Cittadinanza e sfide globali

I rischi per alcuni diritti fondamentali di fronte a migrazioni e terrorismo

di Fausta Speranza

       La sfida della cittadinanza si fa globale. Mentre si parla sempre più spesso di sovranismi, la questione della nazionalità impone uno sguardo e un’analisi che valicano le frontiere. Accade perché le situazioni particolari rimbalzano a livello mediatico con eco mondiale e accade perché la questione delle migrazioni, con i risvolti in termini di condizioni di rifugiati, profughi o apolidi,  interpella tutti. Ma accade anche perché il terrorismo in qualche modo  rischia di “dettare legge” pure a questo proposito.

       La cronaca nel 2018  ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite sulla fascia di terra tra Myanmar e Bangladesh dove si è consumato un esodo di massa. Migliaia di musulmani, senza il riconoscimento di diritti di cittadinanza, hanno cercato asilo in Bangladesh. Le autorità di Naypyidaw hanno parlato di facinorosi allontanati dalla popolazione perché protagonisti di disordini e di reati, ma i media hanno fotografato una storia di persecuzioni.

       E, in questi giorni, in India ha fatto discutere e ha suscitato proteste la decisione di garantire la cittadinanza a qualunque migrante indù che fugga da paesi a maggioranza musulmana, come i vicini Pakistan e Afghanistan. In particolare, il  disegno di legge, approvato l’8 gennaio dalla camera bassa del parlamento, permette a membri di quelle comunità perseguitati, entrati in India prima del 31 dicembre 2014, di essere naturalizzati dopo sei anni di residenza invece dei dodici previsti. Il disegno normativo che emenda il Citizenship  Bill,  la precedente legge del 1955, prevede anche di concedere la cittadinanza solo a chi era nello stato di Assam prima del 1971: la perderebbero, dunque, quattro milioni di profughi musulmani  arrivati successivamente.  L’opposizione parla di violazione del principio di equità.

       Tutti e due i casi, emblematici di molti altri, mettono in luce il gap tra il previsto diritto di cittadinanza per tutti coloro che vivono su un territorio e casi di discriminazione per etnia, religione.

       In teoria, in tutto il mondo la cittadinanza si attribuisce in base a uno di questi due criteri fondamentali: lo ius sanguinis, che prevede il riconoscimento per la nascita da genitori di quella nazionalità, o in seguito al vincolo del matrimonio. E lo ius soli, il diritto acquisito per  essere nato su un territorio indipendentemente dalla nazionalità dei genitori, anche se, nella maggioranza dei casi, si parla di ius soli “corretto” perché, per evitare viaggi ad hoc, si prevede la permanenza o residenza dei genitori su quel territorio per un certo periodo. Bisogna anche citare la prevista naturalizzazione: il riconoscimento di cittadinanza per particolari onorevoli motivi o, per esempio, in alcuni stati, per la partecipazione alla leva militare. Ma questa procedura va al di là dei suddetti veri e propri fondamenti giuridici che ispirano praticamente le legislazioni  di tutto il mondo. Ma questi principi, in Asia e non solo, come abbiamo visto, vengono a scontrarsi con situazioni particolari e discriminatorie di vario genere.

       Il punto è che l’occidente, che indubbiamente ha una tradizione di rispetto dei diritti umani e di tutela dalle discriminazioni diversa, di fronte alla globalizzazione e ai flussi migratori, dovrebbe farsi sempre più baluardo dei diritti dell’uomo. E non vacillare. I rischi, invece, ci sono e per tutti.

       Le sollecitazioni vengono su due fronti. Il primo è quello delle migrazioni. Non è da poco il fatto che nel Global compact  for safe, orderly and regular migration, il patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare  voluto dalle Nazioni Unite — ma messo in dubbio da diversi governi — si legga che il quarto obiettivo indicato è di «assicurare ogni impegno  affinché tutti i migranti abbiano prova di identità legale e adeguata documentazione». Nel capitolo relativo, il numero 20, si chiarisce bene «il diritto di ogni migrante a una identità legale» e si ribadisce «la necessità che ogni paese faccia il possibile per ritrovare, conservare, mettere a disposizione certificati civili o qualsiasi registrazione utile a livello identitario». Si chiede anche «forte collaborazione tra stati», perché non sempre, ad esempio, c’è universale riconoscimento di alcuni documenti di viaggio, stesse modalità di archiviazione dei dati o uguale disponibilità a comunicarli. Estremamente concreto è l’invito a «registrare sempre e comunque la nascita di bambini in tappe anche molto difficoltose di viaggi». Pensiamo alle imbarcazioni nel Mediterraneo o ai viaggi dall’Honduras o dal Salvador verso gli Stati Uniti attraverso il Messico. In ogni caso, nel Global compact  si denunciano «i rischi crescenti di vulnerabilità per mancanza di cittadinanza nelle migrazioni» e si chiedono con fermezza «più efficaci misure per ridurre l’apolidia». Peraltro, anche nel global compact dell’Onu dedicato in particolare ai rifugiati tornano le stesse raccomandazioni, al capitolo 3.

       A ben guardare c’è un’altra situazione — che può essere solo in minima parte legata alle migrazioni — che fa parlare di cittadinanza: è la sfida del terrorismo. Negli ultimi anni in Europa si è registrato un dibattito nuovo intorno a leggi che autorizzino la revoca della cittadinanza per implicazioni con reti terroristiche. È nuovo come il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters, cittadini europei che si sono uniti al sedicente stato islamico, in particolare sul fronte siriano.  Di un possibile provvedimento per la revoca della cittadinanza si è discusso molto in Francia, ma non si è arrivati a  cambiare la normativa. In Italia, invece, nel  decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, dedicato alla sicurezza, si prevede la revoca della cittadinanza a chi non è italiano per nascita, ma abbia ottenuto la nazionalità dopo la maggiore età,  ed è stato definitivamente condannato per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale. Si tratta di casi che si verificheranno raramente. Tuttavia, l’effetto sul sistema può essere significativo: si  frammenta il concetto di cittadinanza, praticamente introducendone una di “serie b” rispetto a quella che appartiene a chi è italiano dalla nascita. Banalmente, per lo stesso reato, sono previste conseguenze diverse, per esempio, per una persona adottata. Al di là della possibile discussa violazione del principio d’eguaglianza, in questo contesto interessa evidenziare che la disciplina potrebbe generare apolidia, in contrasto con la convenzione internazionale che  vieta agli stati di creare nuovi apolidi.

       Tutto questo colpisce particolarmente se si pensa a tutti gli sforzi che restano da fare perché effettivamente nel mondo i cittadini siano trattati con equità, mentre si rischia che  vacilli qualche punto fermo fin qui acquisito in tema di cittadinanza. Colpisce in particolare a inizio di questo 2019, che ci riporta al drammatico anniversario dell’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, all’oscuro periodo della seconda guerra mondiale e all’impegno della comunità internazionale per risolvere il dramma delle persone apolidi, nato proprio in conseguenza di quel conflitto. Dopo il 1945, infatti, il mondo si è trovato dinanzi a un’impennata nei numeri di persone senza nazionalità per la fine di alcuni stati e la nascita di nuovi, per le conseguenze in termini di esodi e di sfollati, e si è posto il problema dell’apolidia. Ora, il mondo si trova davanti ai nuovi «crescenti rischi».

L’Osservatore Romano, 13 Gennaio 2019