Per le ferite dell’anima

Nella rubrica dell’Osservatore dedicata a  “La chiesa  ospedale da campo”,  lo speciale su:  La  Confessione

di Fausta Speranza

Nell’ospedale da campo non può mancare il confessionale. Nella Chiesa, definita da Papa Francesco con questa espressione, occupa un posto speciale il dono della Confessione, che rappresenta l’unico sacramento che prevede un colloquio a tu per tu, con una risposta personalizzata e non standard, prevista da un rituale. Una straordinaria occasione di comunione con Dio.

Dal confessionale si esce assolti e non più colpevoli: l’aspetto straordinario non è tanto la “pulizia” dai peccati, ma il ripristino pieno del rapporto con il Signore. Eppure, tra i sette sacramenti, la Confessione resta quello più difficile da vivere e non sempre ci rendiamo conto del valore eccezionale della disponibilità di sacerdoti che passano ore e ore nel confessionale: Chiesa viva che medica le ferite dell’anima e dello spirito e che in un mondo frettoloso e individualista assicura l’eccezionale servizio dell’ascolto, con una risposta, mai scontata per l’uomo, di misericordia.

Riecheggia l’invito di San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».

Ed è altrettanto forte l’appello di Papa Francesco ai suoi preti “in trincea” tra i dolori del mondo, quando chiede con fermezza di esercitare e non lesinare l’amore di Dio. Incontrando i Missionari della Misericordia, nell’aprile 2018, Francesco ha detto: «Cari confessori, lasciate respirare i penitenti e non siate inquisitori». Chiara la via indicata: «La Chiesa non può, non deve e non vuole creare alcuna barriera o difficoltà che ostacoli l’accesso al perdono del Padre. Il “figliol prodigo” non è dovuto passare per la dogana: è stato accolto dal Padre, senza ostacoli». Purtroppo nell’umanità dei sacerdoti accade anche una risposta giudicante, frettolosa, irrispettosa. Ha ricordato anche questo Papa Francesco sottolineando, con tristezza, di aver incontrato persone che per questo sono rimaste per anni lontano dal confessionale.

Paolo VI quando — primo Pontefice — parlò alle Nazioni Unite nel 1965 presentò al consesso delle nazioni la Chiesa quale «esperta in umanità». E forse possiamo dire che lo è anche grazie alla Confessione che la avvicina così tanto al vissuto delle persone, tanto da farci meravigliare profondamente — e per fortuna questo è quello che accade nella maggior parte dei casi — per quella parola così comprensiva, così calzante, così precisa su realtà, ad esempio, come le dinamiche di coppia, che dovrebbero essere più lontane dall’esperienza sacerdotale. Eppure, quante volte ci siamo sentiti capiti nel più intimo da un sacerdote molto più che da qualunque amico o amica! La vulgata corrente vorrebbe i cristiani sottomessi alla mortificazione di dover ammettere davanti a qualcun altro i propri peccati, con frustrazione e imbarazzo, ma si dimentica del valore di essere accolti e liberati, non solo dai propri limiti ma anche dal giudizio di se stessi, spesso più implacabile di qualunque altro.

Delle potenzialità del sacramento della Confessione abbiamo scelto di parlare con uno delle migliaia di sacerdoti impegnati “sul campo”: don Antonio Mitrugno, studioso di teologia morale e impegnato con vari incarichi pastorali di rilievo nella diocesi di Brindisi-Ostuni, ma sempre disponibile per il confessionale, perché — ci dice con semplicità — «tra tanti possibili importanti impegni, il più bello è quello di offrire ai fedeli la Confessione». Ci spiega: «La Confessione fa vivere una tale comunione con il Signore che si può vedere il mondo con i Suoi occhi, si può agire come Lui».

Abbiamo incontrato don Antonio a Roma nella parrocchia santuario di Santa Maria delle Grazie al Trionfale, dove ha vissuto per due anni di recente, il tempo del diploma in Archivistica, paleografia e diplomatica, e dove torna periodicamente rientrando sempre — anche se solo per pochissimi giorni — nel confessionale dove tante persone sono felici di ritrovarlo. Glielo chiede il parroco don Antonio Fois, che sa bene il legame che si crea, grazie alla Confessione, con un padre spirituale che ti segue nel tempo, creando un rapporto che aiuta e rafforza nel cammino.

Don Antonio, definirebbe la Confessione come atto di carità?

