Turchia a un bivio

Domenica il referendum sulla riforma costituzionale

di Fausta Speranza

A nove mesi dal fallito colpo di stato, la Turchia è chiamata a scegliere se diventare o no una Repubblica presidenziale. Oltre 55 milioni i cittadini convocati alle urne nel referendum di domani, domenica 16 aprile, sulla riforma costituzionale voluta dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il risultato del voto può cambiare significativamente il sistema politico del paese e, dunque, potenzialmente ridefinire le relazioni con il resto del mondo.
Il referendum si svolge mentre è ancora in atto lo stato di emergenza proclamato  dopo il tentativo di golpe dello scorso 15 luglio. Se verrà approvata la riforma, il presidente della Repubblica in Turchia diventerà  capo dello stato e contemporaneamente  capo del governo; avrebbe il potere di nominare e rimuovere uno o più vice-presidenti e i ministri del governo e di far approvare un certo numero di leggi per decreto, oltre a nominare direttamente la maggioranza dei giudici che siedono nella corte suprema.  In sostanza si passerebbe da una repubblica parlamentare a una repubblica presidenziale.
Il governo ha presentato questa riforma come «necessaria per dotare lo stato di un esecutivo stabile» e lasciare definitivamente alle spalle i fragili governi di coalizione degli anni Ottanta e Novanta, prima che salisse al potere, nel 2002,  il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Erdoğan. Gli articoli della riforma sono stati  approvati dal parlamento lo scorso gennaio con una maggioranza di tre quinti, rendendo così necessario il passaggio del referendum. La maggioranza di due terzi  avrebbe permesso di implementare immediatamente la riforma, anche se Erdoğan aveva dichiarato che in ogni caso avrebbe sottoposto la legge al voto popolare.
I partiti che hanno votato sì alla riforma sono l’Akp di Erdoğan e il Partito del movimento nazionalista (Mhp). Il Partito popolare repubblicano (Chp) di centro sinistra  ha votato no assieme ad alcuni dissidenti dell’Mhp. Il partito che rappresenta la minoranza curda, il Partito democratico dei popoli (Hdp), non ha partecipato ai lavori parlamentari dopo che la polizia aveva arrestato una decina di suoi membri con l’accusa di terrorismo.
La riforma costituzionale, che sarà trasformata in legge se il 50 per cento più uno dei votanti si esprimerà per il sì, è fortemente voluta da Erdoğan, che  è diventato capo del governo turco per la prima volta nel 2003. Da allora ha svolto quattro mandati da primo ministro, che in turco si dice  başbakan, per poi essere eletto capo dello stato nel 2014, cioè  cumhurbaşkanı.
Al momento della fondazione nel 2001, l’Akp si era presentato come «un partito filo-occidentale e filo-statunitense, sostenitore di una economia liberale di mercato e per l’adesione della Turchia all’Unione europea». Oggi si propone come «un partito conservatore di centro-destra che ha  conciliato ispirazione religiosa con la laicità dello stato». Ma oppositori e analisti internazionali lo accusano di essere, in realtà, un partito di destra di ispirazione islamica, teso a mettere sotto diretto controllo i vari apparati dello stato, come polizia, magistratura e servizi di sicurezza, e impegnato a rinnegare l’impostazione laica ereditata da Mustafa Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, nata nel 1923.
Alla vigilia del voto, su tutti i media si è aperto un dibattito su quanto la riforma costituzionale, qualora fosse approvata, potrebbe contribuire a spostare l’asse delle alleanze internazionali di Ankara. Accelerando, per esempio, il processo di progressivo allontanamento dall’Ue e dagli Stati Uniti e di avvicinamento alla Russia. Tenendo comunque conto dell’ancoraggio alla Alleanza atlantica, che al momento persiste saldo.
In ogni caso, le implicazioni possibili sarebbero tante e importanti, a partire dalla questione migrazioni, con il delicato accordo in ballo con Bruxelles. Ankara si è assicurata sei miliardi di euro impegnandosi a controllare le frontiere e, dunque, a bloccare la rotta balcanica dei flussi, ma si tratta di un processo da gestire rispettando determinati standard umanitari. Sul tavolo potrebbe però esserci molto di più, considerato anche il contesto geopolitico del drammatico conflitto siriano.
L’Osservatore Romano, 16 Aprile 2017