Negoziati di pace e accordi commerciali di guerra

di Fausta Speranza

 Per uno dei conflitti più trascurati dai media, quello che prosegue da oltre quattro anni in Yemen, il 2019 si è aperto all’insegna della speranza per i possibili sviluppi della situazione dopo i primi colloqui tra le parti svoltisi a dicembre. Ma anche di una tragica conferma, il continuo afflusso di armi verso tutta la regione mediorientale, dove si trovano sette delle prime dieci nazioni al mondo per investimenti nel settore degli armamenti, e, in particolare, all’Arabia Saudita, paese che guida l’offensiva della coalizione internazionale in Yemen.
In Svezia, all’inizio dell’ultimo mese del 2018, le forze ribelli houthi e il governo yemenita hanno siglato un accordo che prevede il cessate il fuoco nella regione di Hodeidah, porto strategico, e il dispiegamento di forze neutrali supervisionate dall’Onu. Un primo importante passo da consolidare con il ritiro delle truppe di entrambi gli schieramenti a breve e lo scambio di prigionieri di guerra. Ma il percorso si presenta molto accidentato. E la meta di negoziati per una transizione politica è ancora lontana. Intanto, il bilancio del conflitto scoppiato nel 2014 con l’occupazione della capitale Sana’a, da parte di milizie huthi sostenute da forze vicine all’ex presidente Ali Abdullah Saleh e il successivo tentativo di golpe contro il governo di transizione del presidente Abed-Rabbo Mansour Hadi ha assunto i contorni di una gravissima crisi in termini umanitari. Un ufficiale dell’Onu stimava in 10.000 i civili uccisi dall’ inizio del 2017 e alcuni studi indicano che tale numero potrebbe essere salito fino a più di cinquantamila. Oltre 85.000 bambini sotto i cinque anni morti per denutrizione. Circa tre milioni di persone in fuga e 22 dei 28 milioni di abitanti in estremo bisogno di assistenza umanitaria, tra carestia e colera.
L’Unione europea, in prima fila accanto alle Nazioni Unite nel sostenere i colloqui di pace, ha contemporaneamente assicurato aiuti per 324 milioni di euro. Ma l’Europarlamento ha lanciato un monito agli stati membri: non si può con una mano elargire sostegno e con l’altra far arrivare armi.

 E il 4 ottobre scorso, a Strasburgo, è stata votata la risoluzione che richiede ai paesi Ue di «astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto». Va detto che la presa di posizione è arrivata dopo il caso di Jamal Khashoggi, il giornalista e scrittore saudita scomparso il 2 ottobre all’interno del consolato saudita a Istanbul. In ogni caso, uno stop all’esportazione di armi è stato deciso da Germania, Olanda, Danimarca, Finlandia.
Non è venuto da Francia e Italia, che pure compaiono nella lista dei principali esportatori di armi all’Arabia Saudita: rispettivamente con contributi per il 3,6 per cento e per il 1,5 per cento. E anche se in Italia la legge 185/90 vieta l’esportazione di armi verso paesi in conflitto.

Questi paesi vengono dopo gli Stati Uniti e il Regno Unito, secondo i dati dello Stockholm international peace research institute (Sipri). Il rapporto dell’istituto internazionale indipendente che verifica le vendite e gli acquisti di armi nel mondo non riporta dati riguardanti la Russia.

E nel sottolineare la difficoltà di reperire documentazione sull’Arabia Saudita assicura che, secondo le informazioni disponibili, il Regno saudita, in quanto a denaro investito in armi, si trova oggi al primo posto nella regione mediorientale e al terzo nel mondo. Negli ultimi dieci anni, il Sipri registra una crescita di spesa in armi da parte di Riad del 74 per cento, con il raggiungimento del record di spesa militare pro-capite superiore a qualsiasi altra nazione al mondo.

Il 2019 si apre con tutti questi dati e una possibile variante: il ruolo degli Stati Uniti. Khashoggi abitava nello stato della Virginia da diversi anni ed era opinionista del «Washington Post».

L’intelligence statunitense e diverse ricostruzioni giornalistiche hanno indicato come mandante dell’omicidio del dissidente Khashoggi il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.

E il 13 dicembre scorso il senato ha votato una mozione che chiede di bloccare l’appoggio statunitense all’intervento saudita in Yemen, e ha approvato una risoluzione che considera il principe bin Salman «personalmente responsabile» dell’uccisione di Khashoggi. Il voto potrebbe restare simbolico dopo una possibile bocciatura da parte della camera dei rappresentanti o dopo un eventuale veto presidenziale, che potrebbe essere superato solo dai due terzi dei voti in entrambe le camere. In ogni caso, per il momento appare come un chiaro messaggio di presa di distanza da una guerra che sembrava dimenticata e scontata.

Resta il paradigma di una nazione, lo Yemen, diventata terreno di conflitto ma anche piazza di mercato per le armi. La maggior parte dei conflitti hanno una causa chiaramente identificabile, che può essere oscurata dalla prosecuzione del conflitto stesso, dall’entrata in scena di nuovi attori, ma anche dall’insorgere di un’economia di guerra.