La soluzione c’è: il Mercato Unico

Merci, servizi, persone e capitali. L’Europa avrebbe dovuto costruire uno spazio economico unico per poter essere competitiva con i mercati Usa e d’Oriente.

L’Unione Europea, che vacilla tra emergenze dei mercati e interventi di salvataggio di Banche e Paesi, e che discute di misure di rigore e di piani per la crescita, dimentica di avere a disposizione da 20 anni lo strumento privilegiato del Mercato Unico Europeo. Una dimenticanza che comporta costi gravosissimi. Un esempio: soltanto la mancata adozione di un Brevetto unico per i 27 Paesi costa alle imprese mezzo milione di euro al giorno. Lo assicura Arnaldo Abruzzini, segretario generale di Euro Chambre, federazione di 2.000 camere di commercio e industria con sede a Bruxelles. Abruzzini spiega che Londra, Parigi e Monaco si contendono la sede dell’agenzia di gestione del Brevetto e non trovano un accordo.

Parliamo di un Mercato di 500 milioni di consumatori, più di tutti gli statunitensi che superano di pochissimo i 300 milioni di abitanti. Rappresenterebbe un volano per l’economia, ma gli Stati membri non l’hanno mai realmente lanciato. Non c’è da considerare solo il business mancato nel circuito interno ma anche le opportunità perse in termini di esportazione in Paesi terzi, dove gli europei si avventurano a ranghi sparsi, niente affatto compatti, mentre il mondo premia i più grandi.

La libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali rappresenta l’ossatura del Mercato Unico. Nel 1992 Bruxelles annunciava queste quattro libertà fondamentali. Oggi per i giovanissimi è scontato ma viaggiare, studiare, lavorare, vivere e fare acquisti in un altro paese dell’Ue senza troppi problemi non lo era affatto fino a pochissimo tempo fa. Ma l’obiettivo non poteva essere solo la mobilità. Si doveva costruire uno spazio economico unico che permettesse all’Europa di posizionarsi con tutto rispetto nel panorama internazionale che nel frattempo rispondeva alle leggi della globalizzazione. A ben guardare aspettiamo il Mercato Unico non solo dall’anno di lancio. Lo prevedeva l’Atto unico del 1986. Ed era stato pensato ben prima. Nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957 si legge: “il Mercato unico è l’obiettivo principale”.

Servizi pubblici, Banche e finanza non ne vogliono proprio sapere

Il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella, parla di servizi pubblici che restano sotto la gelosa sovranità nazionale, come altri ambiti dell’economia. Sottolinea, per esempio, il danno prodotto dalla mancanza di un mercato comune del settore energia. Cita «il mercato tedesco dell’energia che è particolarmente chiuso». Questo – dice – è contrario a ogni aspirazione a un riequilibrio di ricchezza e benessere tra gli Stati membri.

I singoli Stati, inoltre, non cedono nulla della sovranità in materia fiscale o di protezione sociale. In più, i settori interbancari e finanziari sfuggono alle logiche del Mercato Unico. Il presidente di FederLazio, Maurizio Flammini, ci racconta il bluff delle carte di credito. Da tempo gli imprenditori chiedono commissioni uguali in tutti i 27 Paesi. Ora ci sono commissioni anche doppie e triple e, in caso di cifre considerevoli, la carta si blocca solo per questo motivo. Altro che Mercato Unico, commenta Flammini.

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Maurizio Flammini, presidente di FederLazio.

A pensarci non è un caso che abbiamo adottato l’euro come moneta unica di 13 Paesi senza adottare misure monetarie comuni. La finanza resta un tabù, anche perché è uno di quegli ambiti in cui anche l’ultimo Trattato, quello di Lisbona, ha ribadito la necessità del voto all’unanimità. E basta la City finanziaria di Londra a bocciare aperture. Proprio dalla Gran Bretagna, per esempio, viene la prima opposizione alla Tobin Tax, la prima tassa che in tempi di crisi non toccherebbe i cittadini bensì le Banche, incidendo in modo irrisorio su ogni transazione finanziaria. Farebbe sentire ai cittadini, più di altro, che uno spazio economico europeo esiste. La vicepresidente del Parlamento Europeo, Roberta Angelilli, ha promosso la questione fino al recente voto positivo dell’Assemblea di Strasburgo ma gli Stati tergiversano decisamente. La Angelilli assicura che per l’Unione Europea significherebbe un introito di 60 miliardi di euro all’anno. E poi aggiunge: anche la Tobin Tax sarebbe Mercato Unico.

Per i servizi c’è la Direttiva del 2006: recepita ma ignorata

A parte i territori che restano intoccabili, per altri ambiti si è faticosamente arrivati, sei anni fa, alla Direttiva 2006/123/CE, che ha mutato il contesto normativo più di qualunque altra. E’ nota come la Direttiva Servizi. Nonostante il formale recepimento da parte degli Stati, risulta troppo spesso dimenticata. Il segretario generale di Euro Chambre, Abruzzini, spiega che basta citare il cosiddetto Sportello Unico, un ufficio pensato per assicurare alle aziende una serie di servizi a livello nazionale e soprattutto europeo. Andando a verificare nelle varie capitali, si scopre che gli sportelli non si trovano in tutti gli Stati e che, dove si trovano, soddisfano richieste solo a livello nazionale. E’ un fatto emblematico.

Passando dai servizi ai prodotti, si legge che i Paesi Ue hanno adottato il principio del riconoscimento reciproco delle norme nazionali. Non si capisce bene che cosa possa significare all’atto pratico. Parlando con imprenditori e avvocati si scopre che l’obiettivo doveva essere il Testo Unico amministrativo al quale non si è mai arrivati. E non si riesce neanche a lanciare il Contratto europeo di vendita per semplificare e sveltire molte procedure.

