscio.

Tutto questo percorso è disseminato di fatti di sangue. Una scia che ci porta fino al 13 luglio scorso, quando gli al Shabaab a Kismayo hanno colpito ancora una volta un hotel, l’Asasey, molto frequentato da stranieri. Il bilancio delle vittime è stato di 26 morti tra cui anche la nota giornalista Hodan Naleyah e suo marito. Gli ultimi anni sono disseminati di episodi simili. Non si può dimenticare nel 2017 la forte esplosione nei pressi del Safari Hotel di Mogadiscio che ne ha causato il crollo uccidendo oltre 360 persone.

Gli al Shabaab attaccano oltre a caserme, check-point, mercati, tante strutture alberghiere con stranieri per assicurarsi risonanza mediatica. Ma una delle principali mire del radicalismo islamico resta la cultura e l’istruzione, chiavi essenziali per il riscatto. Dunque, se in un primo momento le università sono state chiuse per mandare i giovani a combattere o distrutte dalla guerra, in un secondo momento il mondo dell’istruzione è stato duramente ostacolato dal terrorismo. LaMogadishu University, aperta per la prima volta nel 1970, è stata prima chiusa e poi distrutta.

Il nuovo campus dell’Università è rinato solo nel 2006. C’è voluto tempo e tenacia sotto tanti punti di vista, ma in questi giorni finalmente il paese festeggia i primi laureati, precisamente in giurisprudenza, agricoltura, economia. Giovani che possono essere i paladini di una sana riattivazione del sistema economico-commerciale e soprattutto simbolo di sviluppo e pacificazione. Rappresentano indubbiamente la più grande sconfitta per i gruppi terroristici.

L’Osservatore Romano, 20 agosto 2019