Sì. La carità è una partecipazione fatta a noi del medesimo modo di amare di Dio, e l’infusione dello Spirito Santo rimuove in noi i peccati nel medesimo modo in cui la luce elimina le tenebre. Sono presenti diversi riferimenti biblici. San Pietro nella sua prima lettera scrive che «la carità copre una moltitudine di peccati» (I Pietro 4, 8). Inoltre nel Vangelo in riferimento alla peccatrice che gli aveva profumato i piedi Gesù dice: «Le sono perdonati i suoi molti peccati» (Luca 7, 47) ). E anche nell’Antico Testamento si fa riferimento nel Libro dei Proverbi, dove Salomone dice che «la carità copre tutti i peccati» (Pr 10, 12).

Quanto può essere “faticosa” la Confessione per un sacerdote? Non solo per le volte in cui si sta ore nel confessionale, ma per la pesantezza di ascoltare dolori, difficoltà, cecità delle persone più diverse che arrivano?

Comporta la fatica di ascoltare drammi, inquietudini e fragilità del penitente. Ma aiuta a vivere il proprio sacerdozio. La fedele e generosa disponibilità dei sacerdoti all’ascolto delle confessioni, sull’esempio dei grandi santi della storia, da san Giovanni Maria Vianney a san Giovanni Bosco, da san Josemaría Escrivá a san Pio da Pietrelcina, da san Giuseppe Cafasso a san Leopoldo Mandić, indica a tutti noi come «il confessionale possa essere un reale luogo di santificazione», ricordava Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica del 25 marzo 2011. Occorre lavorare molto su noi stessi, sulla nostra umanità, per non essere mai di ostacolo, ma per favorire sempre l’avvicinarsi alla misericordia e al perdono. La Confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia! Nella mia esperienza di presbitero la Confessione è determinante perché mi permette di vivere il ministero sacerdotale in pienezza in quanto si trasmette al penitente la gioia del perdono e del sorriso di Dio. Per tutti i religiosi la confessione dovrebbe avere gli stessi riverberi all’interno della comunità religiosa e nel rapporto con i penitenti.

Quanto è prezioso dire a voce alta i propri peccati con la certezza che quella confidenza resterà nello spazio del confessionale? Alla fine di giugno la Penitenzieria apostolica ha ritenuto opportuno intervenire con una Nota per ribadire l’importanza di tale segreto…

La riconciliazione è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo sacramentale. Anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio sacramentale resterà nel segreto del confessionale, tra la propria coscienza che si apre alla grazia e Dio, con la mediazione necessaria del sacerdote. Il sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla, su di esso.

Quanto è decisivo sentire di essere perdonati per potersi perdonare? Sembra imperare il modello del super eroe che non ammette di sbagliare, che attribuisce comunque la colpa ad altri, che non chiede scusa. In questi atteggiamenti c’è l’aver fatto fuori Dio dalla propria storia, ma c’è anche l’incapacità di riconoscersi limitati e di perdonarsi. È così?

Si vede il peccato come una sconfitta a fronte della nostra fragilità umana. Perciò essere perdonati è prezioso, in quanto ci cambia la vita in tutti i suoi aspetti e ci permette di accogliere il sorriso di Dio nella vita.

Si sentono spesso frasi del tipo «e perché io dovrei raccontare a un prete i fatti miei» oppure «e che pensi che il prete sia migliore di me»? E sono magari le stesse persone che farebbero carte false per essere ascoltate da qualcuno, in casa, sul lavoro, in una società dove tutti corrono e in pochi hanno voglia di ascoltare i problemi altrui….

Molto spesso in una società dove impera il relativismo etico frequentemente l’uomo afferma di confessarsi direttamente a Dio per cui fa a meno del sacerdote pensando di essere assolto direttamente da Dio. Si prova vergogna nel raccontare le proprie debolezze al sacerdote perché si pensa di essere giudicati. Tuttavia oggi dalla mia esperienza emerge un forte desiderio di essere ascoltati e orientati di fronte alle problematiche che emergono nella vita di ogni uomo o donna. Purtroppo, succede che non sempre i sacerdoti dedicano tempo all’ascolto delle persone. In ogni caso l’unico che può ascoltare davvero è il sacerdote perché in lui — per volere di Dio — c’è la grazia. L’incontro con il sacerdote diventa il “toccasana” per ricredersi e iniziare un cammino di fede serio.