Per quanto riguarda la libera circolazione delle persone, c’è l’accordo di Schengen sottoscritto da un primo gruppo di Paesi già nel 1985, poi esteso ad altri. A parte altre discussioni in merito all’apertura delle frontiere, non si può dire che risiedere in un altro Stato o intraprendervi determinate attività sia sempre facile. Riconoscimento reciproco e coordinamento delle norme facilita accesso e esercizio di alcune professioni, come medici e ingegneri, ma ad esempio non è mai stata messa a punto l’annunciata  Patente europea per tecnici o artigiani.

Se guardiamo all’Italia, troviamo ritardi fortemente penalizzanti. L’europarlamentare Raffaele Baldassarre afferma che siamo fanalini di coda nell’applicazione di quasi tutte le direttive importanti.

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L’europarlamentare Raffaele Baldassarre.

Basta citare il primato assoluto in negativo nell’applicazione della Direttiva che da anni impone il pagamento da parte delle Pubbliche amministrazioni alle imprese entro 60 giorni dal servizio. In Italia si viaggia tra i 400 giorni e i due o tre anni. L’imprenditrice Flavia di Stefano ci dice che la sua azienda Crony electronics aspetta soldi dal 2007 dalla Regione Lazio.

Paradosso e-commerce: non ha barriere fisiche ma ben riflette le divisioni europee

Per il commercio online parlano i dati. Lo sviluppo raggiunto in ambito nazionale segna  una media di scambi del 27%. Ci sono Paesi che non raggiungono questo livello, come l’Italia, ma che si attestano comunque al 16%. Ma quando si guarda agli scambi commerciali on line transnazionali si scende a non più del 4%. In sostanza il tedesco o il francese compra facilmente in internet prodotti rispettivamente tedeschi o francesi ma non di altri paesi europei. Il paradosso è che l’e-commerce dovrebbe essere di per sé un passpartout che si fa beffa delle tradizionali barriere. Ma basta pensare alla indispensabile firma digitale che resta rigidamente nazionale. Alberto Abruzzini, segretario generale di Euro Chambre, sottolinea che al momento, cioè, la firma digitale certificata in Finlandia non è riconosciuta in Slovenia. I 27 non hanno adottato un codice di firma digitale europea. Per non parlare del fatto che non c’è un meccanismo europeo di risoluzione di eventuali controversie.

A Bruxelles assicurano che la potenzialità di crescita a breve dell’e-commerce in Europa sarebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro nonostante la crisi.

Il Mercato Europeo è più frammentato che mai visto dalla Cina

Mentre si discute di barriere tra Paesi europei, la Cina imperversa nel mercato dell’Antico continente. Non ci sono, dunque, solo le opportunità perse in termini di business per la mancata realizzazione del Mercato Unico Europeo: ci sono anche le pesanti conseguenze nel confronto commerciale mal gestito con la Cina. Marielle De Sarnez è l’europarlamentare francese che ha curato il Rapporto votato dal Parlamento Europeo per chiedere ai capi di Stato e di governo di essere all’altezza del braccio di ferro commerciale con Pechino.

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L’europarlamentare francese Marielle De Sarnez.

Marielle De Sarnez parlando con Famiglia cristiana afferma: «L’Europa è la prima economia e la Cina è la futura prima economia mondiale senza dubbio. Ora il rapporto non è equilibrato. Noi importiamo più di quanto esportiamo e la Cina sta costruendo il suo impero economico sull’esportazione». Le chiediamo qualche esempio concreto della mancata reciprocità e ci cita «le restrizioni per le imprese europee sul mercato pubblico cinese, a partire dalla negazione di accesso agli appalti pubblici, e le barriere commerciali non tariffarie». Poi ci ricorda la questione delle materie prime preziose «sulla quale c’è un contenzioso aperto» e la questione della proprietà intellettuale «che loro non rispettano». E poi la moneta cinese che è «un grande vantaggio per loro».
Pechino sostiene di usare effettivamente il tasso di cambio dello yuan per contrastare l’inflazione ma Usa e Europa parlano di manipolazione consapevole della valuta per ottenere un vantaggio sleale negli scambi con l’estero. Washington e Bruxelles tentano di fare pressione. Un’arma ci sarebbe: la Cina sta tentando di ottenere un posto nel Wto, l’Organizzazione Internazionale del Commercio. Si potrebbe negoziare su più piani. Ma l’indebitamento da parte degli Stati europei con la Cina e la crisi dell’euro certamente in questo momento non aiutano.
La De Sarnez ci dice che «per negoziare bisogna avere forza e prima di tutto non essere naif. La Cina ha una strategia, gli Stati Uniti hanno una strategia – ammette senza mezzi termini – noi manchiamo di una strategia».

Il presidente della FederLazio , Maurizio Flammini, sconsolato sottolinea che al momento solo dall’Italia operano in Cina 22 delegazioni, tra province, regioni, associazioni varie e si chiede come si possa parlare europeo. Il segretario generale di Euro Chambre, Arnaldo Abruzzini, esprime critiche precise. Primo aspetto: spiega che il Commissario europeo delegato a mediare con la Cina «di fatto non ha potere di negoziazione perché prima di ogni decisione deve riportare il tutto al Consiglio dei capi di Stato e di governo che devono di fatto decidere». Il secondo aspetto si intreccia con il primo: «Nel frattempo ogni capo di Stato o di governo si reca in Cina e tenta affari a livello bilaterale, pensando di essere furbo». Abruzzini non ha dubbi: «Questo modo di fare non ha giovato finora a nessuno».

Famiglia Cristiana del 17 Luglio 2012