La globalizzazione e le contraddizioni dell’informazione

pubblicato su TABLOID, n°8 Settembre-ottobre 2001 da Fausta Speranza

Un esame di coscienza sulla comunicazione in relazione al G8 prima ancora che il summit si tenesse. E’ stato anche questo il senso dell’incontro che ha riunito studiosi della comunicazione e giornalisti, a Genova, la settimana prima del fatidico vertice. L’incontro si inseriva nel ciclo di conferenze, dedicate ai vari aspetti della globalizzazione,promosse nell’ambito della Biennale Europea delle Riviste Culturali, che dal ’99 offre l’occasione di un confronto sulle diverse proposte culturali, perchè l’Europa unita non sia solo economica. Nelle varie giornate si è parlato di globalizzazione e cooperazione con i paesi poveri del mondo, di frontiere nazionali e conflitti, di diritti alla cultura e modelli di sviluppo. Un’intera giornata, poi, è stata dedicata ai sistemi informativi e di comunicazione di massa. L’esame di coscienza ha riguardato il clima di alta tensione che si era creato alla vigilia dell’appuntamento, prima ancora dell’inizio delle manifestazioni e del triste epilogo della prima giornata, chiusasi con la morte del giovane Carlo Giuliani. Diversi i contributi alla riflessione.
Il profesosr Anthony Delano, che è stato inviato di importanti quotidiani anglosassoni e che ora è insegnante della School of Media di Londra, ha parlato di un’esasperazione dei toni che tradisce i principi di oggettività e professionalità del buon giornalismo. I giornalisti Paola Pastacaldi, Gianni Minà e chi scrive hanno soprattutto denunciato il rischio di una progressiva perdita di contenuti. Allargando lo sguardo oltre l’evento, Delano ha messo in luce i rischi dell’informazione globalizzata che fa rima con digitalizzata. E’ innegabile che la tecnologia abbia rivoluzionato il modo di fare giornalismo, basta pensare alla quantità di siti web a disposizione che fa impallidire la rosa dei quotidiani esistenti al mondo. Fin qui, pochi rischi, anzi opportunità. Il punto – ha spiegato Delano – è che la globalizzazione delle agenzie di stampa fa sì che sempre meno giornalisti “producano” la notizia e sempre di più la “lavorino” semplicemente. Da autorevole veterano, Delano araccomanda ai giovani di conservare la curiosità e la grinta per andare a caccia delle notizie, ma si rende conto che la necessità di trovare un lavoro, in un campo che non offre neanche in Gran Bretagna larghi spazi, catalizza le energie dei novelli giornalisti. L’obiettivo diventa un posto al desk che facia guadagnare qualche cosa e che inserisca in una struttura. Con buona pace delle notizie da andare a scovare, ci si dedica a quelle già a disposizione sullo schermo, ricco di lanci di agenzie e di tutto il ben di Dio offerto da Internet. Ma – sottolinea Delano – si trova non ciò che si cerca ma quello che c’è. Su questo ha espresso il suo punto di vista Michele Mezza, giornalista Rai che ha curato l’avvio di Rainews24, esperimento pilota della Rai in tema di nuovi media. “Non era smepre verde la mia vale”, ha tenuto a ribadire, perchè la concentrazione nella produzione di n otizie non è cosa di oggi. Secondo Mezza non si ricorda abbastanza che trent’anni fa il 30% delle news passava attraverso il caporedattore della Reuters, autorevole e più antica agenzia di stampa. Mezza ha poi contribuito alla riflessione rispondendo idealmente ad alcune affermazioni attribuite al cosiddetto popolo di Seattle. Naturalmente anche di loro si è parlato o meglio di quello che avevano comunicato fino alla vigilia del vertice: molta confusione e inesattezze ma sicuramente la voglia di “disturbare” il lavoro dei compunti rappresentanti delle potenze più industrializzate.