Secondo Freud, la confessione, al di là del valore sacramentale, era una geniale invenzione per avere l’opportunità di aprire il cuore e di avere un altro in ascolto, come lui poi ha proposto con la psicanalisi, che sappiamo ultimamente trova sempre più persone che si avvicinano. Non si nega il valore scientifico di una introspezione seguita da uno specialista serio: tanti sono di alto livello e aiutano benissimo le persone a ritrovare il bandolo delle proprie piccole o grandi nevrosi, a impostare in modo più sano rapporti e relazioni, a tenere a bada paure eccessive, a smorzare la propria visione egocentrica e miope della realtà. Ma qualcosa di fondamentale distingue una Confessione da una seduta con uno psicologo…

Nella Confessione emerge la grazia perché è Gesù stesso che attraverso il sacerdote dona la grazia: si trasmette al penitente la gioia del perdono e del sorriso di Dio. Mentre la seduta con lo psicologo rimane un intervento scientifico. È importantissimo che il confessore ascolti attentamente il penitente per fargli prendere coscienza in maniera tenera delle proprie colpe, per sviluppare in lui il senso di Dio e il senso del peccato ormai perso nella nostra società odierna.

È vero che tanta gente si reca nei santuari piuttosto che nelle parrocchie perché si trovano sempre confessionali aperti? Non le sembra che a volte nelle realtà parrocchiali l’organizzazione sia un po’ sbilanciata verso attività belle e importanti di oratorio ma che lasciano troppo poco spazio alle confessioni?

È vero, c’è questa tendenza in atto. Forse perché le parrocchie vengono viste come luoghi dell’impegno costante, della partecipazione continuativa, della presenza operativa, dell’appartenenza. Aspetti considerati troppo vincolanti da molti. Così si preferisce riprendere il cammino religioso in luoghi religiosamente più “neutri”, meno prossimi all’esperienza quotidiana, che non richiedono un impegno diretto o continuativo in termini di partecipazione ai riti o alla comunità. Come per i santuari così per le parrocchie sarebbe opportuno privilegiare molto la Confessione come pilastro per formare e rafforzare la fede dei credenti. Sarebbe opportuno avere un appuntamento mensile o quindicinale di riconciliazione comunitaria per fortificare la propria anima a Dio.

Nella preparazione al sacramento della Comunione, non dovrebbe esserci più spazio per accompagnare per mano le persone a scoprire la grandezza del sacramento della Confessione?

Sì! Non ci può essere Eucaristia senza riconciliazione. Il sacramento della Comunione prevede una buona Confessione, la Confessione aiuta ad accostarci a Gesù con sentimenti di libertà interiore a tal punto da sentirsi sereni dopo aver ricevuto l’Eucaristia. Non ci può essere Eucaristia senza riconciliazione e viceversa.

Qual è la differenza generalmente tra un giovane e un anziano che entrano nel confessionale? E tra uomo e donna?

La differenza c’è perché l’anziano è strutturato secondo una forma mentisdel passato dove spesso non ci si accostava alla Comunione con facilità, se non dopo essersi confessati. Il giovane fa fatica a chiedere di confessarsi perché la Confessione può significare motivo di debolezza, di fragilità e invece non è così, perché con la Confessione aumenta la grazia, senza di essa diminuisce. Tra uomo e donna, l’uomo ci impiega molto a decidersi e lo fa di rado, la donna ha una sensibilità forte verso Gesù per cui si attiva molto spesso ad accostarsi al sacramento della riconciliazione.

Lei che vede i volti e sente le espressioni delle persone “liberate” da pesi dell’anima a conclusione di una Confessione, ci dice la sua impressione su quanto faccia male alle persone portare dentro di sé limiti, colpe, responsabilità? Anche oggi in una società dove apparentemente tutti hanno abbassato il livello di percezione del Bene e del Male e in cui troppi relativizzano tutto schiarendo tale confine, non le sembra che quando si passa dal piano della razionalità a quello personale e fattuale, è ancora grandissima la sofferenza di persone che per prime non si perdonano?

È vero. Ci sono persone che non facilmente perdonano le proprie fragilità e i propri peccati, anche se poi, effettivamente, tendono ad assolversi per tutto e per qualunque cosa. Spesso succede che la gente si accosta al sacramento della Confessione portando con sé notevoli macigni che non sempre riescono a esternare, spesso esplodono in pianto e il dono delle lacrime permette poi di aprirsi e di sentirsi liberati, con il sorriso di Dio sul volto.

L’Osservatore Romano, 4 agosto 2019

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