Uso e abuso politico del pop-rock

Bob Dylan viene considerato il profeta del nuovo disagio giovanile proprio quando, a metà anni ’60, con la svolta elettrica, smette di essere un folk-singer politicizzato. In Italia, Francesco Guccini, traducendo il profetismo dylaniano, con “Dio è morto” attacca il nuovo conformismo che si profila all’orizzonte. Così come Giorgio Gaber, a fine anni ’70, disseziona ferocemente senza pietà i limiti della controcultura. Per non parlare di Mogol che, nel brano di Battisti ‘Perché no?’, critica il ‘sesso libero’ e la ‘coppia aperta’, invocando la normalità come trasgressione. Sono solo alcuni esempi che dimostrano come, nella storia del pop-rock, le canzoni siano state il tramite di idee e sentimenti molto diversi, spesso contradittori. A smontare il luogo comune del pop-rock musica giovanile come espressione, fin dalle origini, di una ribellione anti-sistema, contro l’establishment politico e culturale borghese, è il libro “Innocenti evasioni, uso e abuso politico della musica pop (1954 – 1980)”, (ed. Rubbettino), del prof. Eugenio Capozzi, docente di Storia contemporanea all’Università degli studi Sr. Orsola Benincasa di Napoli. Con una disanima storica che parte dal rock’n roll e dal beat – passa per il punk, la new wave e la discomusic – per arrivare alla canzone impegnata degli anni di piombo in Italia e al pop apparentemente disimpegnato, il libro smonta il mito del rock musica ribelle, spontanea e autentica e anti-commerciale. Il tutto senza mettere in discussione il valore culturale e sociale della musica leggera, ma anzi esaltandolo. (A cura di Fabio Colagrande e Fausta Speranza)

11 luglio 2013