Il G8 – ha spiegato Mezza – non è la celebrazione del potere assoluto dell’economia, che sicuramente produce anche situazioni più che discutibili nel mondo, ma al contrario è una sorta di democratica pubblicizzazione di quanto avviene nelle stanze dei bottoni. “L’ipotesi alternativa – fa presente Mezza- è che le decisioni vengano prese al 14esimo piano di un grattacielo finanziario”. Sicuramente senza foto di gruppo. E’ chiaro il messaggio: il potere della finanza e dell’economia non si può demolire impedendo un vertice, che nel regno delle decisioni resta il momento forse più democratico di “partecipazione” ai popoli. Sono le decisioni cui non “assistiamo”, di cui l’informazione non rende conto, come per gli appuntamenti ufficiali, quelle che dovrebbero inquietarci e, semmai, far scendere in piazza. Mantenendo forte il senso dell’autocritica, si dovrebbe dire, però, che si avverte quantomeno il rischio che questa democratica pubblicizzazione dei contenuti diventi il resoconto del menu, delle aree shopping frequentate più o meno dalle varie lady, quando non si debba discutere sull’eventuale assenza della consorte proprio del primo ministro del paese ospitante. D’altra parte, non si sta parlando di globalizzazione?
Il discorso non può che essere sempre allargato a trecentosessanta gradi sui vari livelli della società e spalmato a livello mondiale. E’ l’ottica che, seriamente, ha ispirato la relazione del professor Jo Groebel, direttore dell’European Institute for the Media, istituto di ricerca no profit fondato dall’ex direttore del Corriere della Sera, Alberto Cavallari. Jo Groebel ha voluto mettere in luce importanti potenzialità dell’informazione nel villaggio globale e digitale in relazione al singolo cittadino. La prospettiva più significativa sarà quella di personalizzare sempre di più il suo sempre più attivo rapporto con tutti i mezzi di comunicazione, che, peraltro, vanno verso la convergenza in un unico medium, annunciato da tempo da Negroponte. Significa, ad esempio, che con la televisione on demand potrà scegliere programma e orario, con il proprio telefonino potrà navigare in rete e seguire la Borsa. Inoltre, la realtà del singolo utente si fa metafora di una condizione soggettiva da salvaguardare in uno scenario sempre più virtuale.
La scommessa – afferma Groebel – resta quella, se vogliamo antica, di rispettare l’umanesimo e la cultura. Una scommessa che in particolare deve vivere l’Europa unita. Altrimenti la logica del profitto che regna nel mondo dell’economia, avrà campo di azione in qualunque ambito del villaggio della comunicazione globale in tempo reale. Più umanesimo – pensiamo – significa allora, senza tante implicazioni filosofiche, vita reale dei popoli: affetti e sentimenti, dignità e lavoro. Certamente qualcuno all’interno del popolo di Seattle approverebbe ma non è detto che ci si metterebbe d’accordo sul come mettere in pratica tutto questo. Anche al convegno l’atmosfera si è scaldata quando Gianni Minà, giornalista ben noto che ha assunto recentemente la direzione di una rivista che si chiama Latinomerica, ha parlato di lobby economiche , “poteri più o meno occulti”, “dittature moderne che affamano interi popoli con l’autorizzazione della comunità internazionale e di un’informazione a caccia di tette famose”. E’ tornato il problema spettacolarizzazione, davanti alla quale non ci tiriamo mai indietro se l’ambito di discussione gira intorno ai sistemi informativi perchè, altrimenti, certi temi invocano analisi geopolitiche ben più complesse.
