Innocenti evasioni

“Innocenti evasioni”: uso e abuso politico della musica pop   di Fausta Speranza

Accade che non ci sia niente di più anticonformista della normalità. Non è un genitore conservatore a cercare di farlo capire a un figlio perso tra piercing e tatuaggi ma è uno storico che rilegge con sguardo professionale e passione musicale oltre 30 anni di canzoni, da metà Anni Cinquanta alla fine degli Anni Ottanta. Emerge una lettura del rapporto tra canzoni  e impegno politico libera da preconcetti ideologici e per questo nuova.
Parliamo del volume “Innocenti evasioni” di Eugenio Capozzi, professore di storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Nel libro, edito da Rubbettino, non è la musica ad essere sotto esame ma è il significato politico e sociale o, meglio, come si legge nel sottotitolo, “l’uso e l’abuso politico”. Tutto ciò ha suscitato alla fine di ottobre a Napoli uno stimolante dibattito tra giornalisti, docenti e il produttore discografico Giancarlo Lucariello.
E’ un po’ come riascoltare la colonna sonora di anni cruciali della storia contemporanea dal secondo dopoguerra all’avvento digitale, che in Italia significa lo spazio tra il primo benessere e la Milano da bere. Con un’operazione che la storica della letteratura Emma Giammattei ha definito fortemente innovativa sul piano storiografico perché supera le barriere tra forme ‘alte’ e ‘basse’ di cultura.
Dal rock’n’roll alla new wave, dal country e soul alla musica d’amore adolescenziale e musica psichedelica, dalle canzoni d’autore impegnate al pop balneare, si spazia nel mondo occidentale: protagonisti Stati Uniti, Gran Bretagna e Europa, ma c’è un flash anche sulla musica brasiliana. Si parte dagli anni in cui proprio le canzoni hanno nutrito l’esplosione del fenomeno delle comunicazioni di massa. Niente come la musica ha fatto la fortuna di radio pubbliche e private e niente come i dischi ha catturato l’attenzione e la passione dei giovani della generazione dei baby boomer, cioè figli del benessere e della cultura del tempo libero.
Tutto questo è tra i punti di partenza dell’analisi di Capozzi che dissacra qualche simulacro. Ad esempio, se non si può negare quella che definisce la “assoluta virale comunicativa del pop e del rock”, non è corretto continuare a far passare l’idea, tanto sostenuta fin qui, che quella musica sia stata sempre espressione di ribellione. A ben guardare, c’è un crogiolo di messaggi diversi: afflati politici e filosofici ma anche sentimenti pubblici e privati, e tanto scansonato divertimento. Altro mito da superare: in tanto rock’n’roll o country non c’è solo spontaneità, autenticità, lotta alla società negativa e ingiusta. E non c’è solo anticonsumismo. Va ricordato che alle spalle c’è un solidissimo star maker machinary, un apparato discografico che fa un altrettanto solidissimo business, condizionando pesantemente gusti e tendenze. E proprio i baby boomer che contestano le costruzioni economico-sociali dei genitori si prestano per primi al consumismo che il nuovo benessere di quegli anni permetteva: e la musica, dai dischi ai concerti, dai ritrovi agli strumenti, è uno dei lussi e mercati nuovi. Nulla da demonizzare, ma certamente da non negare in nome di una presunta età dell’oro di una presunta cultura della spontaneità.
Capozzi denuncia anche un “edonismo rinunciatario spacciato per rivoluzione”, cioè un invito a godere senza limiti e senza condizionamenti sociali che diventa però in tanti casi un modello assolutamente omologante di vita, di abito, di scelte, che, se partono da un elemento critico in difesa della natura e della naturalezza, in troppi casi, tra ansie ecologiste, finiscono in forzature innaturali a droghe o a promiscuità. Canzoni come “Quando è moda è moda” di Gaber aiutano magistralmente a capire quanto possa diventare conformista l’anticonformismo e integrato il ribelle. Lo storico dell’arte Stefano Causa, nel suo intervento al dibattito, ha sottolineato il valore dell’analisi di Capozzi parlando senza mezzi termini di rovesciamento di una “vulgata” stanca. Il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco, ha affermato che Capozzi invita a ripensare quelle che ha definito le troppo facili distinzioni tra “impegno” e “disimpegno” e tra “progressismo” e “conservazione”.
Nel libro c’è anche l’analisi di una spinta al ritorno ad alcuni valori tradizionali in tante canzoni pop. Capozzi ci porta a rileggere i testi di Mogol per Battisti, che canta tra l’altro “Perché no”, in cui la trasgressione alla quale allude il titolo è quella di fare cose normali e quasi banali con la propria donna come andare al supermercato e ‘parlar di surgelati rincarati’. O le canzoni dei Pooh, dove spesso il protagonista maschile interpella l’elemento femminile che più risente dell’anelito alla vaghezza dei rapporti. Anche qui solo un esempio: “Cara bellissima”, in cui la donna si impone di lasciarsi sedurre ma senza concedersi sentimenti e l’uomo ne soffre. L’invito, dunque, è a capire meglio tendenze e bisogni passati sotto silenzio rispetto a un certo impegno politico-sociale gridato. E a capire meglio anche la pressione, sfociata nel famoso  processo pubblico a De Gregori in un concerto del 1976, su cantautori che all’impegno su temi sociali alternavano o preferivano contenuti intimisti. A questo proposito, alla presentazione-dibattito, il produttore Lucariello, che ha lanciato tra gli altri i Pooh, si è sbilanciato a dare testimonianza diretta di come fossero “emarginati” cantanti di peso come Battisti, gli stessi Pooh o Baglioni in quello che ha fotografato come il clima di movimentismo di sinistra. Salvo poi scoprire che in privato tanti intellettuali militanti li ascoltavano e apprezzavano.
In definitiva, Capozzi chiarisce: ciò che è stato politicizzato nelle canzoni non sempre è stato libero da abusi e forzature e non sempre è stato davvero rivoluzionario, anticonsumistico, anticonformistico. E ciò che non è stato politicizzato, non è detto che non avesse un forte significato sociale. Insomma, è lo storico a invitarci a riascoltare quelle che, per dirla con Bennato, a volte “sono solo canzonette” e a volte no. Ma non deve essere un presupposto ideologico a deciderlo.

da Area di novembre 2013