Denis Mukwege: mondo inerte di fronte a stupri come arma di guerra

“In un mondo di inversione di valori, rifiutare la violenza significa essere dissidente”: con queste parole Denis Mukwege, medico ginecologo congolese, ha ricevuto al Parlamento Europeo il Premio Sakharov, attribuito a chi si distingue nella difesa dei diritti umani. Mukwege denuncia l’uso dello “stupro come l’arma più economica di guerra”. Da 16 anni, Mukwege opera nell’ospedale Panzi a Bukavu ed ha assistito alcune delle migliaia di donne stuprate nella Repubblica del Congo in quella che definisce “una situazione formale né di guerra né di pace, ma di autentica impunità”. La sua è una denuncia forte e coraggiosa. La nostra inviata Fausta Speranza lo ha intervistato:

R. – Lorsque on parle du viol comme arme de guerre, j’ai l’impression que beaucoup de gens pensent que …
Quando si parla di stupro come di un’arma di guerra, ho l’impressione che molti pensino che si tratti di un rapporto sessuale non consenziente. Io penso che già un rapporto sessuale non consenziente distrugga profondamente la vittima. La gente non si rende conto della forza dell’azione compiuta, quando una donna è non solo stuprata collettivamente, davanti ai suoi figli, a suo marito, alla sua comunità, ma oltre a questo riporta anche ferite all’apparato genitale: tutto questo significa anche devastare la sua umanità, trattarla come un animale. E penso che se oggi ancora non ci sono prese di posizione serie nei riguardi di queste azioni è perché nella testa della gente c’è una grande confusione: si confondono questi atti di barbarie con un rapporto sessuale, e queste sono due cose completamente diverse! Io credo che si debbano tenere separati questi due aspetti.

D. – Cosa può fare il mondo?

R. – Aujourd’hui je pense que le monde n’a pas encore utilisé tous les leviers en sa possession pour …
Penso che il mondo non abbia ancora azionato tutte le leve di cui dispone per mettere fine a questa situazione. Ho detto che c’è un grande problema di educazione. Oggi ci si può rendere conto che coltivare quella mascolinità, che io definisco negativa, che fa sì che l’uomo, crescendo, pensi che la donna non gli sia eguale, sia di per sé molto pericoloso. E questo si può fare già a livello locale. Io credo che non sia raro trovare in ogni cultura una mamma che dica al suo bambino, quando cade: “Non piangere, sei un maschietto!”. Ma che vuol dire, questo? “Non fare questo: tu sei un uomo!”: cosa vuol dire, questo? Credo che significhi semplicemente che “sei un uomo e quindi devi essere diverso, non hai diritto a provare emozioni, non hai il diritto a manifestare quello che sei” … Credo che si possano operare tanti cambiamenti, già a livello locale. Ho raccontato che in Africa, nella mia tribù, siamo stati capaci – per esempio – di eliminare l’incesto, e tutti sanno che l’incesto è un tabù. E allora, perché non si può considerare anche lo stupro come un tabù? Perché oggi si permette alle persone che hanno commesso degli stupri di girare per l’Europa senza sentirsi preoccupati? Ci sono tante cose che si potrebbero fare: sul piano diplomatico, politico, economico e finanziario … Si possono congelare i beni di coloro che hanno commesso questi crimini. Bisogna rafforzare le competenze dei tribunali internazionali perché possano trattare di questi crimini. Ci sono tante cose che si potrebbero fare e che invece non sono ancora state fatte. Credo che noi abbiamo bisogno anche dell’intervento del Parlamento Europeo, abbiamo bisogno che gli europei ci sostengano in questa lotta.

D. – Com’è la vita di una donna stuprata?

R. – Penso che ogni donna stuprata abbia la propria storia e che ciascuna storia sia altrettanto dura e difficile da vivere come la storia successiva … C’è stato un momento in cui ho pensato di avere ormai ascoltato e visto il peggio del peggio, mentre mi sorprende il fatto che con ogni nuovo caso scopro che c’è sempre di peggio rispetto a quello che avevo già visto, al punto che quando mi si chiede di raccontare una delle peggiori storie, mi chiedo da quale incominciare. Ho conosciuto una donna che era venuta in ospedale perché era incinta. E lei ci ha raccontato la sua storia. Quando era stata catturata per essere ridotta in schiava del sesso, tutta la sua famiglia era stata trucidata da quegli assassini. Rimase sola al mondo. Quando arrivò all’ospedale, portava in grembo il frutto di chi le aveva sterminato la famiglia. Ha partorito un mese dopo e mi disse: “Non posso vivere con questo figlio, perché ogni volta che lo guardo mi si ripresenta l’immagine della mia famiglia scomparsa, mi viene in mente che oggi sono sola … e guardare un bambino che mi ricorda tutto questo, mi fa male. Ma questo bambino è assolutamente innocente: non ha partecipato …”. E puoi solo lontanamente immaginare quale dramma possa vivere una donna …

D. – Lei ha detto che gli stupri sono un’arma di guerra. Ma in questi 21 anni di suo impegno per queste donne, non è cambiato niente?

R. – Ça fait 16 ans que je travaille avec ces femmes. Ce que je vois c’est beaucoup plus le …
Sono 16 anni che lavoro per queste donne. Quello che rilevo in particolare è piuttosto il cambiamento del metodo o della tattica, ma in definitiva credo che questa forma di violenza continui e che purtroppo, siccome l’impunità è ormai affermata, accade che chi compie questi stupri continui a farlo nella piena impunità. Anche se ad oggi si può osservare una diminuzione quantitativa, è però aumentata la gravità delle lesioni.