Di informazione si è parlato non solo come comunicazione di notizie ma anche come trasmissione di dati, in relazione all’informatica, che non a caso condivide la stessa radice linguistica. Internet, dunque, può essere considerata non solo come uno dei media ma anche come metafora della comunicazione di oggi: globale e in tempo reale. La globalizzazione è anche copertura globale dell’informazione. E qui, conservando la lezione sui rischi di un eccesso di tecnologia ma anche sulle potenzialità nuove, vale la pena di chiedersi quale sia la reale diffusione della World Wide Web nel mondo. Va detto che rappresenta lo strumento di comunicazione a crescita più rapida della storia: il telefono per raggiungere il 30% della popolazione ha impiegato 38 anni e la televisione 17 mentre Internet lo ha fatto in soli 7 anni. Si può trionfalmente affermare che ha cambiato il concetto di spazio e di tempo ma non si può dimenticare che il mondo resta diviso tra ricchi e poveri, tra istruiti e analfabeti, tra informatizzati e non. Nel concreto un computer costa all’abitante medio del Bangladesh una cifra pari a otto anni del suo reddito, mentre l’amercnao medio lo acquista con lo stipendio di un mese. In Kenya occorrerebbero 12 anni e in Sud Sudan non si riesce a calcolare perchè c’è ancora il baratto, per non parlare del fatto che non c’è energia elettrica. Ma è sbagliato pensare che resti l’Africa il fanalino di coda perchè situazioni altrettanto difficili si trovano nelle regioni più povere d’Europa, della Russia, delle zone dell’ex Unione Sovietca. Per non parlare poi degli squilibri di casa nostra: in Italia Internet ha raddoppiato negli ultimi due anni il numero di utenti, ha conquistato un italiano su quattro raggiungendo quasi i progrediti livelli della Francia, ma se si individua l’identikit del 95% degli internauti si scopre che ha meno di 44 anni, è giovane, maschio e del nord.
A uno sguardo globale inoltre che l’88% degli utenti Internet vive nei paesi industrializzati che rappresentano, però, solo il 17% della popolazione mondiale. Non si tratta di mettere in dubbio la positività di Internet, che rappresenta la chiave di accesso al terzo millennio. Resta da chiarire però che la magia attraverso la quale lo spazio si restringe, il tempo si contrae, le frontiere scompaiono è affidata a una rete che connette sempre di più chi è connesso ma rischia di escludere sempre di più chi è escluso. Rischia di diventare una conversazione dai toni alti che tacita chi ha poca voce, un discorso compattato che fa a meno di tutti gli spazi per inserirsi, proprio come il sistema digitale che compatta i dati. Tutto ciò va tenuto presente insieme con la consapevolezza che le forze del mercato da sole non correggeranno squilibri e disuguaglianze.
L’illusione che il processo di globalizzazione potesse funzionare secondo il principio dei vasi comunicanti, livellando miracolosamente le differenze nella qualità di vita dei popoli, è ormai superata. All’inizio del secolo scorso la proporzione della ricchezza tra Nord e Sud del mondo era in rapporto di 8:1, oggi è di 70-80:1. D’altra parte, è ormai un concetto acquisito quello per cui si deve seguire e gestire la globalizzazione e non lasciarla a se stessa. Proprio in occasione del G8 questo è stato ribadito da autorevoli pulpiti. Resta un esame di coscienza sempre valido: l’informazione dà conto abbastanza di questi dati e soprattutto delle possibili vie di fuga da un mondo sempre più sbilanciato tra chi ha il problema di come mantenere la linea, dosando o dissolvendo calorie, e chi ha ancora l’incubo di come riempire la pancia.? E’ sempre difficile raccontarli nelle stesse pagine.
Infine, visto che ci permettiamo un esame di coscienza, ci concediamo anche una raccomandazione: lasciamo aperta la comunicazione e vigile l’informazione sulle ragioni, anche confuse o mescolate, del cosiddetto popolo di Seattle, nonché popolo di Genova. E questo sia che i vertici si tengano in Italia sia che siano ospitati in altri paesi con spazi più o meno aperti. Ci dovremmo chiedere cosa avrebbe fatto Carlo Giuliano, nel dopo Genova, se la scena dell’estintore non fosse stata girata, cosa fanno o non fanno tanti suoi compagni di piazza all’interno o ai margini della società civile.
C’è ancora da domandarsi chi organizza in vista degli eventi i black block, o da approfondire le ragioni dei missionari che, come suor Patrizia Pasini o Frei Betto, non hanno esitato ad esserci a Genova, nonostante il tam tam informativo sui rischi del vertice, sul rischio annunciato che tutto venisse comunicato in secondo piano rispetto alla voce della violenza.