La parabola della moneta unica europea

A vent’anni dall’entrata in vigore l’Euro non è più il simbolo della crisi

di Fausta Speranza

       A vent’anni dalla nascita dell’Euro un bilancio serio non può che essere sdoppiato tra il primo, felice, decennio e il secondo, stravolto dalla crisi e segnato da scontento e rancori sociali. Ma, a pochi mesi dalle elezioni europee che dovrebbero, secondo i pronostici,  segnare il trionfo dei populismi e dei sovranisti nostalgici della moneta nazionale, la sorpresa è che proprio i leader di questi movimenti – diversi ma accomunati dall’euroscetticismo —   hanno cambiato idea sull’Euro. Nessuno mette più in dubbio la moneta unica. Moneta alla quale si sono dirette critiche e colpevolizzazioni di tutti i disastri finanziari, divenuta in molti casi utile capro espiatorio per spostare alcune responsabilità. Resta fondamentale mettere a fuoco cosa abbia significato davvero l’Euro nei due decenni e dove fossero oggettive lacune e vulnus. E può essere importante capire se la data ormai imminente della Brexit abbia cambiato qualcosa nella percezione di tutti.

       Crescita, stabilità, convergenza. Sono i termini che si ritrovano in tutti gli annali che raccontano – cifre alla mano – l’economia europea da quel gennaio 1999, in cui entrava in vigore la valuta comune, fino all’arrivo della crisi in Europa nel 2008-2009, riverbero di quella scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti. Una gravissima crisi, peggiore nei suoi effetti di quella degli anni Trenta dello scorso secolo. Prima che scoppiasse, in Europa c’era una situazione più che favorevole: dalla Germania alla Grecia gli stessi tassi di interesse. Mai avvenuto prima. Questo fattore, insieme con la stabilità dettata dalla moneta unica sui mercati mondiali, assicurava crescita. La cosiddetta Eurozona si allargava in base a una roadmap ideale che avrebbe previsto alla fine tutti nel club, ma solo dopo aver dimostrato di passare l’esame necessario. Si è arrivati all’adozione dell’Euro da parte di 19 paesi su 28. Gli ultimi in ordine di tempo, Lettonia e Lituania, lo hanno fatto rispettivamente a gennaio 2014 e a gennaio 2015, in tempi non più d’oro.

       Nel 2006 perfino nel Regno Unito, affezionato a ragione alla sua fortissima sterlina, si parlava di un possibile ingresso nell’Eurozona. Non ha mai fatto questo passo la Gran Bretagna e non lo ha fatto, ad esempio, la Polonia, prenotata per il 2011 e poi per il 2013. Nella prima data, si stentava a arginare lo tsunami economico e, nella seconda, stava arrivando l’ondata recessiva a far naufragare i primi segnali di ripresa del 2012. Secondo gli ultimi pronunciamenti, Varsavia ha rimandato la questione al 2019-2020.

       Il punto è che l’Euro non ha retto come avrebbe potuto alla crisi. E non solo perché l’urto è stato dirompente, ma piuttosto per una sua fragilità strutturale. L’adozione della moneta unica non è stata accompagnata da politiche di gestione comuni. Quando si è trattato di intervenire, gli strumenti non erano condivisi. Sembra una banalità prevedibile e infatti era stata prevista da tutti gli economisti, ma i leader europei non ne hanno tenuto conto. È storica la risposta, tra tutti, di Helmut Kohl, cancelliere tedesco  dal primo ottobre 1982 al 27 ottobre 1998. Il suo è stato il mandato passato alla storia per l’unificazione della Germania — che ha rappresentato un momento politico altissimo ma anche uno scossone economico — ed è stato il mandato in cui sono state prese le decisioni fondamentali   per l’Euro. A quanti chiedevano efficaci politiche monetarie comuni, Kohl rispose che già aveva chiesto ai tedeschi di rinunciare al marco: altro che suonasse come condivisione di rischi economici non si poteva chiedere. Un po’ tutti i politici erano convinti che si potesse fare un passo per volta.

       Il resto è cronaca. La reazione immediata alla crisi messa in atto negli Stati Uniti, che avevano un sistema bancario unificato, non è stata possibile negli stessi veloci ed efficaci termini in Europa. In Ue ogni singolo paese ha fronteggiato a livello nazionale l’emergenza,  prima che ci si attivasse per creare l’Unione bancaria che mancava. Poi sono state prese anche altre decisioni importanti, come l’istituzione del meccanismo comune di stabilizzazione, definito dalla sigla Esm, che prevede fondi e strumenti precisi. Ma nel frattempo i cittadini hanno pagato i conti della crisi, con gli interessi per la mancata comune gestione, che avrebbe significato anche maggiori controlli.

       Quando si parla di Regno Unito, non si può dimenticare che, se è vero che non ha mai adottato l’Euro, ha scelto però ben presto di entrare a far parte di quel gruppo di paesi che sotto la sigla Sepa, Single euro payments area, si assicura pagamenti al dettaglio in euro effettuati con strumenti diversi dal contante (bonifici, addebiti diretti e carte di pagamento), a favore di beneficiari situati in qualsiasi paese della Sepa, con la stessa facilità e sicurezza su cui si può contare nel proprio contesto nazionale. Per chi vive la City, non è un dettaglio pensare di uscire dalla Sepa. È tra le innumerevoli ripercussioni negative della Brexit. Londra, infatti, non è nell’Eurozona ma sta nel mercato unico europeo e nell’unione doganale. Gli affari c’entrano. Fatti i conti, il parlamento di Westminster ha frenato seriamente  la marcia del governo verso l’uscita dall’Ue.

       Non sembra un caso che, proprio quando si palesano i costi della Brexit, i leader più euroscettici abbiano frenato la loro corsa contro l’Euro. Nelle ultime settimane hanno dichiarato di aver cambiato idea Marine Le Pen, a capo del Rassemblement National,  che voleva Parigi fuori dall’Ue e dalla moneta unica;  Matteo Salvini, attuale ministro dell’interno italiano da sempre esponente della Lega, partito euro-critico; Heinz-Christian Strache, attuale vicecancelliere austriaco e presidente del Partito della libertà che si autodefinisce di destra neo-nazionalista; l’olandese Geert Wilders che ha fondato il Partito per la libertà altrettanto nazionalista.

       Dopo tutte le parabole di questi venti anni, dunque, l’euro sembra fuori discussione. Ma dovrebbe essere scontato anche il  condiviso impegno ad andare oltre la moneta unica e oltre i salvataggi delle banche, con provvedimenti concreti ed efficaci per la crescita e l’occupazione, per i cittadini.

       Questo compleanno dell’Euro deve servire a ricordare che c’è ancora molto da fare. Al momento, il nodo sono gli investimenti,  urgenti per la crescita. Ne servono più di quanti siano scattati finora. Su questo sono tutti d’accordo: economisti, leader, cittadini. Ma investimenti europei significano anche margini di rischio comune e l’assunzione di questo rischio non è ancora una volta scontata. Non aiuta la situazione di paesi con un livello di debito pubblico preoccupante. Non aiuterebbe un’Unione europea indebolita da un voto euroscettico a maggio.

L’Osservatore romano, 21-22 gennaio 2019